H. G. Wells


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1 agosto 2018

 

La robotizzazione del mondo

di Emanuel Pietrobon

 

Il nuovo millennio apparterrà ai robot, perfetti sostituti di operai, commessi, soldati e anche di prostitute, ma la sottovalutazione degli effetti negativi della robotizzazione potrebbe portare a degli scenari distopici.

 

Nel 1901 H. G. Wells pubblicò The First Men in the Moon, un romanzo visionario incentrato sul primo allunaggio dell’uomo per mezzo di una nave spaziale. Fantascienza fino al 1969, quando la missione spaziale Apollo 11 portò Neil Armstrong e Buzz Aldrin a camminare sulla Luna. Nel 1987 gli sceneggiatori Edward Neumier e Michael Miner immaginarono l’avvento di androidi con compiti di ordine pubblico, il soggetto fu trasposto per il grande schermo da Paul Verhoeven e si trasformò in una pietra miliare del cinema d’azione hollywoodiano: RoboCop. Fantascienza fino ad oggi, perché in diversi paesi, tra cui Israele, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti,

 

esistono robot poliziotti adibiti all’ordinaria amministrazione, mentre le ambizioni dei settori ricerca e sviluppo dei programmi militari di Russia, Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese puntano alla costruzione di veri e propri robot soldato.

 

Tanti sono gli esempi che mostrano come la fantascienza sia in qualche modo dotata di poteri profetici, perché l’intelligenza artificiale o i viaggi spaziali non sono più appannaggio di autori visionari, ma una realtà che nei prossimi decenni sconvolgerà profondamente la quotidianità del normale produttore-consumatore e l’ordine economico e politico internazionale. Il mondo è già oggi pienamente incamminato verso la robotizzazione, guidata dalle grandi multinazionali e dalle superpotenze militari ed economiche: il cassiere al supermercato e al fast food è stato rimpiazzato dalla cassa automatica, l’addetto alla catena di montaggio è stato sostituito da una macchina assemblatrice, la calcolatrice ha preso il posto del calcolo a mente, e droni comandati a pilotaggio remoto uccidono terroristi al posto dei soldati. Non solo economia e sicurezza, ma la stessa sfera sociale è ormai profondamente mutata: la vita reale è stata sostituita dal mondo virtuale, ed aumentano coloro che soffrono di disagi legati all’impatto della virtualizzazione e dell’internetizzazione, come gli hikikomori – un termine giapponese che definisce un fenomeno ormai mondiale.

In principio furono la catena di montaggio di Henry Ford e la de-umanizzazione del luogo di lavoro di Frederick Taylor, in seguito arrivarono le innovazioni nel processo produttivo di Taiichi Ohno e Eiji Toyoda che rivoluzionarono il modo di produzione capitalistico in Giappone attraverso la produzione just in time, trasformando anche i lavori più banali in attività alienanti e scientifizzate con gli uomini al servizio delle macchine.

 

Cassa automatica supermercato

Nell’immaginario collettivo la robotizzazione è ancora dipinta come qualcosa di fantascientifico ma spesso si tratta, molto più semplicemente, della sostituzione di un cassiere con una cassa self service rapida e multilingue, funzionale ad aumentare i profitti e ridurre il costo del lavoro per un imprenditore. I numeri di questa de-umanizzazione del lavoro sono impressionanti: nel 2013 nel mondo erano attive circa 200mila casse self service, che dovrebbero aumentare a 325mila unità entro il 2021 secondo le previsioni formulate dalla BBC nell’inchiesta The Unpopular Rise of Self-Checkouts.

 

Nella fattispecie i posti di lavoro vengono tolti essenzialmente a persone non qualificate per essere dati a delle macchine: un’automatizzazione dagli esiti marxiani più che ricardiani, perché l’aumento dei profitti registrati dagli imprenditori al tempo t non genera al tempo t+1 un’espansione degli investimenti in forza lavoro capace di assorbire interamente la manodopera espulsa dal mercato a causa della disoccupazione tecnologica, perché il capitale viene impiegato in primo luogo nell’acquisizione di nuove macchine e in parte minore in uomini. Quando si parla di robotizzazione e disoccupazione tecnologica è necessario parlare anche di Amazon, la più grande compagnia di commercio elettronico al mondo, i cui proventi annuali sono superiori al pil di paesi in via di sviluppo come Kenya o Algeria. Amazon sta investendo miliardi di dollari nel settore ricerca e sviluppo, con focus su robotica e intelligenza artificiale, per ridurre i tempi delle spedizioni e accelerare i ritmi lavorativi nei magazzini. Nel 2012, la compagnia ha acquistato Kiva Systems, un’azienda specializzata in robotica da lavoro, per 775 milioni di dollari, con l’obiettivo preciso di produrre robot capaci di svolgere mansioni direttive, di trasporto e di controllo degli ordini.

Da quella data ad oggi, Amazon ha raggiunto importanti risultati, come la creazione di decine di centri di smistamento parzialmente automatizzati e la sperimentazione dei primi

 

Amazon drone

droni spedizioneri, mentre i robot magazzinieri hanno smesso di essere un sogno recondito per diventare un progetto su carta che si intende trasporre in realtà nel prossimo futuro. Le implicazioni degli ambizioni progetti di Amazon sono enormi, dal momento che il punto d’arrivo di tutto questo è la completa sostituzione della forza lavoro umana con una robotica, un fenomeno che sta avendo luogo a ritmi serrati, soprattutto negli Stati Uniti, dove fra il 2013 e il 2017 i robot impiegati nei magazzini sono aumentati da 30mila a 125mila e, a questo ritmo, entro il 2020 circa il 20% della forza lavoro impiegata da Amazon nel paese potrebbe essere robotica. Gli obiettivi di massimizzazione del profitto e attenzione verso il consumatore stanno però, già oggi, mostrando i loro effetti perversi sul mercato del lavoro. Secondo quanto emerso da Sales Not Jobs, un servizio-inchiesta di Quartz dell’anno scorso, le azioni di Amazon starebbero distruggendo più posti di lavoro di quanti ne creano e l’industria della vendita al dettaglio statunitense, la principale vittima del commercio elettronico, starebbe bruciando circa 25mila posti di lavoro l’anno.

 

Per capire quali possono essere le ricadute della robotizzazione dei processi produttivi sull’occupazione si può anche mantenere l’attenzione in casa, ossia in Italia. Il centro logistico Amazon di Castel san Giovanni (Piacenza) è il più grande della compagnia nel nostro paese e impiega 1500 lavoratori, si tratta di una sede operativa tradizionale, ossia scarsamente automatizzata e pertanto incentrata sul lavoro umano. Il centro semi-automatizzato aperto recentemente a Rieti ha invece richiesto l’assunzione di 1200 persone, questo significa che la robotizzazione del processo produttivo costa un quinto dell’occupazione totale, e non pesa soltanto sulla concorrenza, ma sul mercato del lavoro complessivo.

 

Amazon rappresenta indubbiamente il paradigma della robotizzazione del lavoro per eccellenza, ma la realtà è che ogni impresa, media, grande e gigante, sta investendo risorse nella stessa direzione, perché investire in robot significa difendere il profitto dalla volatilità della domanda dei beni, dalle richieste di salari dignitosi dei lavoratori e dalla concorrenza spietata sui mercati. Il costo di questa rivoluzione nel modo di produrre e pensare il lavoro sarà però pagato dai lavoratori: il Forum economico mondiale ha previsto la perdita di 7 milioni di posti di lavoro nel mondo fra il 2015 e il 2020, PriceWaterhouseCoopers ritiene che, nello scenario peggiore, nel prossimo futuro la robotizzazione negli Stati Uniti causerà l’espulsione dal mercato del lavoro di 1 lavoratore su 3, mentre il McKinsey Global Institute ha previsto che tra il 2030 ed il 2055 da un minimo di 400 milioni a un massimo di 800 milioni di lavoratori, nel mondo, potrebbero non trovare un impiego per le stesse ragioni.

I robot Kiva usati nello stabilimento Amazon di Rieti

 

La robotizzazione però non riguarda soltanto il mondo del lavoro, ma anche la sicurezza e gli affari militari: il futuro della guerra non è l’atomica, sono i robot. Secondo Brookings Institution la US Air Force dal 2008 ad oggi ha investito più risorse nello sviluppo della tecnologia dronistica che in altri ambiti tradizionali, addestrando anche più militari al pilotaggio dei droni che degli aerei tradizionali. Nel 2008 i droni rappresentavano il 3,3% dell’intero arsenale dell’aviazione statunitense, un numero cresciuto sino a quota 8,5% nel 2013. Nell’epoca della guerra post-moderna e post-eroica, in cui ai bombardamenti massicci sono preferiti gli attacchi chirurgici, e agli assalti contro le postazioni nemiche sono preferiti gli omicidi mirati eseguiti a distanza, il drone è infatti il miglior strumento a cui affidare il destino delle operazioni militari. Anche la robotizzazione della guerra, però, ha degli effetti perversi.

 

Secondo il senatore del congresso americano Lindsey Graham, autore di un rapporto sui risultati della guerra al terrore dal 2001 al 2013, la maggior parte dei caduti durante le operazioni con droni sarebbero delle vittime collaterali, ossia dei civili colpevoli di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Il ricorso eccessivo ai droni per ridurre le perdite da parte statunitense ha però, con il tempo, incrinato i rapporti con due paesi-chiave nella lotta al terrorismo, ossia Afghanistan e Pakistan, proprio per via dell’elevato numero di vittime civili causato dai droni, motivo di crescente astio verso l’amministrazione Obama sia tra le popolazioni locali che tra le classi politiche dei suscritti. I tentativi statunitensi di nascondere il lato oscuro della guerra al terrorismo condotta con i droni sono stati oggetto di inchieste anche da parte di Amnesty International che in Will I be next? ha paragonato la guerra con i droni a dei crimini di guerra. Riguardo la discutibilità dell’effettiva efficacia dei droni ha parlato anche The Intercept, denunciando lo scandaloso fallimento dell’operazione Haymaker, effettuata quasi completamente con l’ausilio dei droni tra gennaio 2012 e febbraio 2013 in Afghanistan contro i talebani. A fine missione, un bilancio pesante: 200 morti, di cui solo 35 appartenenti ai talebani, in altri termini significa che il 90% delle vittime erano civili.

 

Economia e guerra a parte, è interessante anche approfondire l’impatto della robotizzazione sulle relazioni sociali. Come nel campo del lavoro si tratta di sostituire un cassiere con una cassa automatica, nella sfera umana si tratta di preferire il mondo virtuale alla realtà, una vita dietro lo schermo al contatto fisico, o un androide dalle sembianze femminili ad una donna vera. Ogni anno si stima nel mondo siano venduti oltre 2mila robot sessuali, ad un prezzo medio di circa 5mila euro, un mercato in crescita, dagli introiti milionari, soprattutto in Stati Uniti e Giappone, ma in espansione anche in Europa occidentale. Alcuni scienziati sociali ed esperti di robotica, come Martin Ford, Kathleen Richardson e Helen Driscoll, parlano addirittura dell’emergere di una nuova rivoluzione sessuale di natura robotica, caratterizzata dal soddisfacimento del bisogno e del desiderio sessuale attraverso la tecnologia.

 

In Giappone, negli Stati Uniti e in Francia, già oggi esistono decine di case chiuse per consumatori di sesso robotico, la cui proliferazione può soltanto equivalere all’esistenza di una domanda consolidata ma nascosta al pubblico soprattutto perché considerata alla stregua di un tabù o di una perversione sessuale da curare. La professoressa Richardson crede che la robosessualità sia un problema di ordine sociale da non sottovalutare, alla luce della sua diffusione tra sociopatici, emarginati sociali, pedofili e seguaci delle più perverse forme di bondage e sadomaso, che proprio attraverso l’utilizzo di un androide possono in tal modo soddisfare le loro voglie più estreme. Il consumo di una fantasia violenta o anti-convenzionale con un robot sessuale, però, non eliminerebbe dalla mente umana la voglia di sperimentarla nella realtà, anzi la accentuerebbe, per questo sarebbe necessario contrastare l’avvento di questo “nuovo orientamento sessuale” attraverso l’educazione e campagne di sensibilizzazione. La psicologa del sesso Helen Driscoll crede invece che il futuro approfondimento della tecnologia in questo settore porterà alla costruzione di androidi intelligenti capaci di interazioni, emozioni ed empatia con il partner sessuale, facilitando lo sdoganamento della robofilia tra le persone, con conseguenze importanti sull’idea tradizionale di coppia e di sesso.

 

Qualsiasi possa essere la direzione che seguirà lo sviluppo della robotica nel prossimo futuro, alcune preliminari analisi di scenario possono già oggi essere effettuate. Per quanto riguarda il mondo del lavoro, è evidente che la robotizzazione porterà ad una riduzione del fabbisogno di forza lavoro umana dalle conseguenze drammatiche sull’occupazione e che, pertanto, economisti e statisti già oggi dovrebbero iniziare a studiare delle metodologie di contrasto, come assegni per i consumi, fornitura diretta e gratuita di alcuni beni e servizi, redditi di cittadinanza universali. Negli Stati Uniti il dibattito su come affrontare la disoccupazione tecnologica cronica che sarà generata dalla robotizzazione nel prossimo futuro iniziò nel 1964, con la formazione del Triple Revolution Committee, un tavolo di studio composto da eminenti scienziati ed economisti con l’obiettivo di fornire soluzioni efficaci ai problemi che sarebbero sorti con l’imminente rivoluzione nella cibernetica. Il comitato concluse che l’unico modo di attenuare gli effetti della transizione da un sistema lavorativo umano-centrico a uno robo-centrico sarebbe stata una politica dirigista dell’economia basata su massicci interventi regolatori e investimenti federali in opere pubbliche, affiancata da una vasta redistribuzione dei redditi e da un reddito universale.

La robotizzazione è una realtà con cui fare i conti e il futuro assetto delle relazioni internazionali dipenderà anche dal modo in cui gli Stati sapranno affrontare questa transizione, sapendo investire simultaneamente in progresso tecnologico e sviluppo umano, sensibilizzando gli imprenditori sui danni all’intera società dell’eccessiva automazione, ma anche fissando dei paletti in termini di etica da non superare nell’utilizzo dei robot in determinate sfere dell’attività umana, altrimenti il rischio è l’entrata del mondo in uno scenario distopico.