Fonte: Claudio Risé

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19/10/2018

 

L’uomo che si crede Dio genera solo mostri

di Claudio Risé

 

A 200 anni dal capolavoro di Mary Shelley l’ingegneria genetica realizza
l’incubo del dottor Frankestein. La vita ridotta a prodotto della tecnica
impoverisce le relazioni e crea solitudine. E senza padre né madre l’individuo
assomiglia sempre più a una mummia.


L'uomo non nato da donna ma costruito in laboratorio compie duecento anni.
Ne ha raccontato la nascita e la drammatica vita una signora della più colta e
inquieta società inglese dell'800: Mary Shelley, moglie del poeta Percy
Bysshe Shelley e figlia della scrittrice femminista Mary Wollstonecraft e di
William Godwin, filosofo liberale.
Come molte intuizioni e scoperte sorprendenti, l'idea maturò grazie alla noia
e al non sapere cosa fare. Mary era con il marito Percy e la sorellastra Claire,
ospite in una villa sul lago di Ginevra dell'amico lord George Byron, famoso
poeta, assieme al medico di Byron John Polidori. Della compagnia faceva
parte il carrarese Pellegrino Rossi, anch'egli come Byron e Shelley
appassionato sostenitore dei "sovranisti" dell'epoca: i movimenti di
liberazione dagli Imperi sovranazionali, ormai in via di decomposizione.
Rossi, già giovanissimo Commissario Speciale di Gioacchino Murat nella
fallita campagna d'Italia, in quel momento era professore a Ginevra. Era
estate, pioveva ininterrottamente, c'era l'afosa umidità della Ginevra estiva e i
quattro non sapevano che fare. Su proposta di lord Byron cominciarono a
raccontarsi storie di fantasmi davanti al grande camino. A Mary però non
veniva in mente niente, ed essendo sgobbona e produttivista si vergognava
nel confronto con la fantasia dei poeti (e del dottor Polidori, che scriverà poi
la prima storia di vampiri). Finché una notte in cui non riusciva ad 
addormentarsi ebbe la visione di un "pallido studente di saperi sconsacrati
inginocchiato accanto alla "cosa" che egli aveva messo assieme". Vide così:
"l'orribile sagoma di un uomo disteso, poi, per effetto di qualche potente
macchina, dare segni di vita e muoversi con un movimento incerto, quasi
vitale. Orribile, perché supremamente orrendo sarebbe l'effetto di qualsiasi
tentativo umano di scimmiottare lo stupendo congegno del Creatore del
mondo".
La vacanza volgeva alla fine e gli amici si salutarono con l'accordo di scrivere
per l'anno successivo la propria storia. Quella di Mary fu "Frankenstein o Il
moderno Prometeo", che racconta con molti anni di anticipo il sogno
dell'uomo moderno di fabbricare altri esseri umani. Che è anche: "cosa
succede quando un uomo cerca di avere un bambino senza una donna"
come ha scritto la studiosa del femminismo Anne K. Mellor, della Columbia
University, e viceversa. L'idea prese forma nell'inconscio collettivo dell'Europa
che entrava nell'epoca dell'industrializzazione e della tecnica, e
accompagnerà l'umanità nei due secoli successivi. Oggi si sta realizzando su
più fronti, in particolare nelle nuove tecniche procreative, nell'ingegneria
genetica e nella fabbricazione di robot. Il postumanesimo l'ha inventato con
un sogno lucido Mary Shelley, duecento anni fa, a villa Diodati, Cologny,
Ginevra.
Negli "stati alterati di coscienza" come quello in cui si trovò Mary Shelley a
Cologny, chi ha una visione o sente un messaggio si trova in contatto con
l'inconscio collettivo del proprio tempo e dei popoli che vi partecipano. Il
gruppo di villa Diodati era fortemente coinvolto nella storia di allora: Byron
troverà la morte di lì a non molto cercando di aiutare la Grecia a liberarsi
dall'impero turco, Pellegrino Rossi, nominato primo ministro da Pio IX per
riformare lo Stato vaticano, verrà poi sgozzato a Roma, forse in una congiura
di Gesuiti, Shelley è considerato un pericoloso rivoltoso nell'Inghilterra
imperiale. Non deve sorprendere che Mary Shelley, che aveva assunto una
posizione psicologica di ascolto profondo di sé, nel tentativo di produrre la
"storia" che Byron chiedeva quotidianamente ai suoi ospiti, abbia avuto una 
visione per molti profetica. Ne farà poi un libro: Frankenstein. Il Prometeo
moderno, che descrive le profonde dinamiche che avrebbero sconvolto nei
due secoli successivi la generazione umana, e sarà a lungo uno dei primi
best seller nell'editoria mondiale.
Il romanzo racconta infatti il tentativo di un giovane studioso laico di costruire
un essere vivente in laboratorio, riunendovi pezzi e sostanze del mondo
vivente, raccolte però dai laboratori, ospedali e cimiteri. Nel tentativo l'uomo
mette tutta la sua intelligenza e attenzione, impegnandovi gran parte del suo
tempo e isolandosi dagli affetti più cari e dalla natura: "i miei occhi erano
ormai insensibili alle bellezze della natura", racconta nel libro. Alla fine, "in
una cupa notte di novembre" il tentativo riesce: "la creatura… respirò a fatica,
e un movimento convulso le agitò le membra". Però è un orrendo mostro. Il
primo di una lunga serie, che la letteratura moderna racconterà nel suo
accompagnamento (nel corso del tempo sempre più consapevole) del
tentativo tecnoscientifico di fabbricare la vita umana.
Questo mostro, inoltre, è solo, ma non è affatto contento di esserlo. In sé non
sarebbe cattivo, ma lo diventa, e anche tremendamente aggressivo, appunto
perché non gli importa nulla di essere grande, grosso e fortissimo. Vorrebbe
soprattutto "essere come tutti gli altri", e da loro amato, e avere una donna
con sé. Invece "tutti gli altri" lo fuggono, per la sua insopportabile diversità. La
solitudine è uno degli aspetti più profondi del Frankenstein, moderno
Prometeo, come pure dell'intera storia del "prometeico" sviluppo
tecnoscientifico nella riproduzione umana, e dei suoi risultati. Anche dal punto
di vista clinico infatti, il più evidente risultato di questo sviluppo è proprio la
crescente solitudine dell'essere umano, le cui relazioni e rapporti con gli altri
diventano sempre più povere, mentre quelli con il mondo delle cose
inanimate, dei "prodotti" della tecnica (come è lo stesso Frankenstein)
diventano sempre più inquietanti.
Chi lavora con il malessere fisico e psichico delle persone sa bene che oggi i
problemi affettivi sono al primo posto, a partire dalla difficoltà a reggere la
solitudine sempre più diffusa. 
Sul mondo affettivamente turbato in cui nacque Frankenstein è uscito da
poco un libretto sorprendente: Lady Frankenstein e l'orrenda progenie, a cura
di Anna Maria Crispino e Silvia Neonato, edito da Iacobelli. Le autrici,
femministe da sempre, dicono cose di grande buonsenso e rara accuratezza
filologica. "In fondo "si chiede la Crispino, cosa vuole il mostro? Vuole che il
suo creatore lo riconosca, vuole una sposa da amare… vuole sentirsi
"normale". Vuole essere, come tutti, in relazione". Il dottor Frankenstein però
non acconsente. Costruisce la femmina per il mostro, ma poi la distrugge.
Forse con ragione, perché il problema è che (come ricorda Crispino) queste
creature sono "create" dall'arroganza pseudo scientifica, non "generate" dalla
natura. Il medico non sopravviverà all'orrore per la sua orrida creatura, e "il
demone" (come alla fine appare) allestirà un rogo sul pack, per spegnere in
mezzo al ghiaccio lo sterile fuoco di una creazione sbagliata.
"Una donna che pensa genera mostri", è un verso (spesso vero) della
poetessa Adrienne Rich. Mary Shelley però non aveva un rapporto solo
intellettuale con la generazione. Mise al mondo tre figli poi morti rapidamente,
prima di riuscire a generarne uno sano. Sua madre, Mary Wollstonecraft morì
quando lei era appena nata. È vero che tutto ciò contribuì all'"ansia e
repulsione per la gestazione e la nascita che tutto il romanzo comunica",
come dice Marina Vitale in "Lady Frankenstein". Ma il disastro, nel
Frankenstein non è dovuto alla madre: il drammatico rapporto con la
generazione ha anzi reso Mary Shelley ancora più convinta della sua
indispensabilità. Il guaio è che, soprattutto nelle successive emulazioni
scientifiche, la madre non c'è, o viene fatta sparire; come del resto il padre
sostituito da una provetta. Alla fine di Frankenstein il mostro compare come
una mummia (mummy). La mamma (anch'essa mummy, in inglese) non c'è
più. È così che potrebbe finire la vita umana.