Fonte: gazzettafilosofica

04/03/2018

 

La pretesa del dialogo e la moltiplicazione dei monologhi

di Enrico Tommaso Spanio

 

Gli esseri umani, al di là delle vuote pretese oggi di moda, non ascoltano realmente chi è ritenuto al di sotto del loro livello. Probabilmente alle volte sbagliamo, ma nessun essere umano ascolta concretamente, ad esempio, un bambino che abbia appena imparato a parlare, qualora si lanciasse in discorsi di filologia classica. È un problema di economicità del tempo. Dunque, perché due uomini e due culture si ascoltino sono necessari la convinzione nel valore dell’altro, la stima ed il rispetto (anche quella forma di rispetto che è la paura) per l’esperienza e per il sapere che questo “altro” vuole condividere con noi.  

Arnold Lakhovsky, “The Conversation” (1935)

 

Probabilmente è un portato della superficialità strabiliante del nostro modo di pensare e di vivere a convincere tutti che basti dire dialogo, perché dialogo sia. Basta stare nella stessa stanza con qualcuno per averne amore? Eppure questa domanda che ci fa sorridere non è paradossale, almeno non di più di quella che pretende che basti essere in due… ed è subito dialogo. Perché possa nascere un dialogo servono molte precondizioni necessarie (e purtroppo non sufficienti); e molte condizioni sono necessarie poi, perché una volta avviato, possa procedere. E queste condizioni e precondizioni per il dialogo sono molto difficili da incontrare o da creare. Per avere una base comune nel discorso, potremmo brevemente definire dialogo come: “il passaggio, la condivisione tra due individui o gruppi umani, di un patrimonio (dato per problematico o per acquisito) di esperienze, conoscenze, emozioni, ecc.”

 

Ora ci si esprimerà come se si scrivesse su un taccuino di appunti, così da ottenere una possibile brevità e da consentire, a chi voglia aiutare, di integrare il discorso che si sta per fare. Perché avvenga un dialogo è necessaria in primo luogo questa precondizione: il rispetto del valore di chi invia il messaggio. Gli esseri umani, al di là delle vuote pretese oggi di moda, non ascoltano realmente chi è ritenuto al di sotto del loro livello. Probabilmente alle volte sbagliamo, ma nessun essere umano ascolta concretamente, ad esempio, un bambino che abbia appena imparato a parlare, qualora si lanciasse in discorsi di filologia classica. È un problema di economicità del tempo. Dunque, perché due uomini e due culture si ascoltino sono necessari la convinzione nel valore dell’altro, la stima ed il rispetto (anche quella forma di rispetto che è la paura) per l’esperienza e per il sapere che questo “altro” vuole condividere con noi. Se non c’è questa stima e fede nel valore dell’altro non si realizza l’ascolto reale, l’ascolto, cioè, nel quale si mette in gioco il proprio passato e futuro. Giovanni Gentile, come sempre capendo bene, in un frammento giovanile, affermava che per comprendere “bisogna amare”.

  

Nella venerabile tradizione delle arti marziali, prima di parlare e dar consigli ad un altro sull’esecuzione di una tecnica bisogna aver conseguito la sua stessa cintura, altrimenti è suggerito il silenzio. Solo quando, attraverso la disciplina ed il lavoro, si avrà raggiunto il livello del proprio superiore si potrà parlargli.  Vi è reale dialogo fra maestro e allievo solo quando quest’ultimo stima, venera ed ama il proprio maestro come esempio vivente del valore della conoscenza che lui medesimo vuole acquisire ed il maestro onora nel proprio allievo lo sviluppo, l’energia e la vita futura di quel sapere che lo ha nutrito e che egli ora onora ed insegna (cfr. G. Gentile, Preliminari allo studio del fanciullo, ma anche tutta la “pedagogia” delle arti marziali). Quindi prime precondizioni perché possa nascere un dialogo sono: stima, venerazione, amore, timore reciproci per l’interlocutore; senza questi presupposti non c’è condizione per l’ascolto concreto. Nessun dialogo si svolge realmente, quando si ritiene l’altro un nostro inferiore o decisamente un incapace.  Nessuno è disponibile a prendere a proprio modello le esperienze di un uomo il cui valore ritiene indifferente o inferiore al suo. Nessuno lo fa, certamente molti lo pretendono a chiacchiere, e si dichiarano paladini di tali dialoghi e proprio con una tale dichiarazione dimostrano agli occhi di chi seriamente crede nel dialogo, di non saper nemmeno cosa questo sia. Purtroppo avere le orecchie nella stessa stanza non basta, per quanto lunghe siano.

 

Di eguale importanza per l’ascolto sono quella forza della struttura emozionale e quella concreta confidenza nel proprio valore che sole mi rendono capace di mettermi in gioco e disponibile a farmi cambiare dalle esperienze dell’altro: di quell’“altro” che stimo e rispetto (ora credo che il perché della prima condizione sia chiaro a tutti) al punto di accettare che le sue esperienze divengano una guida ed un modello per le mie proprie esperienze future, al punto anche di vedere in lui stesso un modello di vita. Ammirazione del valore dell’altro e concreta confidenza nella nostra capacità di poter mutare convinzioni, senza per questo fare psichicamente naufragio, sono precondizioni molto rare da incontrare; fatti, evidentemente, salvi i “bla bla” di tutti i narcisisti del pianeta. Infatti, anche se esaudiamo la prima precondizione, quella della venerazione, esperienza oggi non così comune, la seconda, quella della reale confidenza nella propria struttura emozionale è davvero una forza umana molto rara. (Questa forza si ottiene solo sopravvivendo ai naufragi reali della vita, senza esserne sommersi completamente, quindi, questa forza, indispensabile alla possibilità del dialogo, è quasi inattingibile ad un gruppo umano come il nostro, che vive in una realtà, per lo più, virtuale). Così, proprio per questa fragilità emozionale, basta che l’altro abbia una convinzione che sembra minare le convinzioni nostre proprie e, subito, la resistenza che gli facciamo è, volere o non volere, paragonabile a quella di un muro impenetrabile. Insomma, a causa della nostra fragilità, consapevolmente e più spesso inconsapevolmente, impediamo in molti modi l’ascolto. Ad esempio non lasciamo dire fino in fondo il pensiero del prossimo, ma ci attacchiamo ad una parte delle sue parole, separandola, dall’intero significante del suo discorso, mentre solo all’interno di quell’intero l’altro aveva dato loro senso. Così facilmente pretendiamo di farne a pezzi il contenuto di verità. Si dice pretendiamo, perché non siamo in reale dialogo con il discorso dell’altro, ma con singole sue parti, addirittura con parole disarticolate dalle frasi. Effettivamente è una vittoria sicura (forse non proprio gloriosa) quella contro un corpo mutilato, altra cosa, però, sarebbe affrontare un corpo integro, con cui entrare in un vivo confronto e dialogo e non gloriarsi di uno dei tanti, infiniti, morti monologhi che oggi ci affliggono. E sono una vera sofferenza, perché non si è avuta l’intelligenza di scorgere nemmeno l’alba di quali siano le condizioni grazie alle quali possa nascere davvero un dialogo.

 

Giorgio De Chirico, "L'enigma di un giorno" (1914)

 

 

Un altro impedimento alla nascita stessa di un dialogo si presenta quando le parole dell’altro sembrano minacciare le convinzioni nostre, a cui ci siamo tanto faticosamente ancorati. Le avvertiamo anche soltanto come una minaccia, che le attacchiamo a testa bassa, per distruggerle, come un toro si accanisce sul drappo rosso. So che non è piacevole dirlo nel nostro tempo dell’eguaglianza astratta, ma una delle condizioni fondanti la possibilità di un dialogo è la forza emotiva degli interlocutori. Provate a parlare di valore dei “falsi”… ad un essere umano appena tradito o ingannato. Vi coprirà di insolenze, e giustamente dal suo punto di vista. Solo che chi vi insulta, non avendovi ascoltato fino in fondo, vi odiava partendo dal pregiudizio che voi voleste dire… esseri umani “falsi”… e voi volevate invece parlare di valore di mercato dei “falsi artistici”… ecc. ecc. Ma lui non poteva ascoltarvi oltre, aveva una ferita troppo fresca, un dolore troppo grande, una paura così intensa che non ce l’ha fatta proprio a farvi proseguire: rischiava di essere sommerso dalla rabbia, dal dolore, dalla piena, che sentiva irrefrenabile, delle emozioni che lo agitavano. Voleva un dialogo con voi, forse sì, magari lo desiderava anche molto, è possibilissimo che sia così.

 

Ma, ormai dovrebbe esser evidente a chiunque: non basta “volere” il dialogo, il dialogo bisogna avere la grandezza e la forza di “poterlo”. E – lo si ripete – non è cosa per tutti. Per questo e non per cattiveria i pretesi dialoghi televisivi, giornalistici o su facebook, non dovrebbero, il più delle volte, aver luogo, perché non venendo soddisfatte queste precondizioni ineludibili, tutti questi dialoghi si risolvono in inutili e spesso umilianti monologhi. Se Socrate si fa garante, grazie alla madre levatrice, della forza generatrice del suo metodo dialogico, molti, ma proprio molti, tra gli attuali propugnatori del dialogo (a tutti i livelli: politico, sociologico, filosofico, ecc.) dovevano avere, anche in buona fede, anche inconsapevolmente… la madre abortista convinta. Sia poi consentito di finire con una battuta, un lavoro che naturalmente non finisce qui, perché queste sono solo le difficili precondizioni “emozionali”, perché un dialogo possa veramente nascere; le “conoscenze” logiche perché non si inciampi subito, sono egualmente essenziali ed egualmente richiedono di essere ben possedute.