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28 aprile 2018

 

L’Impero ottomano e la nascita dei nazionalismi

di Andrea Salerno

 

Avvento della modernità, laicismo e ferventi ideali patriottici: ecco le cause che inasprirono il lento declino della Sublime porta.

 

Cartolina ottomana raffigurante il ripristino della costituzione del 1876

Era il 1839 quando, con la proclamazione del Nobile Editto del Giardino delle Rose, da parte del sultano Abdül-Mecid, l’Impero ottomano dava avvio alla stagione delle tanzimat (riforme). Le succitate riforme, progettate seguendo il modello dell’Europa post-rivoluzionaria, dovevano servire, nelle intenzioni del Sovrano ottomano, a frenare il processo disgregativo che proprio gli ideali provenienti dal vecchio Continente avevano contribuito a innescare. Fra le nuove idee portate dalla rivoluzione francese, quella che, sicuramente, ebbe l’effetto più deflagrante per la tenuta delle fondamenta dell’Impero fu il concetto di patria – in arabo al-Watan. Questa nozione, secondo la quale ogni gruppo di persone aventi cultura, usi e credo religioso comuni avevano il diritto di creare entità nazionali autonome, sino a quel momento, era rimasta estranea all’interno dei confini del Sublime Impero che, per sua intrinseca natura, era portatore di una visione universalista.

 

Gli ideali patriottici, almeno in principio, attecchirono, in maniera maggiore, nelle province europee della Porta, ovvero nei Balcani. I popoli di queste aree erano a maggioranza cristiane e dunque iniziarono a percepirsi, chiaramente, come corpi estranei all’interno del mondo islamico-ottomano e cominciarono a creare disordini. Col tempo le rivolte si fecero endemiche e proprio per porvi rimedio, nel 1856, come extrema ratio, venne emanato l’Hatt-i Humayun. Tale atto garantiva a tutti i cittadini dell’Impero eguali diritti e doveri, senza alcuna discriminazione riguardo alla professione religiosa. In questo modo l’Imperatore ambiva a formare una nuova concezione di cittadinanza, basata, prima che sulla religione, sul senso di appartenenza allo stato e sulla fedeltà alla figura sultanale. Questo provvedimento avviò la politica dell’ottomanismo, dando allo Stato, almeno in apparenza, un assetto più laico, proprio per evitare lo smembramento, che diveniva sempre più una minaccia concreta, anche a causa delle pressioni esercitate dagli stati europei su Istanbul.

 

Lo smembramento dell’Impero ottomano dal 1683 al 1923

Prima di quel momento, la società ottomana si basava sull’Islam – che rivestiva un ruolo preminente e permeante riguardo tutti gli aspetti della vita statale e privata – e gestiva le minoranze religiose attraverso il sistema dei millet, antico termine coranico che si riferisce alle religioni di ceppo abramitico. Questa organizzazione garantiva a suddette minoranze – previo pagamento di una tassa, chiamata dhimma – libertà di culto e le dotava di un’organizzazione amministrativa autonoma, con leggi proprie ed un capo religioso responsabile nei confronti del potere centrale di Istanbul.

 

I millet, essendo realtà aventi al proprio interno una variegata presenza di etnie, avevano sempre funto da deterrente alla formazione di sentimenti nazionalistici in seno ai territori ottomani. L’Hatt-i Humayun, però, non sortì gli effetti sperati, difatti, esso prevedeva tacitamente, per la sua stessa formulazione, un superamento del sistema dei millet che, con la parificazione dei diritti, non avevano più ragione di esistere. Ciò portò ad una esacerbazione dei rapporti all’interno delle vecchie comunità religiose, a cagione dell’emergere dei particolarismi che, pian piano, si facevano sempre più evidenti. I provvedimenti posti in essere, quindi, oltre a non fungere da rimedio al problema, finirono addirittura per aggravarlo. Con il passare del tempo, difatti, la disgregazione dell’Impero divenne realtà. Nel giro di pochi decenni, quello che fu per secoli il maggiore spauracchio dell’Europa cristiana, vide alcuni suoi ex territori – specialmente quelli del nord Africa – passare proprio sotto l’influenza europea; mentre nei Balcani videro la luce nuovi stati, formati da quei popoli cristiani che si erano emancipati dal giogo della Sublime porta.

Sul finire del XIX secolo, il sultano Abdül-Hamid II, a seguito del drastico ridimensionamento dell’Impero e della susseguente perdita della stragrande maggioranza dei sudditi cristiani, decise di porre fine alla politica dell’ottomanismo che, con la situazione che si era venuta a creare, non risultava più consona. Il Sultano capì che doveva far leva sul risentimento che la popolazione ottomana serbava nei riguardi delle potenze cristiane. Dunque, riportò l’Islam ad essere il perno della vita imperiale per ricompattare i sudditi, a prescindere dall’etnia di appartenenza. Per fare ciò, fece largo uso del titolo di Califfo e si erse a paladino della umma contro la civiltà europea, governando come sovrano assoluto. Riavvicinò a sé gli ulama e seppe accattivarsi le simpatie degli strati più bassi della società, diventando molto apprezzato, soprattutto dalla popolazione araba che, con la perdita delle province europee, era diventata la seconda più numerosa dell’Impero. Se queste mosse gli garantirono l’appoggio dei religiosi e delle classi popolari, di contro, fecero sì che le classi più alte e parte degli ufficiali dell’esercito, rimasti fedeli alle idee liberali pervenute dall’occidente, lo vedessero come un avversario da abbattere. Infatti, proprio questa inimicizia fu fatale al Sultano che, dopo varie vicissitudini, fu definitivamente rimosso dal potere con un colpo di stato, organizzato dai Giovani Turchi nel 1909.

 

Il principe ereditario Abdül Hamid in un ritratto fotografico del 1867

Le politiche realizzate nell’epoca delle tanzimat, pur portando a delle migliorie in ambito di sviluppo della macchina statale e dei trasporti, non seppero arginare le criticità con cui l’Impero dovette misurarsi a seguito dell’avvento della modernità portata nella dar al-Islam, in modo coattivo, dall’Europa. Gli ideali laici e patriottici infiammarono gli animi dei molti popoli che, da secoli, avevano convissuto in pace entro i confini Sultanali. Le politiche sociali e religiose, anziché migliorare la già estremamente delicata situazione, finirono per acuirla, rendendo ineluttabile la caduta di quella potenza che, a seguito della presa di Costantinopoli del 1453, si era proposta come naturale erede dell’Impero bizantino.