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16 Agosto 2018

 

Darwin, Edgar Allan Poe e il tesoro perduto delle Galàpagos

di Gianluca Barbera

 

Pubblichiamo un racconto di Gianluca Barbera, autore di “Magellano”, romanzo che racconta la prima circumnavigazione del globo da parte del navigatore portoghese tra ammutinamenti, tempeste, gelo polare, scontri con feroci tribù e tradimenti

 

Giunti all’Equatore inquadrammo finalmente nel cannocchiale le Galápagos, isole vulcaniche situate a seicento miglia dalla costa americana nelle quali è presente la più grande varietà di specie animali endemiche che si possa immaginare e dove si contano non meno di duecento crateri: alcuni immensi e situati a un’altezza di oltre mille metri, altri piccoli e a pochi metri dal suolo, la gran parte dei quali sputacchianti fumo. A un primo sguardo tutti quei vulcani appaiono bucherellati come formaggi, dal momento che sui loro fianchi si aprono piccole bocche secondarie da cui escono mefitiche esalazioni. Le tredici isole che compongono l’arcipelago, sette grandi e sei piccole, sono state a lungo frequentate da scaltri bucanieri e da indomiti cacciatori di balene e di foche; solo di recente l’uomo vi ha fondato delle colonie con l’intento di durare: si tratta per lo più di spagnoli e portoghesi che hanno costruito i loro tuguri nell’entroterra, su colline da cui è possibile dominare con lo sguardo l’intero orizzonte. Nell’arcipelago vivono ventisei specie di uccelli, una grande varietà di rettili, presenti solo qui e da nessun’altra parte, oltre a capre e maiali selvatici in abbondanza, importati dai primi coloni.

È questo delle Galápagos un piccolo mondo a sé stante, con specie endemiche che mostrano un incredibile numero di variazioni da isola a isola. Alcune sono senz’altro autoctone, altre alloctone. Tutte però paiono avere subito mutazioni dovute all’adattamento al clima e all’ambiente.

Se in queste isole il clima non è troppo caldo lo si deve alle correnti provenienti dal Polo Sud che rendono gelide le acque che le circondano. Piove pochissimo, perciò le parti più basse delle isole sono aride, mentre quelle che si elevano sopra i trecento metri appaiono coperte di una vegetazione rigogliosa, specie nei versanti più esposti al vento.

La mattina del 17 settembre, per tornare a noi, attraccammo davanti all’isola di Chatham, una delle maggiori, dove un paio d’ore dopo sbarcammo a bordo di una scialuppa così carica di passeggeri e attrezzature da tenersi a malapena sopra il livello di galleggiamento. Quest’isola, che deve il nome al conte di Chatham, ha un profilo liscio e tondeggiante, e un terreno per lo più composto di nera lava basaltica, punteggiato di crateri e collinette brulle e spezzato di tanto in tanto da paurosi crepacci che scendono nelle profondità marine. L’aria è solitamente ferma e secca, addirittura stagnante. Dai cespugli pare sprigionarsi un odore di putrefazione che in un men che non si dica dà alla testa.

Per ragioni che mi sfuggono il capitano Fitzroy parve appassionarsi così tanto a quest’isola da ignorare le altre, almeno al principio; perciò per una intera settimana non facemmo che girarle attorno sostando in ogni singola insenatura e perlustrando l’entroterra. Ma non fu tutto tempo perduto: mentre ci arrampicavamo per tondeggianti scogliere a picco sull’oceano notammo decine di lucertoloni di colore nerastro con piccole striature gialle. Erano lunghi all’incirca un metro e mezzo e dovevano pesare non meno di dieci chili. Si sarebbero detti dei coccodrilli in miniatura. Credo che il loro nome scientifico sia Amblyrhynchus. Se ne stavano stesi al sole, come inebetiti. Ma al primo rumore l’intero branco si tuffò in acqua. La guida spagnola ci spiegò che fintanto che rimangono sulla terraferma paiono creature ottuse e impacciate; ma non appena si calano in mare diventano velocissime e infide, capaci di resistere in immersione più a lungo di ogni altra specie priva di branchie. Nei giorni seguenti un marinaio ne catturò un esemplare e lo tenne sott’acqua per un paio d’ore con un peso attaccato a una zampa, dopo averlo assicurato a una fune. Quando lo liberò quell’essere abominevole se la filò più svelto di un’anguilla.

Più tardi, mentre attraversavamo una radura sotto il solleone, ci imbattemmo in gigantesche tartarughe del peso di oltre un quintale, appartenenti alla varietà nota come Testudo nigra. Una di esse si fermò a fissarmi in un modo che non mi piacque e poi riprese il suo cammino come se avesse stabilito che non valeva la pena prendersi alcun disturbo. Altre, invece, più canonicamente ritrassero la testa e le zampe e se ne rimasero immobili per alcuni minuti, come morte. Pare incredibile ma questi animali sono capaci di coprire fino a otto o nove chilometri al giorno con quella loro andatura tanto paziente quanto irritante. Provai a montare sul dorso di una di esse e poi diedi alcuni colpetti sul posteriore dello scudo per farle riprendere la marcia, ma mi accorsi subito che mantenersi in equilibro su quella dura scorza era impresa ardua, tanto che finii per ruzzolare a terra scatenando l’ilarità generale.

Il vecchio spagnolo che ci guidava spiegò che in passato, ogni volta che una nave faceva tappa alle Galápagos, non ripartiva senza aver prima fatto un carico di tartarughe. I vecchi bucanieri che approdavano su queste isole ne facevano incetta come fossero mandrie di bovini, imbarcandone a centinaia. La carne di queste tartarughe, arrostita dentro il guscio o anche sotto sale, è più squisita di quanto si immagini; senza contare che da una singola tartaruga si possono ricavare fino a cento chili di carne fresca e parecchi pentoloni di ottima zuppa; mentre dal grasso si ricavano discrete quantità di olio da combustione. Ma non mettetevi in testa che sia facile sollevare una di queste bestiacce: vi assicuro che servono perlomeno sei o sette uomini dei più robusti. I vecchi maschi sono i più grossi e sembrerebbero in grado di campare in eterno, se non intervenisse qualche fattore esterno: difatti tutte le vecchie tartarughe morte che trovammo per l’isola erano invariabilmente decedute per cause accidentali. Alcune precipitate da un dirupo, altre rimaste incastrate in un crepaccio e morte per inedia. Qualcuno sostiene che questi animali siano sordi, ma in tal caso non si capirebbe perché mai i maschi, prima e dopo l’accoppiamento, emettano dei piccoli muggiti udibili anche a un centinaio di metri di distanza. Le femmine, assai più svelte, depongono le loro grosse uova nascondendole sotto la sabbia o in anguste cavità tra le rocce, in modo da metterle al riparo dall’assalto delle poiane, che ne vanno ghiotte.

Queste speciali tartarughe di terra si cibano prevalentemente di cactus e delle foglie degli alberi di basso fusto. Bevono quantità spaventose d’acqua e lo fanno in un modo che ci sorprese. Ficcano infatti la testa quasi per intero dentro l’acqua, fin sopra gli occhi, e inghiottono a grandi sorsate e senza interruzione alla media di una decina di trangugiate al minuto. Si trattengono presso la sorgente d’acqua per tre o quattro giorni di fila, finché non hanno fatto il pieno, e poi ripartono, non preoccupandosi più di bere per settimane. A volte, subito dopo aver bevuto, hanno le vesciche urinarie così piene che quando gli abitanti dell’isola sono assediati dalla sete, nei periodi di maggiore siccità, non devono far altro che catturare una di queste bestiacce e bere la loro urina spremendola dalle vesciche: il liquido che ne esce è limpido e quasi insapore, se non si calcola un lieve sentore amarognolo. Catturarle però non è facile: non basta rovesciarle sul dorso, poiché sono in grado di raddrizzarsi rapidamente con dondolamenti e piccole spinte delle zampe posteriori: bisogna usare delle apposite reti per imbrigliarle e poi trascinarle via.

Sia come sia, dopo esserci intrattenuti qualche tempo con questi stravaganti esemplari di tartaruga proseguimmo lungo un sentiero che si inerpicava su per una collina di lave recenti, giungendo un paio d’ore dopo in vista di un cratere tufaceo in fondo al quale splendeva un lago salato dalla forma circolare, cinto da una vegetazione di piante grasse di un verde smeraldo. Le pareti del cratere erano ammantate di boschi. A un tratto sbattei i piedi contro qualcosa di duro. Chinai lo sguardo e mi accorsi che si trattava di un teschio. La guida spagnola ci spiegò che vi erano due versioni in grado di spiegare quel ritrovamento: secondo una prima versione quello che avevamo davanti era il teschio del comandante di una nave di cacciatori di foche trucidato dai suoi stessi marinai. Secondo un’altra versione, invece, il teschio sarebbe appartenuto a uno dei bucanieri assassinati dal loro comandante dopo aver sepolto un favoloso tesoro, frutto di anni di rapine e saccheggi per i quattro angoli del globo. Dopo aver rinvenuto tra i cespugli qualche altro osso umano, tra cui una tibia e una scapola, la guida ci invitò a sedere su alcuni tronchi decisa a raccontarci l’intera storia, sollecitata in questo dal sottoscritto, da sempre appassionato di questo genere di avventure.

“Centocinquant’anni fa” prese a raccontare con voce arrochita da un uso smodato di tabacco “il famoso bucaniere Ambrose Cowley giunse da queste parti. Inseguito com’era da un paio di galeoni spagnoli che gli avrebbero dato la caccia fin oltre le porte dell’inferno, pensò bene di sbarcare in quest’isola per mettere in salvo le sue ricchezze seppellendole nel punto che ritenne più adatto allo scopo. Naturalmente dovette farsi aiutare da alcuni marinai che – una volta esaurita la loro funzione – non si fece scrupolo di liquidare con qualche colpo di piccone ben assestato. Da allora, in molti si sono dati da fare alla ricerca del tesoro del capitano Cowley, ma senza fortuna. Quelle ossa che vedete sono tutto ciò che, un tentativo dopo l’altro, i nostri bravi cercatori di tesori sono stati in grado di disseppellire” concluse.

Ascoltando le sue parole mi era venuto alla mente lo strano racconto, letto qualche tempo addietro, di un certo Mr Poe, americano di Boston, che parlava per l’appunto di tesori pirateschi e del modo di riportarli alla luce. E fu così che ebbi l’idea che ci condusse alla meta.

“Sentite” dissi. “Se prendessimo per vera la seconda versione della storia, ossia quella riguardante il teschio e le ossa, e ci mettessimo a scavare tutt’attorno a quell’albero?”.

“Buon dio” fece Fitzroy. “Mio caro Darwin, per caso è impazzito? Non avrà tenuto il capo troppo scoperto prendendosi un colpo di sole, voglio sperare!”.

“Niente affatto” mi affrettai a tranquillizzarlo. “È da qualche minuto che mi frulla in capo un’idea che vorrei mettere alla prova, se permette. Non ci porterà via troppo tempo e forse alla fine, come vedrete, ne sarà valsa la pena. Se la mia teoria è giusta, torneremo in patria con ben altro che reperti naturali e fossili. Non che li disdegni, sia chiaro: tutt’altro. Ma il denaro su cui, con un pizzico di fortuna, metteremo le mani ci servirà per finanziare altre spedizioni. Che ne dite?”.

“Davvero non saprei… Se proprio ritenete che vi sia una minima possibilità, perché no” fece Fitzroy fissandomi in modo strambo. “Ma consentitemi una domanda: che cosa vi fa supporre che dovremmo scavare proprio attorno a quell’albero di pania?”.

Sorrisi soddisfatto di me stesso come mai prima d’ora. “Per la semplice ragione” risposi “che il buon capitano Cowley, non fidandosi della propria memoria, ha pensato bene di lasciare sul posto un segno inequivocabile: perlomeno questo è ciò che mi ha suggerito il mio fiuto fin dal primo momento in cui ho gettato l’occhio su quell’albero. Non ci resta che appurarlo”.

Fitzroy scosse il capo come di fronte a un rebus insolubile. “Parola mia, non capisco un’acca di ciò che dice. È sicuro di sentirsi bene?”.

“Mai sentito meglio” risposi fin troppo su di giri, posandogli amichevolmente una mano sulla spalla. “E ora diamoci da fare”.

Mi avviai verso l’albero di pania e, raggiuntolo, mi chinai come in preghiera e cominciai a frugare nel terreno, tra i cespugli cresciuti ai piedi del tronco. Un attimo dopo mi rialzai trionfante e mi volsi verso il mio pubblico.

“Ecco qua” feci. “Che ve ne pare?”.

Tanto la guida quanto il capitano Fitzroy e gli altri due marinai che ci avevano scortati fin lì mi fissavano increduli.

“Ma Mr Darwin: lei ha in mano l’osso femorale di qualche sventurato. E non vedo come potrebbe condurci a un tesoro” disse il capitano, preoccupato.

“Non avete fatto bene attenzione. Avvicinatevi e capirete”.

Tanta baldanza dovette spiazzarli.

Quando furono a pochi passi il capitano Fitzroy proruppe in una esclamazione delle sue: “Perbaccolina, e quella corda da dove sbuca?”.

“Precisamente” dissi esultante. “Come vedete, è legata al tronco dell’albero. Se la tendo… ecco, così, la sua estremità se ne allontana di… all’incirca cinque o sei passi buoni”.

“Quel che non capisco è che ci faccia quel femore legato alla sua estremità” disse acido il capitano Fitzroy.

“Al tempo” risposi, sempre più divertito.

Tendendo la corda al massimo e puntando sul terreno un’estremità dell’osso femorale, come l’asta di un compasso, indicai il punto in cui bisognava scavare.

“Ecco, esattamente qui”.

“Parola mia, non ci capisco un’acca” ripeté il capitano. “Come diavolo fa a sapere che dobbiamo scavare proprio in quel punto?”.

“Se permettete, ve lo spiegherò dopo. Non c’è tempo da perdere, si sta facendo sera”.

Mandammo alla nave una staffetta, che ritornò con tre pale e due picconi.

Io e i due marinai cominciammo a scavare. Due ore dopo la mia pala cozzò contro qualcosa di duro. Nella mezz’ora seguente avevamo riportato alla luce sei grosse casse di legno di forma allungata. Fatti saltare i lucchetti, si rivelarono ricolme di monete d’oro, banconote ormai fuori corso ma di sicuro valore antiquario (denaro francese, spagnolo, portoghese, veneziano, inglese), gioielli d’oro zecchino e pietre preziose in gran quantità: diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi. E ancora anelli, orecchini, bracciali, monili di gran valore, qualche orologio d’oro ovviamente non più funzionante e un paio di incensieri finemente cesellati, anch’essi d’oro zecchino. Siccome ai due lati i bauli avevano anelli di ferro da utilizzare come maniglie, non fu difficile sollevarli e trasportali fuori della fossa che avevamo scavato.

“Mio caro Darwin, lei è un veggente” disse estasiato il capitano Fitzroy davanti a tanto spettacolo. “Come ha fatto?”.

“Nessuna magia, mi creda”.

“Allora complimenti per il suo acume. E ora, se vuole avere la bontà di spiegare anche a noi questo prodigio…”.

“Ma certamente. In verità la spiegazione è molto semplice. Vedete, fin dal nostro arrivo in questa radura avevo notato la presenza di un grosso chiodo conficcato nel tronco di quell’albero, all’altezza circa del mio torace. Subito mi dissi che la presenza di quel chiodo non poteva essere casuale; doveva di certo indicare qualcosa. Una direzione, forse. Riandando con la mente a uno strano racconto letto qualche tempo fa, scritto da un certo Edgar Allan Poe, di Boston, Stati Uniti, pensai che, se il chiodo indicava una direzione, nei pressi dell’albero avrei trovato qualche altro indizio. Una supposizione azzardata, ne convengo; ma il mio stato di esaltazione mi trascinava senz’altro in una direzione che alla prova dei fatti si è rivelata, come potete vedere, niente affatto peregrina. E così, frugando ai piedi dell’albero, mi avvidi di questa corda, legata attorno al tronco. Capii subito che tendendola nella direzione indicata dalla tacca, cioè dal chiodo, sarei stato in grado di individuare il punto preciso in cui scavare… E così è stato”.

“E l’osso femorale?”.

“Be’, quello è stato un vezzo… un innocente scherzetto che ho voluto giocarvi. Un piccolo dettaglio che mi sono preso la libertà di aggiungere alla teatralità della situazione. Mi sono imbattuto in quel femore mentre frugavo tra i cespugli ai piedi dell’albero: e subito ho pensato di infliggervi questa piccola punizione. Devo ammettere che il vostro atteggiamento nei miei confronti mi aveva seccato parecchio. Vogliate perdonarmi…”.

“Siete senz’altro scusato” si affrettò a dire il capitano Fitrzroy, sprizzante eccitazione da tutti i pori.

“E ora, se permettete” dissi posandogli una mano sulla spalla e facendo correre lo sguardo per tutto l’arco dell’orizzonte, col vento che mi soffiava tra i capelli, “facciamo venire i rinforzi, in modo da trasportare tutte queste casse a bordo”.

Così si concluse quell’avventura.

Il 2 ottobre del 1836, quasi un anno dopo, completammo il nostro giro intorno al mondo e sul far della sera fummo in vista delle coste dell’Inghilterra, dove, a Falmouth, sbarcai e dissi addio al Beagle, al capitano Fitzroy e ai compagni coi quali avevo condiviso cinque anni di viaggio.

Alla fine, le vere ricchezze che portammo in patria non furono quelle dissepolte nell’isola di Chatham bensì tutte le specie vegetali e fossili che condussi in Inghilterra e che si rivelarono di grande utilità per i miei studi. Il tesoro di Cowley fu comunque donato al British Museum, dal quale per riconoscenza ricevetti finanziamenti utili alla prosecuzione delle mie ricerche.

E ora, se permettete, trarrò un bilancio di quel viaggio che mi vide circumnavigare il globo nell’arco di cinque lunghi anni. Vantaggi e svantaggi. Gioie e dolori, per così dire.

Ebbene, anche ammettendo che lungo il cammino non ci si imbatta in alcun tesoro, i vantaggi saranno di gran lunga superiori agli svantaggi, credetemi, a patto naturalmente che siate dei naturalisti o che siate comunque guidati da qualche scopo scientifico o di altra natura pratica. Diversamente, la mia modesta opinione è che gli svantaggi superino i vantaggi. Certo, vedere paesi e popoli tanto diversi e così lontani è fonte di grande piacere; ma questo piacere non eguaglia i disagi e le difficoltà cui si va incontro. Chi si accinga a intraprendere un simile viaggio, sappia che dovrà sopportare molte rinunce: la compagnia dei propri amici e familiari, per esempio; il piacere di godere dei luoghi cui si è legati. Per non parlare degli inconvenienti derivati dal viaggiare in uno spazio tanto ristretto: la mancanza di intimità, delle minime comodità cui siamo abituati; il dover fare tutto in fretta e male; la nostalgia per ciò che di solito allieta le nostre giornate: il piacere della conversazione, la musica, il teatro. Eppure tutto questo può dirsi compensato, se siete muniti di una certa disposizione di spirito, dalle avventure cui andrete incontro, naturalmente sempre pregustando il giorno in cui farete ritorno. Certo, se soffrite il mal di mare è meglio che rinunciate subito. In caso contrario il mio suggerimento è il seguente: partire, partire subito, senza stare a pensarci troppo. Ogni secondo in più sarà un secondo sprecato.

Tra le cose più belle che ricordo vi sono senz’altro lo spettacolo della foresta vergine, tanto quella amazzonica, dove predomina la forza dirompente della vita, che quella fuegina, dove morte e disfacimento la fanno da padrone. E poi le possenti vette andine. Ma soprattutto l’incontro con popolazioni selvagge. Non vi è nulla di più sconvolgente che incontrare popoli primitivi. E infine altri ricordi che resteranno indelebili nel mio animo: la Croce del Sud, la Nebulosa di Magellano e le altre costellazioni dell’emisfero australe, i ghiacciai a strapiombo sul mare, gli atolli corallini, i vulcani in eruzione e i terremoti cui ho assistito. Tutto questo porto nel mio cuore. Ma soprattutto la sensazione impareggiabile provata nel vivere all’aria aperta, nel dormire sotto le stelle, nel contatto con la nuda terra. Ora la mia mappa del mondo cessa di essere qualcosa di astratto per divenire tangibile. Una cosa viva, che mi apparterrà per sempre. Auguro qualcosa di simile a ciascuno di voi.

*Gianluca Barbera è autore del romanzo "Magellano" (Castelvecchi, pp. 237, euro 17,50), tra i libri dell'estate. Il romanzo racconta la prima circumnavigazione del globo da parte del navigatore portoghese, tra ammutinamenti, tempeste, gelo polare, scontri con feroci tribù e tradimenti. Un viaggio non solo fisico ma anche dell'anima.