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2 maggio 2018

 

Oltre i confini della vita

di Lea Melandri

Saggista, scrittrice e giornalista, Lea Melandri ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio” ed è un punto di riferimento del movimento delle donne.

 

Il dominio della tecnica sulla vita, quali totalitarismi e servitù prepara per il futuro?

 

Il sogno di rigenerazione, così come l’ossessiva difesa della vita, della salute, dell’eterna giovinezza, diventano loro malgrado i testimoni più insospettabili dei pericoli che oggi minacciano la sopravvivenza: il deterioramento del clima e dell’ambiente, la guerra, le malattie, lo squilibrio tra i ricchi e i poveri del mondo, il moltiplicarsi delle cause di morte, la resa a un modello di sviluppo ormai incontrollabile.

 

Non è certamente un caso che le tecnologie applicate alla vita si siano andate orientando sempre più verso quei due estremi che sono la nascita e la morte, e abbiano finito per dilatarne a tal punto i confini da far balenare l’idea dell’immortalità, o comunque di un controllo finora impensabile sul destino del vivente. Seguendo le orme del dio creatore che non ha mai smesso di accompagnarlo nel suo cammino storico, l’uomo tenta oggi la sfida ultima: padroneggiare il principio e la fine, strappare alla natura e al corpo femminile che ne è stato depositario, il centro imprendibile, segreto, che è all’origine della vita, ma anche dei suoi limiti.

 

Una vita sotto tutela, come una macchina perfettibile, esposta agli sguardi vigili di quanti sono chiamati a decidere per essa – parenti, medici, magistrati, politici -, non poteva non dare adito a interrogativi preoccupati sul senso nuovo, imprevisto, che viene a prendere l’“umano” dietro la spinta di mutazioni così radicali.

 

Se l’uomo diventa “antiquato”, ha scritto Gunter Anders, estromesso dalla storia e sostituito dal suo prodotto più potente, la tecnica, quali totalitarismi e servitù ci aspettano nel futuro? Il progetto ambizioso di “crearsi da sé”, intervenendo sulle leggi naturali dell’evoluzione, è quanto meno sospetto quando a volerlo è lo stesso che ha costruito armi in grado di distruggere l’intera specie.

 

Il corpo è l’elemento che l’uomo ha in comune con gli altri esseri viventi, ma da cui non ha mai cessato di prendere distanza per salvaguardare la sua diversità, fatta di linguaggio, pensiero, capacità creative. Ma è anche la radice che imparenta i due sessi al di là delle loro differenze biologiche, per quella fase sia pure breve di indistinzione che attraversano la madre e il figlio. Forse è per questo che, facendosi protagonista unico della storia, l’uomo ha continuato fino alle soglie della modernità a considerare la donna una “vita inferiore” e, al medesimo tempo, il misterioso “vortice creativo” depositario di una scintilla divina, promessa e minaccia per la sua continuità.

 

A far da controcanto alle sirene del grande mutamento, restano poche voci, scritture defilate dal coro che oggi plaude ogni promessa di vita eterna, che venga dai laici o dalle chiese. A “pensare e scrivere la morte” è stata storicamente la parola dei poeti, capaci di testimoniare il “nulla” su cui si affaccia l’esistenza, senza restarne muti o abbagliati. Ma ci provano anche tutte quelle scritture che non hanno paura di mettersi a nudo, sfiorando i confini di passioni “impresentabili”, sopportando silenzi e frammentazioni.

“La via della scrittura si pone di fronte al dolore, alla souffrance, al nulla, e procede. Tenta questo spazio, ne percorre i limiti, ceca il punto di soglia da cui possa captare un’immagine o un suono e portarlo in sé come una conquista preziosa, come la testimonianza del superstite appunto, che da questo viaggio ritorna, riferisce, per poi riprendere il viaggio, senza curarsi se il sapere che ne trae, come ha scritto Baudelaire è amaro” (Franco Rella, Dall’esilio, Feltrinelli 2004).

 

Navigazioni decisamente diverse, quella dello scienziato e quella del poeta filosofo, accomunate solo dalla volontà di sottrarre alla morte il suo mistero, il suo urto, la sua intollerabilità. Ma il racconto che tenta di restituire l’esperienza di un individuo nella sua interezza – corpo pensante e senziente -, rischia di passare del tutto inascoltato dietro il frastuono di voci consolatorie che vengono dai fronti opposti, ma ugualmente autorevoli, dello sviluppo tecnologico e del risveglio religioso. L’“avvenire di un’illusione”, che Freud scrisse pensando a una Provvidenza divina modellata su un infantile bisogno paterno, si potrebbe ormai estendere al dio tutto terreno, e decisamente meno attraente, che una società senza padri ha creduto di poter identificare con le sue potenti creature meccaniche.