Fonte: Accademia nuova Italia

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05/10/2018

 

L’effetto Lucifero: l’uomo è capace di tutto?

di Francesco Lamendola

 

Non c’era nessuno che ne dubitasse, almeno fra le creature pensanti; ma quando è uno psicologo americano a dirlo, allora anche il pubblico statunitense si rassicura, anzi, si compiace perfino della grande “scoperta”, il tassello che mancava per rendere finalmente chiara e intelligibile l’immagine dell’universo. Beati loro che sono felici per così poco; ma il segreto è tutto lì: lasciarglielo credere. Se scoprissero di non essere arrivati primi, sai come ci resterebbero male.

 

In pratica, le cose funzionano in questo modo: per secoli e secoli, gli individui e le società sanno certe cose, e le sanno in un certo modo, oppure non le sanno, e magari credono di saperle. Poi negli Stati Uniti arriva uno psicologo, magari di origine italiana, fa un certo esperimento, il quale dimostra una certa cosa - la scoperta dell'acqua calda, per esempio - e tutta l'opinione pubblica americana, con un lungo ooooohhhhh di meraviglia, prende atto che quella certa cosa esiste, come se prima non fosse mai esistita o come se nessuno ne avesse mai saputo l'esistenza. Ciò avviene perché la società americana è la più avanzata sulla strada della modernità, quindi la psicologia degli americani e la cultura degli americani sono tipicamente moderne, fanno da testo e da modello a tutti gli altri, i quali si mettono in fila per entrare nello stesso mondo meraviglioso: il mondo del progresso, della scienza e della tecnica. Perché una cosa esista, bisogna che lo dicano i tecnici e/o gli scienziati; se lo dice qualcun altro, allora non si è tenuti a crederlo; potrebbe essere un abbaglio, una suggestione personale o, forse, un residuo di mentalità superstiziosa. 

La vicenda è stata così ricostruita del noto giornalista spagnolo Antonio Salas - in realtà, uno pseudonimo, giustificato dalla delicatezza delle sue inchieste - nel suo ricco volume L’infiltrato (titolo originale: El Palestino; Madrid, Ediciones Planeta, 2010; traduzione di Fabio Bernabei, Roma, Newton Compton Editori, 2011, pp. 566-567):

 

Nel maggio del 2004 tutta la stampa mondiale sbatté in prima pagina le ignominiose immagini delle torture inflitte ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, nei pressi di Falluja. Per settimane intere, alcuni soldati americani del turno di notte torturarono, umiliarono, brutalizzarono e lasciarono morire un numero imprecisato di reclusi. E commisero anche l’errore di fotografarsi e riprendersi con il cellulare mentre mettevano in atto quelle atrocità. Nonostante lo scandalo internazionale, però, solo sette militari di basso grado, appartenenti alla 372a compagnia della polizia militare, furono processati e condannati. Gli alti ufficiali ne uscirono indenni.

 

Durante il processo uno degli imputati, il sergente Ivan Frederick, chiese di avvalersi di un perito per la difesa: il dottor Philip Zimbardo.

 

Nell’estate del 1971, Zimbardo realizzò un esperimento nei sotterranei della facoltà di Psicologia dell’università di Stanford, uno studio che rivoluzionò le nostre nozioni sulla psicologia del comportamento. Nel corso di due settimane, due gruppi di studenti erano chiamati a ricreare in laboratorio una specie di prigione. Tutti i partecipanti al progetto dovettero prima superare un test psicologico in grado di garantire che fossero ragazzi del tutto normali. Un gruppo doveva assumere il ruolo dei prigionieri, l’altro dei carcerieri, con tanto di finte uniformi per distinguere le parti. I ricercatori si sarebbero limitati a non intervenire e a monitorare i soggetti attraverso le telecamere. Da quel momento, tutto sarebbe dipeso dal comportamento naturale dell’essere umano e dal suo istinto…

Nel voluminoso libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?”, Zimbardo riporta i risultati di quella ricerca, spiegando tra l’atro perché un esperimento pensato per durare due settimane dovette essere interrotto al sesto giorno. Davanti alle telecamere del laboratorio-prigione, gli studenti-prigionieri si calarono a tal punto nel ruolo che il grado di sottomissione e vittimizzazione sfuggì a tutte le previsioni degli psicologi di Stanford. La cosa peggiore fu che gli studenti-carcerieri iniziarono a sviluppare un sadismo e una crudeltà crescenti nei confronti dei compagni, che aumentava di pari passo con il grado di sottomissione dei reclusi. Le immagini dell’esperimento di Stanford di giovani seminudi con un sacchetto di carta in testa, umiliati e sottomessi ai carcerieri, sono oltremodo simili alle spaventose foto di Abu Ghraib.

 

In realtà, le torture del carcere iracheno non erano che una tacca in più nella lista di “errori” commessi dalle truppe di occupazione in Iraq, come il massacro di Hadiza, lo stupro della piccola Abeer Qasim Hamza al-Janabi, i versetti della Bibbia incisi sui “fucili di Dio” usati dai marine, il brutale video dell’assassinio del fotografo della Reuters, Namir Noor-Eldeen, da parte dell’equipaggio di un elicottero Apache. “Errori” che indussero e inducono tuttora giovani  come Andrej Misura o Oussama Agharbia sognare di combattere per la giustizia  unendosi alla jiahd in Iraq.

 

Secondo le analisi del dottor Zimbardo, l’esperimento dell’università di Stanford consente di dissezionare la psicologia del male, latente in tutti gi esseri umani. Tutti. La persona più gentile, compassionevole e solidale posta in condizioni psicosociali appropriate può trasformarsi in un carnefice sadico. O in un terrorista. Fattori come la coscienza di gruppo, la disconnessione morale, la disumanizzazione del detenuto, l’immagine del nemico o la disindividualizzazione sono determinanti per trasformare una brava persona in un sanguinario. Zimbardo pone l’accento sul “secolo delle stragi”. Nel corso della storia non era mai successo che tanti esseri umani si uccidessero a vicenda in forma così crudele. La complicità dei civili tedeschi nell’Olocausto nazista o la connivenza degli israeliani “neutrali” con l’occupazione della Palestina, le brutali carneficine tra hutu e tutsi in Uganda, il genocidio di un milione e mezzo di armeni o i venti milioni di vittime delle purghe staliniane in Unione Sovietica. Chiunque può trasformarsi in un assassino. Basta solo trovarsi nel luogo adeguato e nel momento opportuno. La socializzazione della violenza fa il resto.

 

Nel magnifico libro “Le seduzioni della guerra: moti e storie di soldati in battaglia”, la storica Johanna Bourke approfondisce il tema analizzando la “sindrome di John Wayne”, denominazione dell’influenza del cinema e della letteratura bellica nella creazione dei modelli di comportamento dei giovani soldati americani nella seconda guerra mondiale, in Vietnam e in Iraq.

 

Che cosa ha "scoperto" e "dimostrato", dunque, Philip Zimbardo, newyorkese di origini siciliane, classe 1933, studi all'università di Yale? Ha "scoperto" che qualsiasi persona, nessuno escluso, posta in un certo contesto, può diventare eccezionalmente violenta, crudele, sadica. Nessuno è immune dal virus della cattiveria, la "sindrome di Lucifero"; nessuno, per quanto sia, o venga considerato, una persona gentile, comprensiva, altruista, può dirsi al sicuro dal rivelare un aspetto nascosto della propria personalità, quello che si esprime nella violenza gratuita, nella perfidia apparentemente immotivata. Bella scoperta: il  buon senso dei nostri nonni, anche senza lauree alla Yale University, anzi appena con la quinta o la terza elementare, lo sapeva già; tutta la cultura di matrice cristiana lo ha sempre saputo, da duemila anni a questa parte. Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione; perché lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Queste parole fanno venire in mente qualcosa, per caso, ai professori di psicologia? Ma poi è arrivato l'illuminismo, è arrivato Rousseau, ed è nata la favola del buonismo: tutti gli uomini sono naturalmente buoni; se poi alcuni si comportano male, la colpa è della società cattiva, che li porta fuori dalla retta via. In ogni caso, il buon Zimbardo, che studia sin dalla fine degli anni '60 i comportamenti etici delle persone inserite in particolari contesti, come le prigioni, sia come detenuti, sia come carcerieri, tira da questa sua bella "scoperta", che tutti gli uomini possono fare il male, una conclusione molto superiore a ciò che non consentano le premesse, e cioè che le condotte devianti non dipendono da disfunzioni della personalità, innate o apprese, come allora la maggior parte degli psicologi (e dei legislatori) riteneva, ma  dalla caratteristiche specifiche della situazione contestuale nella quale le persone si vengono a trovare. In un certo senso, Zimbardo, con buona pace dei suoi avi siciliani e cattolici, è giunto a una specie di conferma sperimentale del dogma teologico fondamentale di Lutero: il libero arbitrio non esiste. Date certe situazioni estreme, tutte le persone perdono la loro capacità di giudizio e il senso morale che avevano mostrato di possedere fino a quel momento, e tirano fuori il loro lato peggiore: l'aggressività sadica e maligna, il piacere di far soffrire, umiliare, brutalizzare chi non è in condizione di difendersi. Senza volerci addentrare nella condotta specifica dei suoi esperimenti, ci permettiamo di avanzare una riserva di massima sulle sue conclusioni: il fatto che delle situazioni simulate autorizzino delle conclusioni drastiche e categoriche di portata universale. Un esperimento psicologico si basa pur sempre su una simulazione. Nel caso delle ricerche di Zimbardo, si trattava di assegnare il ruolo di "detenuto" a certe persone, e di "carceriere" a certe altre, e poi stare a vedere che cosa succedeva. Ma si tratta pur sempre di una situazione di partenza che è, in se stessa, falsa: con uno sforzo dell'immaginazione, le persone si calano nel loro ruolo e assumono lo stile comportamentale che gli è proprio. Ma la vita vera è un'altra cosa. Situazioni estreme, come la sopravvivenza a bordo di una scialuppa sovraccarica di naufraghi, con poche speranze di essere salvati e con poca acqua a disposizione, sono state osservate nel vivo della realtà, non attraverso simulazioni, e si è visto che gli uomini sono capaci di tutto, anche di divorasi a vicenda e di bere il sangue dei propri simili, per non morire di fame e di sete. Però si è osservato anche qualcos'altro: che non tutti i naufraghi assumono quei comportamenti e fanno quella scelta, la scelta di sopravvivere anche uccidendo e divorando i propri compagni di sventura. C'è chi lo fa e c'è chi non lo fa. In genere, chi non lo fa non riesce a sopravvivere, e, in ogni caso, sa di avere assai meno probabilità di cavarsela. Eppure ci sono persone che rifiutano di aderire a simili azioni estreme, anche se vengono a trovasi in minoranza e anche se non possono impedire che avvengano; rifiutano, però, sino all'ultimo, di fare ciò che gli altri fanno, e preferiscono andare incontro alla morte, piuttosto che venir meno alla voce della propria coscienza. In altre parole, nel caso che si verifichino situazioni estreme, quel che dovrebbe attirare l'attenzione degli psicologi non è tanto il fatto che gli uomini siano capaci di compiere qualsiasi nefandezza, ma che si sia sempre qualcuno che si rifiuta di agire per il male, ed è disposto a pagare il prezzo di una simile scelta. Ora, su un gruppo di venti persone disposte a praticare il cannibalismo pur di sopravvivere, è sufficiente che ve ne sia una sola che non vi è disposta, a dimostrare che il libero arbitrio esiste, dopotutto. Checché ne dicesse Lutero e checché ne dica il professor Zimbardo.

 

D'altra parte, abbiamo detto, più sopra, che l'etica cristiana ha sempre saputo che tutti gli uomini sono deboli e soggetti alla tentazione, e che tutti, nessuno escluso, possono compiere il male, tanto più facilmente se vengono a trovarsi all'interno di un gruppo e di un contesto che approva, o che addirittura pretende, simili azioni, come appunto si verifica negli esperimenti condotti da Zimbardo. In teoria, dunque, il cattolicesimo dovrebbe concordare pienamente con le conclusioni alle quali è giunto il professor Zimbardo, con il quale condivide una visione sostanzialmente pessimistica della natura umana. Invece, di fatto, c'è una bella differenza fra il pessimismo antropologico cattolico, che non considera la natura umana malvagia in se stessa, ma inclinata al male a causa di un evento che l'ha condizionata - il Peccato originale -, ma non l'ha corrotta totalmente né irreversibilmente, e il pessimismo antropologico dei nuovi psicologi e dei legislatori buonisti, nipotini della scuola illuminista e del mito del Buon Selvaggio, i quali pensano che l'uomo, inserito nel contesto "sbagliato", non abbia alcuna possibilità di salvaguardare il proprio senso etico, e perciò scivola ineluttabilmente verso comportamenti aberranti. Ma il cattolico, come spiega il fatto che gli uomini, nonostante la loro fragilità, conservano il libero arbitrio e sono capaci di opporsi al male e di scegliere il bene? Lo spiega con l'aiuto di Dio, che si chiama grazia: un elemento soprannaturale, che la cultura materialista e razionalista moderna non è assolutamente disposta a prendere in considerazione. Secondo la cultura moderna, impregnata di scientismo, per ogni cosa c'è una spiegazione perfettamente naturale; e, se gli esseri umani vengono spinti in situazioni estreme, essi reagiscono tutti, senza eccezione, come le cavie animali, come i topolini da esperimento. Lo scientismo, infatti, è ideologia allo stato puro: e, pur di dare ragione a se stesso, è disposto a ignorare, alterare o falsificare i fatti. I fatti dicono che non tutti gli uomini subiscono il condizionamento totale e che non tutti diventano dei sadici e dei potenziali assassini, anche se vengono posti nel contesto che alimenta simili condotte. Come lo spiegano? Non lo spiegano. E il cattolico, come lo spiega? Con la grazia di Dio. Solo che la grazia è il premio della fede, e la fede bisogna chiederla: non ce la si può dare da soli. D'altra parte, per chiedere la fede bisogna essere umili: Dio si nega ai superbi e non ascolta gli orgogliosi. E qui sta la differenza fondamentale fra il cattolicesimo e la cultura moderna. La cultura moderna non è umile, ma orgogliosa: parte all'assalto della conoscenza e vuole strappare il velo del sapere, senza chiedere il permesso e senza mostrare rispetto per niente e per nessuno, Gli scienziati, gli psicologi, agiscono così. Il bello è che anche i teologi moderni si regolano in questo modo; e perfino i sacerdoti della neochiesa.  Non abbiano udito il signore argentino dire in pubblico, parlando dell'aborto, che quella è una questione di pertinenza della sociologia? Quale errore abissale, da parte del cattolicesimo, avere introiettato il punto di vista della società moderna e della cultura moderna. Non solo sta perdendo se stesso; sta anche alimentando la malattia della superbia, che porterà inevitabilmente questa società verso il tracollo...