Fonte: www.comedonchisciotte.org

24 aprile 2018 

 

Ready social killer?

di Joe H. Lester

 

– Non ha avuto coraggio, io alla fine avrei spento Oasis.

Riflettevo a voce alta, tornando a casa con un amico, dopo la visione di Ready Player One, ultimo lavoro di Steven Spielberg, indiscutibile maestro di regia, dall’animo però sempre combattuto (forse più di Christopher Nolan) tra i suoi due grandi e opposti modelli, Disney e Kubrick, quest’ultimo non a caso replicato fedelmente nella sequenza meglio riuscita e veramente sorprendente del film in questione, quella dell’Overlook Hotel di Shining.

– E quelli ti avrebbero ammazzato, – ha risposto il mio amico.

Di cosa stiamo parlando? Riporta Wikipedia (pressappoco): “Nell’anno 2045, l’inquinamento e la sovrappopolazione hanno reso un inferno la vita sulla Terra. Come via di fuga dalle loro vite nelle città decadenti, le persone si immergono nell’universo virtuale di OASIS (ispirato a film, videogiochi e a tutta la cultura pop dei nostri anni ’80), dove possono prendere parte a numerose attività per lavoro, istruzione e intrattenimento. Wade Watts, un giovane di Columbus che frequenta OASIS, tenta di battere il Gioco di Anorak, una serie di sfide create dall’ideatore di OASIS, James Halliday, morto da poco. Il vincitore che troverà il tesoro del gioco (l’easter egg) acquisirà il possesso di OASIS e l’eredità miliardaria di Halliday. Mentre Wade collabora con un gruppo di amici per cercare di trovare il tesoro di Anorak, la multinazionale IOI impiega un gruppo di giocatori per risalire al tesoro prima che lo faccia Wade e prendere il controllo di OASIS”.

Che a raccontarci questa distopia nemmeno troppo lontana dalla nostra realtà di cacciatori di Pokémon, sia lo stesso regista di The Post lo trovo perlomeno sfacciato. In ogni caso il film è visivamente impressionante e realizzato con ineccepibile (e costosa) maestria tecnica, ma in definitiva poco coraggioso, appunto, e dagli sviluppi narrativi piuttosto deludenti. In fin dei conti il tutto si riduce al giochino nerd di scovare e riconoscere le infinite citazioni che lo popolano (il che comunque lo rende in qualche modo un film interattivo come i giochi che vuole omaggiare). Ben altre pellicole e romanzi hanno nel tempo esplorato in maniera più efficace i principali temi della science-fiction, vale a dire il superamento dei limiti imposti dal corpo umano (da Frankenstein fino a John Carter, Highlander, Avatar e anche il tenero Cloud Atlas, solo per dirne alcuni), l’evoluzione della macchina e la presa di coscienza dell’intelligenza artificiale (Metropolis, Blade Runner, Wargames, Corto Circuito, Terminator, Matrix, Nirvana, A.I., Io, robot, Wall-E, Ex machina, Ghost in the Shell e così via).

Assodato che Theodore Kaczynski, pur nella sua follia, aveva evidentemente centrato il problema, considerato quanto oggi siamo tutti dipendenti dai dannati black mirror che ci portiamo appresso, le cornici digitali attraverso cui inquadriamo il mondo invece di osservarlo direttamente, quei dispositivi in cui spontaneamente inseriamo i nostri gusti, i nostri metadati, la nostra vita in pratica, pagando persino per possederli, senza nemmeno dover ricorrere a leggendari programmi occulti per inoculare microchip sottopelle, poiché oramai è potenzialmente sempre possibile sapere dove siamo e a far cosa. Che se ne fanno di questi mezzi i millennials, i cosiddetti nativi digitali, quelli per cui Facebook e già roba per vecchi? Seguono gli influencer, guardano e caricano “storie” su Istagram. Continuamente. E tralasciando il fatto che io mi sento vecchio e per me le “storie” hanno un’inizio, uno svolgimento e una fine, non sono semplici immagini, né meme di internet, a cosa servono ste “storie” che pure (per fortuna o purtroppo) non lasciano troppe tracce nella memoria collettiva? In definitiva ad assolvere la funzione che Andy Warhol così riassumeva circa sessant’anni fa: “nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”. Solo in maniera ancora più estemporanea e superficiale che su Facebook. Chi usa massicciamente mezzi tanto effimeri, perdonate il giudizio spietato, nella maggior parte dei casi è un povero sprovveduto che grida al mondo: ci sono, sono vivo e faccio cose! Guardatemi che solo per questo mio desiderio me lo merito!

In pratica è una disperata ricerca di affetto, di attenzione, forse anche sessuale, è la nostra coda di pavone digitale, come mi pare suggerisca anche l’inquadratura finale del film di Spielberg. SPOILER: sarò malizioso, ma in una pellicola dove comunque si insiste due/tre volte sulle parti basse colorandole spesso di blu neon o focoso rosso vergogna, che sia infine lo sperimentare un’erezione reale a far sgranare gli occhioni alla bella Olivia Cooke? Finalmente una vera reazione al bacio scambiato in braccio al boyfriend in carne e ossa, al contrario di quella precedente e un poco triste, avvertita attraverso la tuta “aptica” nel cyberspazio (tuta che altro non è in fondo, se non l’equivalente filmico di quella usata oggi dagli attori per recitare in performance capture).

Tuttavia, per renderla una storia appena più interessante, a me che sono pur sempre un ingenuo, sarebbe bastato che Wade Watts spegnesse Oasis, anche accidentalmente, per il bene di tutti, per salvare non solo il suo conto in banca, ma il mondo intero. Eppure in tal modo la gente lo avrebbe linciato, sostiene a ragione il mio amico.

E infatti il giorno dopo la visione del film vengo a conoscenza del fattaccio di cronaca. Una donna armata avrebbe ferito delle persone nel campus di YouTube a San Bruno, California, per poi togliersi la vita. Esclusa l’ipotesi terroristica, i media accennano inizialmente al delitto passionale, ma il giorno seguente la storia cambia: Nasim Najafi Aghdam avrebbe agito in tal modo per ritorsione nei confronti dell’azienda che a suo dire le oscurava i contenuti, limitava le visualizzazioni dei suoi video (e conseguente monetizzazione) e forse chiuso uno dei canali. Sarà vero? Sarà andata proprio così? Accontentiamoci, per una volta, della narrazione ufficiale.

Tempo fa devo aver letto, in rete o sull’introduzione di qualche fumetto DC (The Killing Joke, o Arkham Asylum) l’opinione di qualcuno circa la natura del Joker, il celebre e iconico villain, un archetipo, ma anche un precursore sosteneva l’autore, un individuo che in realtà non sarebbe affatto pazzo (almeno non soltanto), ma il primo di una nuova specie di uomo del futuro, capace di adattare il proprio umore, e il proprio umorismo, a seconda degli stimoli ricevuti dall’ambiente in una società, questa sì, malata e schizofrenica. Allo stesso modo potremmo dire che oggi ci troviamo chiaramente davanti a un nuovo carattere omicida, a un nuovo assurdo genere di vendetta.

Se dovessero nuovamente essere cancellate identità in rete appartenenti a menti labili che tengono a quelle stesse identità quanto o forse più di quella vera (ma cos’è un identità poi?), se a queste persone dovessero anche essere requisite proprietà sul web, quale potrebbe essere la reazione? Se queste identità dovessero corrispondere a cittadini degli Stati Uniti, nazione per sua specifica natura terra di frontiera, almeno a dar retta a Frederick Jackson Turner, patria dei western e de Il giustiziere della notte: cosa potrebbe accadere?

Dopo il serial killer (riguardo il riconoscimento della categoria vedere la serie Mindhunterssu Netflix) ecco adesso il social killer. Dobbiamo forse temere l’avvento di queste nuove temibili figure?

E proseguendo la visione del mio personale film distopico: pensate alle scene d’isteria di massa cui potremmo assistere il giorno che verrà spento Internet! Certo, i protagonisti di Ready Player One giocano per soldi, per vincere la proprietà di una piattaforma usata da milioni di utenti, però spinti da questa possibilità allo stesso tempo combattono per difendere un mondo virtuale, parte integrante della loro realtà. Ci stiamo preparando a questo? La guerra è già in rete, ad esempio si fa a colpi di tweet; che ci sia la volontà di farla combattere anche all’utente medio?

 

aprile 2018