Fonte: Accademia nuova Italia

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18/04/2018

 

Vale la pena di combattere per la verità?

di Francesco Lamendola

 

Nella cerchia delle nostre amicizie e conoscenze si va diffondendo una nuova e scoraggiante sensazione, in genere proprio fra le persone migliori, le più intelligenti, le più sensibili, le più consapevoli di quel che sta accadendo nella società e nel mondo: quella di essere inadeguate, nel senso di non sentirsi più all’altezza (o alla bassezza?) dei tempi attuali, di essere completamente incapaci di adeguarsi e così di sentirsi “utili”. Se una persona si sente tagliata fuori dai processi sociali, economici, culturali, finisce per maturare  un senso di colpa, un po’ come un gran lavoratore il quale, perso il lavoro, o pensionato in anticipo dalla sua azienda, ciondola fra il bar e una panchina dei giardini pubblici, ma non si gode per niente le giornate libere, si vergogna, vorrebbe quasi sparire sotto terra ogni volta che incontra un ex collega per la strada. E già questo sentimento attesta il livello morale della persona: perché solo i galantuomini provano vergogna per il fatto di non sentirsi utili alla società, mentre i cialtroni non solo non proveranno mai niente di simile, ma, al contrario, si sentono furbi e soddisfatti di se stessi se, fingendo di fare, non fanno, e fingendo di essere, non sono. Questa, peraltro, è una legge generale: i migliori sono pieni di scrupoli, i peggiori no. Il problema diventa pesantissimo, e praticamente irrisolvibile, quando nella società si creano le condizioni perché i migliori, sia moralmente, sia professionalmente, vengano oggettivamente ostacolati e penalizzati non in quanto singole persone, ma proprio in quanto sono i migliori, e i peggiori si trovino oggettivamente favoriti e agevolati proprio per il fatto di essere i peggiori: quelli disposti a vendersi, a mentire, a tradire, a fare qualsiasi cosa pur di curare i propri interessi, magari al servizio di un sistema politico-sociale ingiusto e corrotto. 

 

Ebbene, in questi ultimi anni a noi sembra che si siano create esattamente queste condizioni. Esiste, oggettivamente, una selezione alla rovescia, dove i peggiori vanno avanti e i migliori restano al palo, quando non vengono addirittura retrocessi (fino al punto di andare in prigione, o di dover espatriare); e quindi si accentua, soggettivamene, il senso d’inadeguatezza dei migliori, il loro senso di frustrazione, inutilità e amarezza, mentre cresce la baldanza dei peggiori, dei più cialtroni, dei più cinici e amorali, che sono anche, il più delle volte, i meno dotati sotto il profilo professionale, e tuttavia si vedono aperte tutte le porte e incoraggiati nelle loro più sfrenate ambizioni. Tutto ciò rappresenta il problema forse più drammatico che, dal punto di vista antropologico, si sia mai posto alle persone nel corso degli ultimi cento anni. La marcia all’incontrario della morale che si è determinata nell’ultimo secolo ha provocato una marcia all’incontrario nell’economia, nella finanza, nella cultura, nella ricerca, nelle professioni. Oggi le regole sono talmente cambiate che è divenuto normale fare ciò che, una o due generazioni fa, sarebbe stato vergognoso. Oggi il “bravo” imprenditore fa come Marchionne, porta la sua azienda all’estero per non pagare le tasse, dopo aver ricevuto una pioggia di denaro dallo Stato; e nessuno lo critica, né, tanto meno, lo considera un disonesto. Allo stesso modo, un imprenditore che chiude le sue fabbriche e trasferisce il suo capitale in titoli di borsa non è visto come un parassita sociale, ma viene giustificato: e, in un certo senso, è giustificabile, almeno fino a quando vi saranno governi i quali, invece di difendere la produzione e il lavoro, pensano solo a proteggere gli interessi delle banche. Ma sta di fatto che, in un mondo così, le vecchie regole etiche sono completamente saltate, e che solo chi abbia quattro dita di pelo sullo stomaco può andare per la sua strada e curare i suoi interessi senza sentirsi a disagio con la propria coscienza. Dei cosiddetti intellettuali, meglio non parlare nemmeno: sono pressoché tutti a libro paga, pontificano nei salotti e pubblicano libri a getto contino per lustrare gli stivali al potere finanziario, ma non si sentono in colpa: a sentirsi in colpa sono i pochi galantuomini rimasti, i quali rimproverano a se stessi di non fare abbastanza per denunciare l’asservimento della cultura e l’imbarbarimento dell’informazione, retrocesse al ruolo di tappetini sui quali si puliscono le scarpe i veri detentori del potere, dietro la trasparente finzione della democrazia.

 

Sorge inevitabile, a questo punto, una domanda: vale la pena che quei galantuomini se la prendano tanto calda? Che mettano in gioco la carriera, la salute, i risparmi (perché il potere è assai vendicativo e cerca di ridurre al silenzio chi lo critica a colpi di querela, chiedendo risarcimenti finanziari esorbitanti), quando gli altri, la gente comune, non paiono affatto interessati alla loro battaglia, sono in tutt’altre cose affaccendati, cioè il tran-tran consumista, i pettegolezzi della tv spazzatura, o, al massimo, la partita di calcio? Anche il galantuomo più nobile e disinteressato, quando ha perso il lavoro, quando ha visto stroncata la carriera, quando si trova pieno di querele e di processi da sostenere, e di conti dell’avvocato da pagare; quando comincia a somatizzare tutto ciò sotto forma di malattie; quando la moglie gli rimprovera di pensare sempre ai suoi ideali e di trascurare i suoi interessi, la sua famiglia, e magari gli fa notare che lei non può concedersi neanche il più piccolo lusso, mentre le amiche che hanno sposato i suoi colleghi più cinici e trafficoni, anche se meno dotati, sfoggiano ogni giorno un vestito diverso, ogni settimana un’acconciatura diversa e ogni mese una nuova pietra preziosa? E quando i suoi figli non riescono a trovare un lavoro, pur avendo ottimi titolo di studio, mentre i figli dei suoi colleghi cialtroni sono già perfettamente inseriti e magari occupano, fin dall’inizio, delle poltrone da dirigenti, con emolumenti mensili a cinque zeri, pur essendo del tutto sprovvisti di esperienza? Sono domande che, prima o dopo, si fa anche il più idealista, il più cavalleresco, il più donchisciottesco dei paladini della Virtù; e, se non se le fa lui, gliele fanno i suoi familiari, i suoi amici, magari, com’essi dicono, per il suo bene, cioè per aprirgli gli occhi, per risvegliarlo dal sogno alla realtà.

 

La domanda che si fa il galantuomo non è, naturalmente, se valga la pena di essere galantuomini in una società costruita sulla misura dei cialtroni – una simile domanda non potrebbe mai farsela, perché, qualora se la facesse, tradirebbe se stesso – ma se valga davvero la pena di darsi tanto da fare per svegliare gli altri, per informare gli altri di come stanno realmente le cose, per mettere in guardia gli altri sul vero significato di ciò che sta accadendo intorno a noi. In altre parole: perché bisognerebbe affannarsi a voler svegliare di dormienti, se costoro sono beati e felici nei loto sogni voluttuosi? A che scopo dire apertamente come stanno le cose, gridarlo dai tetti, a proprio rischio e pericolo, per non ricevere nemmeno un grazie, anzi, con la quasi certezza di andare incontro a incomprensioni, malignità, calunnie, derisione e, forse, di dover risarcire danni inesistenti a qualche furbastro arrogante, che ha le leggi dalla sua parte, perché anche le leggi sono fatte in modo da favorire i cialtroni e da penalizzare i galantuomini? Conosciamo personalmente alcuni di questi galantuomini che si sono ammalati, che si sono resa la vita ancor più difficile per aver voluto restare fedeli a se stessi, al loro modo di essere; alcuni che lottano contro la depressione, in silenzio, senza alcun clamore, laddove altri, al loro posto, indosserebbero la divisa della vittima e sfrutterebbero i loro mali per strappare almeno un po’ di umana commiserazione. Ma è certo che una persona fiera e dignitosa non prenderà mai questa strada, non verrà mai sfiorata da simili tentazioni; nondimeno, anch’essa dovrà pagare un prezzo, prima o poi, perché andare sempre controcorrente risulta terribilmente faticoso, e così pure il fatto di poter contare solo su se stessa o, al massimo, su pochissimi amici, però senza alcun appoggio fra la gente che “conta”. Che cosa si può dire, che cosa si può consigliare a queste persone, mettendosi dal punto di vista del loro bene: di seguitare a fare quel che hanno fatto sinora, oppure di cominciare a tirare i remi in barca, di risparmiarsi un poco, di imparare un po’ di sano egoismo e, perciò, di non esporsi troppo e di non sperperare le loro energie, il loro tempo, la loro salute, tanto più per una causa già persa in partenza? È questo che si può, che si deve dir loro, se si nutre realmente dell’amicizia nei loro confronti? Da un punto di vista puramente realistico, parrebbe di sì. Difficile negare che la loro sia una causa persa; che i loro sforzi siano pressoché inutili; che non vale la pena di consumarsi in una battaglia in cui essi pretendono di difendere chi non vuol saperne di essere difeso, perché non ammette di essere in pericolo, e, invece di mostrare verso di essi della riconoscenza, sarà forse il primo a scagliare le pietre contro di loro, quando verrà il momento. E tuttavia…

Tuttavia, ci sono cose che vanno fatte, anche se tutto sembra suggerire che sarebbe più prudente tirarsi indietro. Ci sono persone, rare, ma ci sono, le quali non avrebbero il coraggio di guardarsi allo specchio la mattina, se non seguissero ciò che il senso del dovere detta loro, indipendentemente dalle probabilità di successo. Ci sono persone che non potrebbero mai rassegnarsi a una “saggezza” fatta di calcolo, di gioco al risparmio, di prudenza egoistica. Il vero bene, per quelle persone, non consiste nel tutelare la propria tranquillità, nel custodire i propri interessi, ma nel fare ciò che va fatto, nel dire ciò che va detto, nello scrivere ciò che va scritto. E se nessun altro, o quasi nessuno, fa, dice e scrive quelle cose, se nessuno, o quasi nessuno, mostra di possedere il coraggio della verità e della coerenza, in un mondo di furbi o di prudenti che sfiorano la vigliaccheria, in un mondo di conformisti che non direbbero né farebbero mai cosa alcuna che possa ledere la loro popolarità, la loro carriera, i loro interessi, ebbene, allora diviene tanto più necessario che qualcuno lo faccia, costi quello che costi, e al diavolo le misure di prudenza e di senile “saggezza”. Essere vivi significa amare, e amare significa rischiare, esporsi, fare il primo passo, senza aspettare di vedere se anche l’altro si muove, se l’altro comprende, se l’altro ricambia. Il mondo è pieno di morti che si credono vivi e che, pur di spianarsi la strada verso il successo, non si accorgono neanche di emanare il cattivo odore dei cadaveri in putrefazione. Codesti morti viventi potranno anche godere di ottima salute e potranno anche fare delle carriere brillanti e prestigiose, ma, di fatto, sono già dei trapassati, sono già dei superati dalla vita: gente che verrà subito dimenticata, perché non ha dato nulla, non ha rischiato nulla, non ha saputo amare niente e nessuno se non se stessa. Il loro contributo al bene comune è nullo, perciò nessuna traccia resterà del loro passaggio terreno, come se fossero dei sentieri sui quali l’erba ricresce immediatamente.

Il credente ha una ragione in più per non lasciarsi guidare dai consigli di eccessiva prudenza, benché dettati dall’affetto degli amici. Il vero amico sa che la cosa più importante non è il bene inteso come benessere, ma il bene morale: e il bene di una persona, di qualsiasi persona, è quello che le permette di realizzare il meglio di se stessa. Ora, il meglio di cui l’essere umano è capace consiste nella verità: chi non prova l’aspirazione alla verità non è un uomo nel senso pieno dell’espressione, non avrebbe bisogno né della ragione, né della volontà, e nemmeno del sentimento: gli basterebbe un midollo spinale, per vivere una vita animalesca, puramente biologica. Di fatto, non sono certo pochi gli individui che trascinano questa sorta di semi-vita, interamente all’insegna della soddisfazione dei bisogni primari. Ma il bene vero di un essere umano consiste nel cercare la verità e mettersi al suo servizio; e la Verità, per il credente, è Dio. Pertanto, egli non vive mai solo per se stesso; è, e sa di essere, un semplice operaio nella vigna del Signore, e sa di non aver diritto al premio del riposo, se non dopo aver fatto sino in fondo, nel modo migliore possibile, tutto il proprio dovere. Umiltà, spirito di sacrificio, tenacia, fortezza e abnegazione sono il suo abito di tutti i giorni: lui non cerca la gloria, o la carriera, o la gratificazione egoistica del proprio io, né ambisce ad una “realizzazione” che soddisfi solo lui stesso, ma cerca qualcosa d’altro, qualcosa che non trova ricompensa adeguata sul piano puramente materiale: il premio di una coscienza pura e la consapevolezza di aver fatto degnamente la propria parte, non per la gloria di sé, ma per la gloria di Dio. Egli sa che niente e nessuno lo potrà sostenere, lo potrà consigliare, lo potrà confortare, più di quanto non possa fare Colui che disse: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore; è in Lui che confida e in nessun altro, è da Lui che riceve la forza, da Lui che attende il premio. In confronto, tutte le soddisfazioni, tutte le ricompense e tutta la gloria che possono venire dal mondo, sono soltanto paglia; sono fumo che si disperde al vento. Ed eccoci arrivati a rispondere alla domanda iniziale. Chi fa il proprio dovere, senza risparmiarsi, ma anche senza secondi fini; chi non cerca la propria gloria, ma la verità; chi non vuol servire la propria ambizione, ma la causa del bene, del vero bene, che è tale per tutti e non solo per qualcuno, a scapito di qualcun altro, non deve sentirsi affatto inadeguato, o fuori posto. No, al contrario: egli è nel posto giusto e al momento giusto; sta facendo la cosa giusta, tanto più che, altrimenti, nessuno la farebbe. E allora bisogna che la faccia. La cosa giusta che va fatta è la ricerca, l’affermazione e la difesa della verità, sempre. Dire la verità, ovviamente, è scomodo: sia dirla a se stessi che dirla agli altri. Pochi la reggono, pochissimi la sanno guardare in faccia; i più la rifiutano, o la deridono, o negano che essa li richiami a una maggiore onestà interiore, perché non ammetterebbero mai di esserne privi. Quanti hanno il coraggio di riconoscere che la loro vita è una menzogna? Eppure, essere veramente uomini significa saper fare ciò: guardare in faccia la verità. Dio sa se c’è bisogno di uomini che siano capaci di tanto.