Fonte: Accademia nuova Italia

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18/04/2018

 

Senza la verità tutto precipita nel caos

di Francesco Lamendola

 

Viviamo in un tempo in cui il relativismo è stato eretto a sistema, proclamato come dogma, addirittura santificato come garanzia di libertà, contro il pericolo tremendo di chi sa mai quale rigurgito di totalitarismo ideologico.  Mai come oggi la verità è stata negata, o irrisa, o, nel migliore dei casi, dichiarata irraggiungibile; mai come oggi i cercatori della verità sono stati guardati con sospetto, con rancore, con aperta ostilità, e trattati di conseguenza, in tutte le sedi e in tutti i modi possibili. Ma proprio per questo, mai come oggi vi è stato bisogno di uomini generosi, i quali siano disposti a lottare per lei, a soffrire per lei, per difenderla, per affermarla e stabilirla, contro le innumerevoli maschere della menzogna. La tentazione di lasciarsi sopraffare dallo scoraggiamento e, così, di rinunciare, di arrendersi,  è forte, molto forte. La mente escogita mille ragioni, alcune plausibili, plausibilissime, per potersi arrendere, magari con l’onore delle armi, e desistere da una battaglia che si va facendo sempre più difficile, sempre più incerta, e, diciamolo pure, parlando dal punto di vista puramente umano, pressoché disperata. A che scopo battersi ancora, come l’ultimo giapponese nella foresta? Se il mondo ha deciso di andare nella direzione opposta, cioè di celebrare e adorare la menzogna, a che scopo sacrificarsi invano? Oh, la mente è davvero abile nel mettere in fila, una dopo l’altra, tante belle ragioni per abbassare le armi e ritirarsi in buon ordine, come dice Francesco Guicciardini, ciascuno nel proprio particulare. Se la patria non vuole essere difesa, perché volerla difendere da soli? Se a nessuno importa più nulla dell’onestà, perché voler essere onesti ad ogni costo? E se anche il più ardito sembra aver perso tutto il suo coraggio, perché volersi gettare a capofitto in un’avventura in cui le probabilità di vittoria sembrano essere pari allo zero? Queste, e altre cento domande simili, vengono suggerite dalla prudenza, dal buon senso, dal puro e semplice istinto di conservazione; ma, nello stesso tempo, anche dalla logica e dal mero calcolo delle probabilità. Tanto, nessuno ti farà un monumento, quando sarai caduto, suggerisce la logica più ovvia; al contrario, ti rideranno dietro; diranno; se l’è cercata, se l’è voluta; chi credeva di essere, infine? Si riteneva forse migliore, lui solo, di tutti gli altri? Perché non c’è niente che irriti i vili quanto lo spettacolo di un coraggioso che ha lottato da solo, senza domandare il loro aiuto, e alla fine ha dovuto soccombere, mentre essi si tenevano al coperto e aspettavano di vedere come si sarebbe conclusa la faccenda. Per un momento, infatti, sono stati costretti a ventilare la possibilità che egli potesse vincere, il che li avrebbe svergognati totalmente: quale spettacolo più mortificante che quello di vedere la propria causa vendicata da un altro, dopo averlo lasciato solo come un appestato, a combattere anche per l’onore degli altri? Ma poi le cose sono finite come dovevano finire; ciò non toglie che i vili abbiano vissuto un’ora di spavento, della quale ora si vendicano con commenti ironici e impietosi sull’inutile donchisciottismo di colui che si è sacrificato.

 

Inutilmente? Questo è il punto: è stato davvero inutile? Ma inutile per chi, in che senso, da quale punto di vista? Per un essere umano, battersi per la verità non è mai un esercizio inutile: facendolo, egli realizza il suo fine specifico. Per questo si viene al mondo, per questo la vita ci mette a disposizione un certo numero di anni: per cercare, trovare e servire la verità. Non per altro. Chi non se ne rende conto, o peggio chi, pur rendendosene conto, trascura un tale dovere, che poi è la normale vocazione dell’essere umano, manca la propria vita, per quanti successi mondani possa mietere, per quante gratificazioni esteriori possa ricevere. E chi manca la propria vita, perde se stesso, senza possibilità di rimedio. La verità non ha bisogno che noi la cerchiamo: siamo noi che abbiamo bisogno di lei: pertanto, se le dedichiamo la nostra vita, facciamo solo la nostra parte; se non ce ne curiamo, ma ci occupiamo d’altro, per esempio di soddisfare i nostri capricci e coltivare i nostri istinti più egoistici, il danno è nostro, e in ciò riceviamo il nostro castigo. La vita è giusta, assai più di quel che non si creda: ciascuno riceve il premio o il castigo che si è meritato; solo che molti non sono abbastanza evoluti da rendersene conto, e scambiano i castighi per dei premi, senza considerare che anche il più dolce dei liquori può contenere un veleno mortale, e che il gusto del palato può ingannare, così come, in genere, vivere assecondando i piaceri dei sensi porta a una forma di accecamento, per cui non si distingue più neppure ciò che è realmente un bene e ciò che è invece un male per se stessi. Noi, generalmente parlando, siamo cattivi giudici di noi stessi, perché ci manca la giusta distanza prospettica: già siamo in grado di vedere assai più obiettivamente quel che riguarda gli altri, per quanto il nostro giudizio possa essere offuscato da altre cause, come la gelosia, l’invidia e simili. Se potessimo vedere e giudicare noi stessi con la stessa lucidità con cui vediamo e giudichiamo gli altri, capiremmo tante cose che, invece, seguitiamo ad ignorare, forse per tutta la vita. Ma, naturalmente, l’essenziale è la trasparenza dell’occhio che guarda, più che l’oggetto che viene guardato. Se l’occhio è torbido, se è reso torbido dalle passioni più disordinate, non riuscirà mai a vedere le cose con trasparenza, e quindi non riuscirà mai a vedere la verità, e questo farà sì che l’intera vita di costui sia una vita mancata. Come abbiamo detto, è mancata quella vita in cui manca la consapevolezza dello scopo, del fine e del significato. Scopo, fine e significato sono sempre la stessa cosa: la verità. E la verità, filosoficamente, è l’essere; teologicamente, è Dio e non può essere altro che Dio. Pertanto, è vera quella cosa che aiuta lo sguardo a innalzarsi verso Dio; sono false e ingannevoli tutte quelle cose le quali non conducono l’anima verso Dio, ma trastullano i sensi e li sprofondano sempre di più nella dimensione dell’immanenza. Detto con minore eleganza, ma forse con maggiore chiarezza, che dopotutto è la cosa più importante: sono vere quelle cose che aiutano l’uomo a realizzare la sua natura di uomo; sono false e ingannevoli tutte quelle cose le quali lo abbassano e lo degradano a vivere come i cani, gli asini, i maiali, rotolandosi nel fango delle sue passioni disordinate.

 

San Tommaso diceva che la verità è adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la cosa e la mente. E soleva incominciare le sue lezioni ponendo una mela sulla cattedra e dicendo ai suoi studenti: Questa è una mela. Chi non è d’accordo può uscire da questa stanza. Una lezione di sano realismo: con chi viene a dire che una mela è un mandarino, o una banana, non è possibile sostenere alcun dialogo che abbia senso: meglio lasciarlo cuocere nel brodo del suo solipsismo e proseguire per la propria strada. Ma poi è arrivata la modernità: e qualunque imbecille si è sentito non solo in diritto, ma in dovere di affermare, con la massima serietà, anzi, con il massimo sussiego, che nessuno ha il diritto di dire che una mela è solo una semplice mela, perché, come minimo, una mela può essere anche cento altre cose, a seconda di chi la osserva e di come la osserva. Risultato: il discorso sulla verità è divenuto impossibile; si è aperta una voragine incolmabile fra la cosa come appare e la cosa come è, fra il fenomeno e il noumeno; la metafisica è stata messa fra parentesi, la teologia ha incominciato ad antropologizzarsi: nessuno aveva il diritto di affermare ciò che Dio è, ma solo ciò che, di Dio, appare all’uomo, ciò che sembra all’uomo, ciò che appare ragionevole all’uomo. E a quale uomo, poi: all’uomo moderno, irreligioso, agnostico, impregnato di materialismo e di razionalismo strumentale, che sa tutto grazie alla scienza, e quel che la scienza non può spiegare, semplicemente per lui non ha significato. Come si fa a parlare con un tal soggetto della verità, senza timore di beccarsi una denuncia per incitamento all’odio contro questa o quella categoria minoritaria, ciascuna delle quali gioca le carte della sua “liberazione” partendo dall’assunto, stabilito per legge, che nessuno ha diritto alla verità, ma tutti hanno diritto alla loro particolare verità, cioè alla loro dose inalienabile di relativismo? È chiaro che stabilire il relativismo equivale a bandire il concetto stesso di verità assoluta: sono due cose inconciliabili, come sarebbero la democrazia e la monarchia assoluta. Se c’è posto per l’una, non può essercene anche per l’altra: chi crede che una mela può essere qualsiasi altra cosa, oltre che una mela, e forse neanche questo, non può sedere alla stessa tavola di che crede che una mela è una mela e basta.

 

Così, la cultura moderna ha fatto piazza pulita della verità e di tutto quel che su di essa poggiava: i valori assoluti e permanenti. Al posto loro, sono subentrate le verità provvisorie e le “situazioni”: in base alle quali una cosa è giusta o ingiusta, vera o falsa, buona o cattiva, bella o brutta, a seconda del contesto in cui ci si trova. Niente è permanente, niente è definito una volta per sempre. Che cosa resta da fare al filosofo, allora? Fare le pulci alle parole, al linguaggio, ai nomi delle cose. Non più stabilire quel che è e quel che non è, ma semplicemente se quel che si dice ha un senso compiuto: se ce l’ha, allora lo si può dire; se non ce l’ha, allora sarebbe meglio tacere. La filosofia ridotta al livello di descrizione logica del discorso, di semplice sintassi; non importa se è un discorso veritiero o menzognero, basta che la logica fili, che la sintassi sia corretta. Esito inevitabile di una cultura tutta orientata sull’utilità e non più sulla verità, sul fare invece che sul pensare, sul risultato invece che sul significato. Tale è la cultura moderna: una macchina da guerra per cambiare le cose, ma senza mai porsi il problema di cambiare colui che fa le cose, o del perché si dovrebbe cambiare qualcosa. L’importante, per essa, non è fare qualcosa che abbia un significato, ma qualcosa che abbia un senso, cioè che sia razionale: non importa se anche il fine lo è o non lo è, basta che lo siano i passaggi esecutivi, che in essi vi sia una coerenza logica.

 

Eppure nulla può avere un reale significato, se la verità viene degradata a mezzo per fare qualcos’altro: o si recupera la nozione di verità come fine, oppure si piomba nel regno del relativismo, che è il caos permanente, l’anarchismo stabilito per decreto. La verità non è altro che la corrispondenza fra le cose e il nostro giudizio: se diciamo che una mela è una mela, abbiamo detto la verità; se lo neghiamo, abbiamo detto una falsità. Ma tutto questo è divenuto politicamente scorretto: un discorso che sarebbe meglio non fare. Chi lo fa, passa per reazionario, oltre che per rozzo e ignorante: ma come, possibile che nessuno lo abbia informato che la verità è morta, e che le hanno celebrato un funerale di prima classe? Per essere moderni, bisogna essere progressisti; e se si è progressisti, allora si sa bene che la verità è morta, che è solo un fantasma del passato – un passato oscuro e superstizioso, da dimenticare per sempre. Strano che i signori progressisti non vedano, però – oppure lo vedono sin troppo bene? – che l’abolizione ufficiale della verità reca con sé, non la liberazione degli uomini, ma la loro definitiva schiavitù: la schiavitù nei confronti del fatto. Se non c’è la verità assoluta, ci sono, al suo posto, le verità relative, le mezze verità: ossia le verità dei singoli fatti, così come appaiono e non così come sono (perché come sono, nessuno ha il diritto di dirlo, o meglio, nessuno ha il diritto di saperlo). E si può immaginare una dittatura, anzi, un totalitarismo più brutale, più arrogante di questo: il totalitarismo dei fatti, eretti a norma dell’universo? I fatti si direbbero la cosa più concreta, più reale che ci sia; e invece no: cambiano continuamente, si trasformano, evolvono, sono in continuo divenire. Impossibile fermarli, impossibile imprigionarli in una forma: i fatti, per definizione, sono quel che può accadere, e dunque la mente deve sempre impegnarsi nell’estenuante fatica d’inseguirli, catturarli uno per uno, esaminarli, catalogarli; e poi ricominciare daccapo, sempre, all’infinito, perché i fatti si susseguono ai fatti, sono un fiume continuo, inarrestabile, inesauribile. Mentre la verità fornisce un criterio d’ordine generale, i fatti esigono, pretendono, un giudizio empirico, volta per volta: si tratta di riconoscerli, uno ad uno; di soppesarli, misurarli, quantificarli, e, se possibile, falsificarli (nel senso popperiano dell’espressione), per essere certi che siano quel che sembravano. Ora, anche se il relativista, che è, in pratica, un empirista radicale, non osa chiamar le cose con il loro nome, ciò corrisponde alla fatica di Sisifo di verificare i fatti singolarmente, invece di verificare il principio generale per cui possono esser considerati veri: il principio, appunto, della verità. Ma le cose sono vere se rispondono al principio di verità; altrimenti, è impossibile sapere se siano vere realmente, o se paiano solamente vere. E se la verità non esiste, o non è umanamente raggiungibile, chi ci garantirà contro l’illusorietà dei fatti? Una volta separata con l’accetta, come voleva il buon Kant, la cosa in sé dal suo apparire, in che modo si potrà parlare di fatti veri e di fatti non veri? Bisognerà limitarsi a parlare di fatti che sembrano veri: fino a prova contraria. E la prova contraria potrebbe sempre arrivare: eterna spada di Damocle sospesa sul mondo dei nostri giudizi. Ora, ci domandiamo come sia possibile vivere in questo modo: con una mappa concettuale dei fatti che deve essere continuamente aggiornata, rivista e corretta, per cancellare quelli che si sono rivelati illusori e lasciare quelli che, sino al momento presente, hanno “resistito”. Ma resisteranno fino a quando? Probabilmente, fino a quando strumenti empirici sempre più potenti consentiranno di riconoscerne il carattere illusorio. Anche la molecola, anche la cellula, anche l’atomo parevano una realtà fattuale ridotta ai suoi minimi termini; ma ogni volta si è scoperto che quel fatto stava altrimenti, che era possibile procedere ulteriormente nella scomposizione. In definitiva, la dittatura dei fatti è l’impero del caos, su cui non è possibile costruire nulla di certo o di vero, neppure se stessi. Un po’ poco, no?