http://espresso.repubblica.it/

29 ago 2018

 

"Sulla mia pelle", Netflix porta il caso Cucchi in 190 paesi. Con coraggio e rigore

di Fabio Ferzetti 

 

Un gesto di coraggio. Aprire Orizzonti, il concorso bis di Venezia, con un film sul caso Cucchi, non era affatto scontato. La Mostra di Barbera lo ha fatto ed ecco qui Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, in sala il 12 settembre e in contemporanea su Netflix. Non solo in Italia ma in 190 paesi, diconsi centonovanta. Se lo vedono anche solo mille persone a paese fa 190.000 spettatori in tutto il mondo. Centonovantamila spettatori - ma saranno molti di più - che si caleranno in una storia raccontata nel modo più universale possibile, ma si faranno anche qualche domandina sull’Italia.

 

Altro che “i panni sporchi si lavano in casa”, per citare l’immortale (e immorale) battuta di Andreotti. Qui c’è il calvario di un tossicomane 31enne arrestato perché trovato in possesso di 20 dosi di hashish e 2 grammi di coca, morto nemmeno una settimana più tardi dopo aver subìto di tutto. Come il film di Cremonini racconta con puntiglio agghiacciante, evitando come la peste sociologismi, melodramma, ricatti sentimentali, deliri di onniscienza. Chi era “davvero” Stefano Cucchi, il film non lo dice. Semmai ce lo mostra in tutta la sua contraddittorietà, grazie anche all’interpretazione davvero impressionante di Alessandro Borghi, 18 chili in meno e un lavoro di identificazione che rasenta la psicosi. Voce strozzata e tendente al falsetto, quel falsetto da romano di borgata che nella capitale si accompagna a sarcasmo e battuta pronta, gesti misurati, occhi di ghiaccio ma ghiaccio bollente. E un misto letale di paura, orgoglio, temerarietà, diffidenza, anzi sfiducia. Una sfiducia cosmica che accompagna e in qualche modo prepara la via crucis di Stefano.

In quei sei giorni tra commissariati, tribunale, reparti medici e ospedali, Cucchi entra in contatto con almeno 140 persone. Nessuno, o quasi, fa niente per aiutarlo, o almeno per accertare davvero in che condizioni si trova. Ma anche lui non si aiuta. Rifiuta le cure, per disprezzo o per orgoglio. Non accusa i suoi boia, temendo ritorsioni o forse pensando di farlo una volta fuori. Allude, aspettandosi di essere capito. Accusa, poi ritira la mano. Chiede continuamente di parlare con l’avvocato e nessuno lo accontenta. Gli sceneggiatori si sono studiati 10.000 pagine di atti, hanno setacciato ricordi pubblici e privati, interrogato familiari e amici, studiato registrazioni audio e video.

 

Ne è uscito un film che può evocare il magnifico Hunger, il capolavoro di Steve McQueen  con Michael Fassbender sullo sciopero della fame di Bobby Sands nelle carceri irlandesi, sia pure senza quell’incandescenza stilistica; e qua e là- esageriamo -  perfino la sublime Giovanna d’Arco di Dreyer, anche se impianto e linguaggio sono quelli di un moderno tv movie. Un film asciutto, concentrato, essenziale, che non ricorre a chissà quali soluzioni di regia, ma alla fine non spiega nulla e per essere apprezzato a fondo chiede allo spettatore un vero lavoro di interpretazione. Costringendolo anche a entrare in qualche modo nella testa del protagonista, con i suoi sensi di colpa di figlio tossicomane e bugiardo. Non una semplice “vittima”, funzione tutto sommato comoda al cinema, ma un personaggio molto più complesso e sfumato.

 

Alzi la mano chi si aspettava un prodotto così radicale da Netflix. Vale la pena ricordare che in Italia il caso è ancora aperto e il film si è fatto senza il minimo aiuto da parte delle istituzioni. Non un’auto, una divisa, una stanza sono state messe a disposizione dei carabinieri, per esempio. Il sasso insomma è lanciato. Ora vedremo il resto.

 

https://www.huffingtonpost.it/

29/08/2018

 

Alessandro Borghi: "Mentre recitavo avrei voluto urlare 'aiuto' al posto di Cucchi". Il film conquista il Lido

By Giuseppe Fantasia

 

Oggi al Lido Alessandro Borghi, protagonista nei panni di Cucchi nel film 'Sulla mia pelle' di Alessio Cremonini passato oggi in apertura della sezione Orizzonti a Venezia

 

Quando Stefano Cucchi morì nelle prime ore del 22 ottobre del 2009, il suo fu il 148esimo decesso in carcere e al 31 dicembre dello stesso anno, la cifra raggiunse la quota incredibile di 176 decessi, trenta morti in più in soli due mesi. Come è potuto accadere che in uno Stato di diritto come il nostro, sotto la sua tutela e in un luogo come il carcere da esso governato, un ragazzo di soli trent'anni accusato di spaccio di sostanze stupefacenti, sia stato prima picchiato da uomini in divisa, poi trasferito da un ospedale all'altro della Capitale e, infine, tenuto nascosto alla sua famiglia in un'angusta stanza del Regina Coeli per un'intera settimana, per sette lunghissimi giorni, non permettendo loro di sapere in che condizioni di salute fosse? Dov'era lo Stato quando accadeva tutto questo e come mai molte delle persone che lo visitarono, che lo ascoltarono e lo interrogarono ripetutamente, nonostante gli evidenti segni di violente percosse, non fecero nulla e finirono sempre col credere alla sua versione, ovviamente non veritiera, "di essere caduto dalle scale"?

 

I registi, gli sceneggiatori e gli attori raccontano storie e normalmente, dovrebbero fare domande come ha fatto Alessio Cremonini con il suo film, "Sulla mia pelle", presentato oggi in anteprima alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti e in uscita il 12 settembre prossimo in contemporanea sulla piattaforma Netflix e nelle sale per Lucky Red. Il regista ha scelto Alessandro Borghi per il ruolo di Cucchi e Jasmine Trinca per quello di sua sorella Ilaria e mai scelta fu più azzeccata. Il risultato "è una storia che chiama alla responsabilità", come l'ha definita l'attrice romana, "un film che non giudica ma che racconta", le fa eco il regista. "La cosa che mi ha sconvolto di più, oltre all'aver perso diciotto chili per calarmi nella parte, è stata l'assenza della magistratura, il far finta di non capire, la voglia di Stefano di non dire la verità e di non denunciare nulla", spiega Borghi.

 

"La sua omertà – aggiunge - deriva da una forma mentis della borgata: non si parla, non si fa la spia quando ci sono di mezzo le guardie perché se parlo, come dice lui nel film a un medico, quelli per dieci anni mi fanno le carte". Considerate lo shock che ha dovuto subire quel ragazzo e alla paura di dover condividere la vergogna di essere stato pestato: non è che non parlava, si nascondeva, sottovalutando il suo stato e non ascoltando affatto il suo corpo". "Mentre giravamo e ripetevo le battute – precisa Borghi – ho pensato spesso a tutto questo e al fatto che Cucchi non abbia parlato perché era convinto di farlo una volta fuori dal carcere, ma più volte volevo strillare "aiuto" io al suo posto".

 

Il film "è un atto dovuto", precisa la Trinca, che conobbe Ilaria Cucchi anni fa, dopo aver recitato un passo dell'Antigone durante una commemorazione in onore di Stefano. "Attraverso lei, una sorella molto severa ma che nella severità nascondeva un grande amore nei confronti del fratello – aggiunge - ho voluto interpretare al meglio, raccontandola, una vicenda privata ma paradigmatica per ognuno di noi, la storia di uno ma anche la storia di mille". Tutti loro, nel film, sono entrati "come in un'idea di appartenenza, avendo ferma l'idea comune di giustizia".

"Sulla mia pelle" mostra una verità ed è fondamentale farlo in un momento come quello che stiamo vivendo in cui si cerca di convincere le persone che il nostro benessere è legato alla negazione dei diritti degli altri", spiega Ilaria Cucchi prima di entrare alla proiezione ufficiale. "Assumersi una responsabilità non è di moda in questo Paese", aggiunge Borghi, "succede con tutti, anche in un condominio, figuriamoci con i migranti. C'è la tendenza a occuparsi solo delle cose proprie, ma per fortuna ci sono tante persone che fanno molto per gli altri".

 

La cosa assurda – conclude il regista, che come gli interpreti definisce il caso Cucchi "un omicidio di Stato" – è che nessuno dei carabinieri ci ha dato nulla per questo film e abbiamo dovuto ricostruire tutto, non ci hanno dato i permessi, nemmeno per girare fuori il carcere di Regina Coeli". "Le violenze che accadono ogni giorno nelle carceri non si giustificano, ma spesso ci si dimentica delle difficili condizioni in cui versano quelle strutture e in cui lavorano migliaia di persone, bisogna intervenire subito".