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sabato 18 agosto 2018

 

Brividi d’agosto

di García Márquez

 

“Brividi d’agosto” è uno dei “Dodici racconti raminghi” scritti da Gabriel García Márquez nel 1992. Racconta di un suo viaggio ad Arezzo. Insieme alla famiglia va a trovare un amico che vive in un castello medievale dove, si dice, ci sia ancora la presenza del vecchio proprietario suicida. I due coniugi non credono alla storiella, ma mentre dormono nella loro camera da letto, si ritrovano misteriosamente catapultati nella stanza dove, molti anni prima, era avvenuto un delitto.

 

Brividi d’agosto

di Gabriel García Márquez

traduzione di Marina Zenobio

 

Arrivammo ad Arezzo poco prima di mezzogiorno, perdemmo più di due ore a trovare il castello rinascimentale che lo scrittore venezuelano Miguel Otero Silvia aveva comprato in quell’angolo idilliaco della campagna toscana. Era una domenica dei primi di un agosto ardente, e non era facile incontrare qualcuno che sapesse qualcosa nelle strade affollate di turisti. Dopo molti tentativi inutili tornammo alla macchina, lasciammo la città prendendo un sentiero di cipressi senza indicazioni stradali e una vecchia guardiana di oche ci indicò con precisione dov’era il castello. Prima di salutarci ci chiese se pensavamo di dormire lì, le rispondemmo, come avevamo previsto, che ci saremmo fermati solo per il pranzo.

– Meno Male – disse la donna – perché quella casa è spaventosa.

Mia moglie ed io, non credenti ai fantasmi di mezzogiorno, ridemmo di lei e della sua credulità. Ma i nostri figli di nove e sette anni sembravano contenti all’idea di conoscere un vero fantasma.

Miguel Otero Silva, che oltre ad essere un bravo scrittore era uno splendido anfitrione e una forchetta raffinata, ci aspettava con un pranzo che non avremmo mai dimenticato.

Dato che si era fatto tardi non c’era tempo per vedere l’interno del castello prima di sederci a tavola, ma il suo aspetto da fuori non aveva nulla di spaventoso, ogni inquietudine si dissipava alla vista completa sulla città, dalla terrazza fiorita dove stavamo pranzando. Era difficile credere che su quella collina di case arroccate, dove vivevano appena novantamila persone, fossero nati tanti uomini dal genio perdurabile. Tuttavia Miguel Otero Silva ci disse, con il suo umorismo, che tra essi non c’era il più insigne di Arezzo.

– Il più grande – sentenziò – è stato Ludovico.

Così, senza cognome. Ludovico, il grande signore delle arti e della guerra che aveva costruito il castello della sua disgrazia, e del quale Miguel non parlò più nel corso del pranzo. Non parlò del suo potere immenso, del suo amore contrastato e della sua morte raccapricciante. Non raccontò come fu, che in un istante di pazzia del suo cuore, pugnalò la sua signora nel letto dove avevano appena finito di amarsi, dopo di che incitò contro se stesso i suoi feroci cani da guerra che lo fecero a pezzi.

Ci assicurò, molto seriamente, che a partire dalla mezzanotte lo spettro di Ludovico avrebbe deambulato tra le tenebre della casa alla ricerca di pace nel suo purgatorio di amore.

Il castello in realtà era immenso e cupo, ma in pieno giorno, con lo stomaco pieno e il cuor contento, la storia di Miguel non poteva sembrare altro che uno scherzo come tanti dei suoi con cui intrattenere i suoi invitati.

Le ottantadue camere che avevamo visitato senza stupore dopo il pisolino pomeridiano, avevano sofferto ogni tipo di cambiamenti da parte dei loro successivi padroni. Miguel aveva completamente restaurato il piano terra e si era fatto costruire una camera da letto moderna con pavimento di marmo e installazioni per la sauna e l’attività fisica, e la terrazza dove avevamo pranzato.

Il secondo piano, il più usato nel corso dei secoli, era una successione di camere senza carattere, con mobili di varie epoche abbandonati al loro destino. Però nell’ultima si conservava un’abitazione intatta, dove il tempo si era dimenticato di passare. Era la camera da letto di Ludovico.

Fu un momento magico. C’era il letto a baldacchino con tende ricamate in filo d’oro e il copriletto con meravigliose passamaneria sulle quali, però, c’era ancora il sangue secco dell’amante sacrificata. C’era il camino con le ceneri fredde e l’ultimo pezzo di legno trasformato in pietra, l’armadio con le sue armi ben conservate, in una cornice d’oro il ritratto ad olio del cavalier pensando, dipinto da qualcuno dei maestri fiorentini che non ebbero la fortuna di sopravvivere al loro tempo. Tuttavia, ciò che più di altro mi impressionò, fu l’odore di fragole fresche che permaneva instancabile, e senza possibile spiegazione, nella zona notte.

I giorni estivi in Toscana sono lunghi e parsimoniosi, l’orizzonte rimane al suo posto fino alle nove della notte. Quando terminammo il giro del castello erano passate le cinque, ma Miguel insistette per portarci a vedere gli affreschi di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco. Dopo prendemmo un caffè conversando piacevolmente sotto i pergolati della piazza e quando tornammo per riprendere le valige trovammo la cena servita. Cosicché si fermammo a cenare. Mentre cenavamo, sotto un cielo malva con una sola stella, i bambini presero alcune torce dalla cucina e se ne andarono ad esplorare le tenebre dei piani alti. Dalla tavola si sentivano il loro galoppare da cavalli selvaggi per scale, gli scricchiolii delle porte, le grida felici che chiamavano Ludovico nelle camere tenebrose. Fu allora che ci venne la pessima idea di fermarci a dormire lì. Miguel Otero Silva era felicissimo e noi non avemmo l’animo di dire no.

Al contrario di quanto temuto, dormimmo benissimo, mia moglie ed io in una stanza da letto del piano terra, i miei figli nella camera accanto. Entrambe erano state modernizzate e non avevano nulla di tenebroso. Mentre cercavo di prender sonno contai i dodici rintocchi insonni dell’orologio a pendolo della sala e mi ricordai delle paurose avvertenze della guardiana delle oche. Ma eravamo così stanchi che ci addormentammo molto presto, un sonno denso e continuativo. Mi svegliai alle sette con un sole splendido fra i rampicanti della finestra. Accanto a me mia moglie navigava nel quieto mare degli innocenti.

“Che stupidaggine – mi dissi -, che qualcuno continui a credere ai fantasmi ai nostri tempi”. Solo allora mi fece rabbrividire l’odore di fragole fresche, e vidi il camino con la cenere fredda e l’ultimo pezzo di legno trasformato in pietra, e il ritratto del cavaliere triste che, nella cornice d’oro, ci guardava da tre secoli.

Non ci trovavamo più nell’alcova del piano terra dove ci eravamo addormentati la notte prima, ma nella camera da letto di Ludovico, sotto il baldacchino, le tende polverose e le coperte zuppe di sangue, ancora caldo, del suo maledetto letto.