Fonte: Il Tascabile

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06/03/2018

 

L’era del disagio

di Raffaele Alberto Ventura

 

La modernità è il tempo della crisi.

Nell’Amleto di Shakespeare c’è uno strappo nel cielo di carta che esala angoscia: il mondo è sbagliato, il tempo fuori di sesto. Il lamento del principe di Danimarca annuncia la miseria (relativa) della società opulenta, quattro secoli più tardi; circondata dalle merci ma afflitta da un terribile disagio. Ma ricapitola anche la confusione degli antichi romani, come ben descritta in un piccolo racconto di Tolstoj del 1887, Camminate nella luce finché avete la luce, nel quale un ricco mercante confronta il proprio malessere con l’umile beatitudine dei primi cristiani. Che cosa turba Amleto? “Ho di recente – e ignoro in che modo – perso ogni gaiezza, e abbandonato ogni usata occupazione; e inoltre è così grave il mio umore che la terra feconda parmi divenuta uno sterile promontorio; e il cielo, tendaggio invero splendido, maestoso firmamento infiammato di schegge dorate (miratelo dunque!) a me piuttosto appare come un laido fumo di pestilenza”. Amleto non si strugge per ciò che avviene nel suo mondo – la morte del padre, il tradimento della madre, l’amore per Ofelia – bensì si interroga sulla consistenza stessa di quel mondo.

 

A immagine del mondo, la crisi stessa è priva di senso: non ha altro oggetto che la sua mancanza di oggetto. “Che gran capolavoro, l’uomo! Quanto nobile la sua ragione; infinite le sue risorse! Nella forma e nel movimento, ammirevole: un angelo negli atti, un dio nell’intendimento! Sommità della bellezza mondana, perfezione del creato! E invece ai miei occhi cos’altro è se non polvere? L’uomo è per me privo d’interesse”. La gratuità dell’angoscia metafisica fornisce al danno una degna beffa: poiché se l’angoscia significasse qualcosa, vi sarebbe nel mondo almeno una cosa dotata di senso, alla quale aggrapparsi – ovvero l’angoscia stessa.

 

È di fronte alla morte, che la crisi coglie Amleto.

Non è la morte, ma ciò che la morte scoperchia, lacera, svela: il nulla dietro le cose. Se l’uomo deve morire, cosa valgono tutte le ambizioni che lo motivano a vivere? “L’ambizione, nella sua sostanza, non è altro che l’ombra di un sogno” notano Rosencrantz e Guildenstern nella tragedia shakespeariana: “Impalpabile e sottile, è l’ombra di un’ombra”. La sociologia novecentesca ha trovato mille altri nomi – la corsa per il riconoscimento, il consumo posizionale, la rivalità mimetica – per quella stessa trappola assurda che lo spirito barocco aveva denunciato. Il tardo capitalismo ha trasformato queste pulsioni aspirazionali in una fonte di energia capace di far girare un intero sistema economico. Nell’Amleto, il lutto per il padre serve a far alzare lo sguardo dell’uomo verso quella zona morta della visione, quel buco narrativo nel tessuto dell’essere: pone fine alla  parata di simulazioni che coprono la vistosa fessura, ciò che Pascal chiamerà «divertissement», le occupazioni che divertono – distolgono – dall’abisso la nostra attenzione.

 

In effetti Pascal, con pochi decenni di ritardo, sembra proprio dialogare con Amleto, tenta di salvarlo risolvendo la crisi del soggetto storico di cui il principe depresso è la prima grande figura: la modernità. Anche a costo di rinunciare alla ragione, di “diventare bestie”: per questa umanità dolente, Pascal vantava i benefici dell’abêtissement. «Non sono forse immensamente sventurati?» scrive il filosofo nei suoi Pensieri, pensando agli atei che cercano Dio e non lo trovano, «infelici e ragionevoli» in un mondo di “folli e infelici” che nemmeno lo cercano. “Ci impedisce di pensare a noi stessi”, il divertissement, “ci fa giungere insensibilmente alla morte”. Se solo Amleto avesse saputo come divertirsi! E appunto questo è l’incarico di Rosencrantz e Guildenstern, richiamati a corte per guarirlo dai suoi struggimenti: “Lo condurrete con voi nelle vostre occupazioni piacevoli”. La traduzione francese recita: “Avez vous fait l’essai de quelques divertissements?”. Spoiler: non servirà a niente.

 

Il  nulla dietro le cose
L’Amleto, si sa, finisce nel classico bagno di sangue: la crisi ha travolto tutto sul suo passaggio, restituendo al vuoto i tormenti e le ombre. Come Pascal invece, e con Pascal spesso, alcuni verranno salvati. Tolstoj ebbe l’accortezza di nascondere il proprio fucile, dimenticarsi dove l’aveva messo, e mettersi al riparo dalla propria mano omicida: per poi trovare il tempo di riscoprire i Vangeli. L’intera ultima fase della produzione dello scrittore russo illustra questo percorso, riecheggia le inquietudini di Amleto e le scommesse pascaliane. Nella Morte di Ivan Il’ic (1886), l’eroe eponimo è divorato dal dolore fisico e si tortura nel dubbio esistenziale: “Ma si potesse almeno comprendere il perché di tutto questo!”. L’idea della morte incide sulla porta dell’universo intero ciò che rispose a Primo Levi un soldato tedesco, a proposito di Auschwitz: Hier ist kein warum. Qui non c’è perché.

Ma di cosa poteva lamentarsi il più grande degli scrittori russi? Appunto di nulla, scriverà poi Stefan Zweig: “Non gli è accaduto nulla, o meglio, cosa ben più terribile: ha incontrato il Nulla! Tolstoj l’ha colto dietro le cose”. Come Amleto, ha avuto una visione di ciò che si nasconde dietro il cielo di carta. “Vi è ora nella sua anima uno strappo, una fessura stretta e nera che l’occhio sconvolto fissa suo malgrado, nel vuoto di questa presenza estranea, fredda, scura, inafferrabile, dietro la nostra vita, calda e gonfia di sangue – l’eterno niente dietro l’effimero”. Finché un giorno, sportosi a guardare da quell’oscuro taglio, lo scrittore aveva visto qualcosa che era nuovamente senso, scopo, verità. Una visione, una salvezza: “E con più forza di qualsiasi altra volta tutto si illuminò dentro di me e intorno a me, e quella luce ormai non mi abbandonava più. E io mi salvai dal suicidio”.

 

Nel più completo documento della crisi di Tolstoj, la Confessione del 1882, lo scrittore traccia un bilancio morale della sua vita, descrivendo il proprio cammino dal sonno, alla crisi, al risveglio. Il punto di partenza è amletico: “Il mondo è qualcosa di infinito e di incomprensibile”. Tolstoj prende coscienza che le scienze sanno fornire soltanto “pseudo-risposte”. Quanto più l’uomo insegue la conoscenza, tanto più si deve arrendere all’evidenza della propria ignoranza: “I sommi spiriti, percorso l’intero scibile, si accorgono di non sapere nulla, e ritrovano quella stessa ignoranza dalla quale erano partiti”. Di fronte a questo infinito regresso di mezzi, Tolstoj inizia a diventare pascaliano. Alla “terribile domanda sul perché delle cose” Tolstoj riconosce che non si può rispondere elencando il perché di ogni cosa. “Smontiamo l’orologio, ne togliamo la molla, ne facciamo un giocattolo e poi ci meravigliamo che l’orologio non cammina più”. Alle interrogazioni sullo scopo della vita, lo scrittore riconosce che “leggi di sviluppo infinito non ve ne possono essere” proprio come noterà Fred Hirsch nei suoi studi sui consumi posizionali nei Limiti sociali dello sviluppo (1976). Ogni ambizione umana – essere “più famoso di Gogol, di Puskin, di Shakespeare, di Molière, di tutti gli scrittori del mondo” – è destinata a infrangersi in una terribile domanda: “E poi?”. Nel bilancio della sua esistenza fa pesare l’assurdità delle occupazioni che lo resero il più grande degli scrittori, condanna i suoi grandi, inutili, romanzi. “La vita è un male senza senso”. Nei diari annota: “Si muore soli”.

 

Con una figura tipicamente barocca, lo scrittore russo descrive il mondo come un manicomio, nel quale ogni cosa è rovesciata, ogni valore pervertito. La scelta di Amleto appare allora come la più logica: nell’universo privo di senso non c’è altro da fare che fingersi pazzo. Nel mondo realmente rovesciato, la cosa più vicina alla verità è una falsificazione del falso. Se ci facciamo caso, nella tragedia shakespeariana l’unico momento di verità è una messa in scena, nella quale dei saltimbanchi rappresentano il regicidio e l’incesto realmente avvenuti. Il mondo è così rovesciato che rovesciandolo quasi lo si raddrizza! Se come scrive Pascal il mondo è un abîme, può mimarne la redenzione soltanto una mise en abîme.

 

Un nuovo sonno
Il divertissement è come una droga: narcotizzando il dolore sostituisce alla cognizione della realtà un mondo di simulacri. Ciò che intendiamo come realtà non è la vera realtà, ciò che intendiamo come vita non è la vera vita. La crisi amletica, svelando la falsità di questa condizione, è un risveglio. Le ultime parole della Confessione di Tolstoj sono appunto: “E mi svegliai”. L’esistenza comune – ancora un tema tipicamente barocco – è un lungo sonno. Per dirla con Pascal: “Così come si sogna spesso di sognare, collocando un sogno nell’altro, può darsi che la metà della vita nella quale ci consideriamo svegli non è essa stessa altro che un sogno, dal quale ci svegliamo solo con la morte”.

 

Giungendo al disperato sviluppo della sua angoscia, Tolstoj provò ad attribuire a un demiurgo crudele la responsabilità del mondo – “La mia vita è un certo qual stupido e malvagio scherzo giocatomi da qualcuno” – per poi negare l’ipotesi, proprio come Cartesio, e concludere che invece è l’uomo il solo artefice della propria prigione. L’errore, ammetterà poi Tolstoj, “consisteva nel fatto che io ragionavo in un modo che non era conforme al problema che avevo posto”. Insomma la convinzione secondo cui “la vita è insensata e malvagia”, che lo scrittore era stato tentato di abbracciare nella sua crisi, “si riferiva soltanto alla mia vita e non alla vita umana in generale”. Arriva infine il colpo di scena tanto atteso: “Oltre la conoscenza razionale che prima era per me l’unica, io ero inevitabilmente condotto ad ammettere che ogni individuo vivente possiede anche un’altra conoscenza, irrazionale questa: la fede, che dà la possibilità di vivere”.

 

Per lo scrittore russo, fresco di conversione, la fede permette di uscire dalla catena infinita dei mezzi; è uno sbocco verso i fini ultimi e non “un mezzo per raggiungere dei fini transitori”. Tramite la fede l’uomo può liberarsi dalla prigione dell’immanenza, trovare un senso alle cose, trascendere la vita falsa nella quale vive. Bisogna immaginarselo Tolstoj, che si ammazza, che si umilia: “Rinnegare tutti i piaceri della vita, darsi da fare, umiliarsi, sopportare ed essere misericordiosi”. Verrebbe da dire: che si inebetisce, s’imbestialisce: il s’abêtit, direbbe Pascal. Notava perfidamente Zweig: “Si ha di continuo la sensazione che la sua dottrina sia un tentativo di mascherare il dubbio della sua anima con veementi prese di posizione, e l’incertezza della sua convinzione con delle convinzioni perentorie”.

 

Sorge un sospetto.

Che per Tolstoj la fede, in fondo, non sia altro che un ulteriore divertissement, un tappo di cartone sul buco nella carta, un narcotico nuovo e più potente delle ambizioni e dei piaceri sensuali. Questo sospetto vale per lo scrittore e  vale per tutti gli uomini moderni che cercano nelle religioni o negli gnosticismi politici una soluzione alle loro crisi esistenziali. Come notava Pascal, costoro rischiano semplicemente di svegliarsi dentro un nuovo sonno. Forse nulla può risolvere la crisi, quando sorge; forse non c’è via di fuga alle “leggi di sviluppo infinito” che governano il mondo sublunare. Forse l’abisso bisogna avere il coraggio di fissarlo. Altro che luce. Non vede nessuna luce Amleto, mentre muore. Prima che scenda il buio in sala, dice solo: “Quel che resta è silenzio”.