Articolo pubblicato anche sull’ Avvenire

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15 novembre 2018

 

Il settimo comandamento

di Francesco Gesualdi

 

Possiamo ripensare l’interpretazione di un comandamento netto, e apparentemente indiscutibile, come quello che condanna chi si appropria di quel che non gli appartiene? Sì, certo. A maggior ragione quando ci invita a farlo, con la consueta chiarezza, nientemeno che la massima autorità della Chiesa. Andando in direzione ostinatamente contraria al senso comune ossessionato da una escalation di pene certe ed esemplari, Papa Francesco rovescia il tavolo ponendo al centro l’idea stessa del possesso: i beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano, ha ricordato in sostanza nell’udienza del 7 novembre. Quel che c’è da difendere, insomma, è in primo luogo l’accesso alle risorse comuni del pianeta per tutti quelli che lo abitano e per le generazioni future. Semplice, no?

 

Il tema è non rubare: un comandamento su cui non sembrerebbe esserci molto da discutere. Nell’accezione comune è l’imperativo a non impossessarsi delle cose altrui. Il mondo ridotto a due soli schieramenti: chi possiede e chi ruba. I primi da tutelare, i secondi da perseguire. Ma nella sua udienza del 7 novembre Papa Francesco ha rovesciato il tavolino e invece di parlare del furto ci ha parlato del possesso. Quasi a volerci dire che a seconda delle condizioni, il possesso può essere la prima forma di tradimento della volontà di Dio. Per partire ci ha ricordato che la dottrina sociale della Chiesa parla di “destinazione universale dei beni” a significare che ”i beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano”. E se in questa prospettiva anche la proprietà privata trova la sua funzione e la sua legittimità, Papa Francesco ha precisato che “ogni ricchezza per essere buona deve avere una dimensione sociale”. Sorprendente analogia con l’articolo 43 della nostra Costituzione che impone alla legge di regolamentare la proprietà privata in modo da “assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti”.

 

Se fossimo riusciti ad interpretare il comandamento di non rubare in forma più estensiva, non come  mera difesa di ciò che individualmente ciascuno ha accumulato, ma soprattutto come difesa di ciò che è proprietà di tutti, l’umanità non si troverebbe a fare i conti con le problematiche ambientali e sociali che oggi ci sovrastano. L’Italia sta ancora facendo la conta dei danni provocati da due settimane di maltempo che hanno distrutto migliaia di ettari di boschi, allagato intere vallate, spazzato via case e strade, spezzato vite umane di ogni età. Il dito è puntato contro la malvagità della natura che senza guardare in faccia a nessuno, abbatte la propria forza contro chi capita. Ma sappiamo che nelle nostre regioni le piogge torrenziali e i venti di tipo monsonico sono il frutto del surriscaldamento terrestre provocato da un eccesso di produzione di anidride carbonica, a sua volta conseguente al furto messo in atto da poche generazioni che nel giro di 150 anni hanno preteso di bruciare ciò che madre terra ci ha messo milioni di anni per produrre. Esito aggravato da un eccesso di cementificazione e di gestione distorta di boschi e agricoltura. In ogni caso tutte conseguenze di un’idea di possesso dove esiste solo l’interesse immediato del suo proprietario sganciato da qualsiasi responsabilità verso la collettività. Così ci stiamo macchiando del peggiore dei furti che è quello di togliere prospettive di vita alle generazioni che verranno.

 

Papa Francesco ci dice che l’unico modo per uscirne è smettere di considerarci padroni e cominciare a concepirci come amministratori: “Nessuno è padrone assoluto dei beni, bensì un amministratore della Provvidenza”. Che tradotto significa cominciare a prendere consapevolezza che viviamo in un mondo dalle risorse limitate e che dobbiamo amministrarle avendo sempre ben chiaro che oltre a doverne lasciare per le generazioni che verranno, dobbiamo anche permettere ai tre miliardi di impoveriti di uscire rapidamente dalla loro situazione di miseria. Papa Francesco ci ha ricordato ancora una volta che se oggi esiste quasi un miliardo di affamati non è perché non si produce abbastanza cibo, ma perché è distribuito male. In altre parole l’economia mondiale è basata su regole così assurde da avere trasformato un terzo della popolazione mondiale in scarti inutili da qualsiasi punto di vista, un terzo in persone utili solo come lavoratori forzati e un terzo come super consumatori. Questo apartheid sociale può essere superato solo con nuove regole che mettano fine ai furti di dignità che si concretizzano tramite il pagamento ai lavoratori di salari indegni, il pagamento ai piccoli produttori di prezzi infami, l’estromissione dei pastori e contadini dalle loro terre, la fuga dei capitali nei paradisi fiscali, l’imposizione di regole draconiane agli stati indebitati.

 

Ma l’emergenza ambientale ci ricorda che per riportare l’equità non è più sufficiente concentrarci sulle regole. Serve anche la capacità dei paesi ad alto reddito pro capite di fare un passo indietro rispetto all’uso delle risorse e alla produzione di rifiuti. In altre parole dobbiamo smettere di ripetere come dischi rotti che dobbiamo puntare a crescere e cominciare a dire che dobbiamo produrre, lavorare e consumare in maniera diversa in modo da garantire a tutti di vivere dignitosamente pur utilizzando meno risorse e producendo meno rifiuti. Solo così dimostreremo di avere imparato a declinare in maniera corretta il comandamento di non rubare.