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2 Maggio 2018

 

Dalla Banda della Magliana alla seduta spiritica: tutto quello che non torna nella detenzione di Aldo Moro

di Luca Longo

 

Viaggio in tre puntate nelle molte zone oscure di uno degli episodi più tragici della storia italiana. Il caso Moro. Ecco tutto quello che non torna nelle ricostruzioni ufficiali. Errori, omissioni. E bugie

 

Un altro luogo affollato. 

La cassa di Moro viene scaricata dal Fiat 850T e caricata su una Citroën Ami nel parcheggio sotterraneo della Standa di Via Colli Portuensi dove li aspetta Gallinari. Moretti e Gallinari diranno che ripartono sulla Citroën familiare per portare da soli la cassa di Moro nel covo di Via Montalcini mentre gli altri si disperdono. Il parcheggio di un supermercato attorno alle 10 di mattina è scelto proprio per trasferire una grossa e pesante cassa, col rischio che Moro gridi chiedendo aiuto capendo di trovarsi in un luogo affollato.

 

Via Montalcini, 8. 

Appartamento al piano terra, interno 1, 100 mq completo di giardino, garage e cantina di proprietà dei coniugi Altobelli: in realtà Anna Laura Braghetti (che lo acquista l’anno precedente con 50 milioni in contanti consegnati da Moretti) e Germano Maccari. Secondo tutti i brigatisti, Aldo Moro viene rinchiuso ininterrottamente dal 16 marzo al 9 maggio 1978 in un cubicolo 2,80 m per 1 m separato dallo studio con una parete insonorizzata e accessibile da una libreria che ruota su un cardine. Alla fine del sequestro le BR smantelleranno la parete ma Braghetti continuerà a vivere lì per ancora un anno, quando - convinta di essere seguita dalla Polizia - scapperà lasciando alla zia l’incarico di vendere “ma senza fare sconti”. La zia riesce a rivendere l’appartamento ancora per 50 milioni. Unico caso noto di un covo terrorista che non viene abbandonato ma rimane in uso per un altro anno e poi rivenduto per rientrare nelle spese.

 

Prigionia. 

Moretti sosterrà che Moro “scriveva sulle ginocchia su dei cuscini”. Per le pulizie personali “Quando occorre gli vengono portati dei catini”. “Non ha mai camminato. Si alza, si sgranchisce le gambe, ma non si è mai mosso da lì dentro”. L’autopsia accerterà l’assoluta assenza di atrofizzazione degli arti inferiori e che il corpo di Moro è in una condizione di igiene assoluta, che mal si concilia con l’affermazione di Moretti circa i catini che gli sarebbero stati concessi per le sue pulizie personali. Il Sisde, nel luglio 1979, con registrazione ambientale di una conversazione tra due brigatisti detenuti nel carcere dell’Asinara, ascolterà che Moro ottiene “tutto quello che (sic) aveva bisogno: si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva […], è stato trattato come un signore”.

 

Giovanni Ladu. 

Bersagliere di leva, nel 2008 e poi nel 2012 dichiarerà di essere stato, insieme a altri nove militari in borghese, piazzato in un appartamento adiacente all’Interno 1 per presidiare una stazione di controllo e prendere nota di chi entra e esce dall’appartamento di fronte. Curioso che si affidi una missione così delicata ad un soldato di leva. Ladu si giustifica dicendo di essere stato un membro di Gladio e prosegue dicendo che il 7 maggio arriverà l’ordine di smobilitare. Verrà indagato per calunnia dalla Procura di Roma.

 

E l’altra prigione? 

Una perizia sul leader democristiano dimostrerà che è stato tenuto prigioniero in almeno due posti diversi. È uno studio sui reperti sabbiosi rinvenuti sugli indumenti di Moro e sulle ruote della Renault rossa dove sarà trovato il corpo. Moretti sosterrà che sono collocati a bella posta nei vestiti e nelle scarpe dello statista allo scopo di depistare le indagini. Appare poco credibile che in pieno sequestro, con una città assediata e centinaia di posti di blocco, la Faranda e la Balzerani vadano a raccogliere sulle spiagge del litorale laziale “sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe” del sequestrato per precostituire un depistaggio che acquisterà validità solo dopo il ritrovamento del cadavere.

 

I vicini di casa. 

La banda della Magliana è come il prezzemolo: compare in tutte le vicende criminali ma anche in tutti i depistaggi. Lasciando da parte le congetture, è innegabile che numerosi esponenti abitino proprio nei pressi della prigione di Moro: Danilo Abbruciati con altri due malavitosi in via Fuggetta 59 (a 120 m dalla prigione; Danilo Sbarra e Francesco Picciotto, uomo di Pippo Calò, in via Domenico Luparelli 82, a 130 m (ma a 50 m se si passa dall’ingresso secondario); in via di Vigna Due Torri, 135 (a 150 m) abita Ernesto Diotallevi, compare di Calò. In via Montalcini 1 sorge villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra, di cui Pippo Calò si serve per riciclare il denaro proveniente da attività mafiose. Se davvero le BR tengono prigioniero Moro in un luogo sotto il controllo fisico della banda della Magliana, ci si chiede se Moretti, Gallinari e la Braghetti ignorino di essere letteralmente circondati dai capi della banda o conoscono questa circostanza e hanno scelto quel posto proprio perché sanno di poter contare su una benevola protezione?

 

La seduta spiritica. 

Questo rimane il mistero più famoso: nell’ultimo quarto di secolo è stato continuamente rilanciato solo per tirare fango addosso a uno dei dodici protagonisti. Secondo i professori bolognesi, il 2 aprile del ’78 a casa Clò il piattino indicò un mare di lettere senza significato e anche parole di senso compiuto, come Bolsena e Viterbo, poi uscì anche Gradoli. La Commissione Moro, acquisita la testimonianza di tutti i partecipanti, ha concluso che è abbastanza surreale la tesi che questo sia stato un modo per segnalare il covo di Via Gradoli preferendolo a un messaggio anonimo perché quest’ultimo si sarebbe perso fra le migliaia ricevuti in quei giorni dagli inquirenti. Se ambienti dell’Autonomia bolognese o altri simpatizzanti delle BR fossero venuti a conoscenza del covo, non avrebbero avuto alcun motivo per segnalarlo collaborando con le Istituzioni. La loro posizione era riassunta nel famoso slogan “Né con lo stato, né con le BR.” E se anche avessero avuto un po’ di senso civico, piuttosto che questa messinscena sarebbe stato più furbo recapitare un messaggio anonimo con circostanze precise a persone in grado di segnalarlo ai vertici del governo o della magistratura.

 

Via Gradoli 96, interno 11, secondo piano. 

È lì che abitano nella primavera del 1978, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Proprio in quel palazzo diversi appartamenti erano di proprietà dei servizi segreti, intestati a società di copertura ed occupati da personaggi vicini ai servizi, alle forze dell’ordine e a informatori di polizia e carabinieri. Ma tutta la zona vede una alta densità di appartenenti ai servizi. Ad esempio al numero 89 - proprio di fronte al 96 - prima e durante il sequestro Moro abita il sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani. E’ un agente del Sismi, proviene da Porto San Giorgio (quindi è un compaesano di Mario Moretti). Il regista del sequestro Moro ha trovato un posto ideale per la sua base.

 

La dirimpettaia. 

Lucia Mokbel è l’inquilina della porta accanto all’interno 11: l’appartamento numero 9, dove alloggia col convivente Gianni Diana, impiegato da un commercialista amministratore di immobili in cui figurano anche società in mano ai servizi segreti. Mokbel, di origine egiziana, figlia di un diplomatico legato ai Servizi del suo Paese e conoscente del commissario Elio Cioppa, riferirà alla polizia di strani ticchettii notturni, tipo alfabeto morse (che la Mokbel conosce), provenienti dall'appartamento brigatista.

 

La perquisizione. 

Secondo il giudice Luciano Infelisi, immediatamente dopo il sequestro le perquisizioni per individuare la prigione di Moro si concentrano su tutti i miniappartamenti ed i residence della zona. Anche Via Gradoli, 96 viene passata al setaccio solo due giorni dopo, ma all’interno 11 non risponde nessuno e gli agenti se ne vanno. «Non mi fu dato l’ordine di perquisire le case — riferirà in aula il sottufficiale Merola — Era solo un’operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l’autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L’interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi». Ma Lucia Mokbel - la signora in questione - aggiunge di aver dato il biglietto proprio ai poliziotti, perché lo consegnassero a Elio Cioppa (poi risultato iscritto alla P2). Quel biglietto non è mai stato ritrovato.

 

Gradoli (Viterbo). 

Fra le decine di migliaia di perquisizioni in tutta Italia, il 6 aprile viene effettuato anche un controllo mirato in alcune case coloniche nel comune di Gradoli (Viterbo), vicino al lago di Bolsena. L'operazione viene compiuta su segnalazione alla Direzione generale di Polizia tramite il Gabinetto del Ministro dell'Interno. Il biglietto autografo del 5 aprile, trasmesso al Capo della Polizia dal dottor Luigi Zanda Loi, capo ufficio stampa del Ministro Cossiga, contiene non parole smozzicate riferite da un piattino paranormale ma due precise indicazioni: "Casa Giovoni - Via Monreale, 11 - scala D int. 1 piano terreno - Milano" e "lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina". Le perquisizioni non daranno alcun frutto.

 

Il falso comunicato numero 7. 

Le BR durante il sequestro fanno trovare 9 comunicati. Il 18 aprileproprio il trentennale delle prime elezioni politiche che consegnarono il Paese alla DC, in Piazza Indipendenza compare il presunto comunicato numero 7. Realizzato dal falsario Antonio Chichiarelli, della Banda della Magliana, neofascista e confidente dei Servizi segreti, il falso sostiene che Moro è stato ucciso e buttato nel Lago della Duchessa, fra Lazio e Abruzzo, dove viene cercato per due giorni dai sommozzatori anche se la superficie è completamente ghiacciata.
Le BR interpretano il comunicato taroccato come un falso di Stato e un rifiuto a trattare uno scambio di Moro coi brigatisti in carcere.

 

La doccia. 

Sempre il 18 aprile, le forze dell'ordine scoprono il covo di via Gradoli, 96. Questo avviene solo per una perdita d'acqua segnalata ai vigili del fuoco. È provocata da un rubinetto della doccia lasciato aperto, appoggiato su una scopa e con la cornetta rivolta verso un muro. Mario Moretti dirà di averne avuta notizia dai giornali, che la riportano subito. Perciò non vi fa ritorno e sfugge alla cattura. La polizia, durante la perquisizione, trova anche la targa originale della 128 bianca usata per il tamponamento di via Fani. Un souvenir.

 

Le lettere. 

Moro scrive 86 lettere durante la prigionia. Sono state esaminate per 40 anni. Leonardo Sciascia per primo ipotizzerà che nascoste nelle parole di Moro ci siano indicazioni su dove si trova. «Io sono qui in discreta salute» del 27 marzo, dove indica alla moglie di essere a Roma. «mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato» inviata a Cossiga, in cui - col senno di poi - sembra specificare che si trova in un piano basso sotto un condominio affollato ma mai controllato che potrebbe essere opportunamente perquisito, e in cui, sempre rivolto a Cossiga, avverte: «che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni.» A buon intenditor…

Via Gradoli 96, interno 11, secondo piano. È lì che abitano nella primavera del 1978, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Proprio in quel palazzo diversi appartamenti erano di proprietà dei servizi segreti, intestati a società di copertura ed occupati da personaggi vicini ai servizi, alle forze dell’ordine e a informatori di polizia e carabinieri. Ma tutta la zona vede una alta densità di appartenenti ai servizi.

Gli interrogatori.

Ogni giorno Moretti esce da Via Gradoli per andare alla prigione e interrogare Moro. Gli interrogatori vengono registrati e poi sbobinati. Le bobine originali, secondo i brigatisti, vengono distrutte insieme agli originali degli scritti del prigioniero “perché non importanti”. Il presidente DC parla dell'organizzazione Gladio, del Piano Solo (il tentato colpo di Stato del Generale De Lorenzo, capo dei Carabinieri, nel 1964), della connivenza di parte della DC e dello Stato nella strategia della tensione, ma anche dello scandalo Italcasse e Caltagirone. Sono esattamente le rivelazioni che le BR cercano e che nei primi comunicati promettono di rendere pubbliche. Ma non manterranno mai la parola e sostengono di aver preferito distruggere tutto “perché non importante”.

 

I comitati di crisi. 

Il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga nomina già il 16 marzo il «comitato tecnico-politico-operativo», presieduto dallo stesso Cossiga e - in sua vece - dal sottosegretario Nicola Lettieri, di cui fanno parte i comandanti di polizia, carabinieri e guardia di finanza, oltre ai direttori del SISMI e del SISDE, al segretario generale del CESIS, al direttore dell'UCIGOS e al questore di Roma. Nomina anche il «comitato informazione», di cui fanno parte i responsabili dei vari servizi: CESIS, SISDE, SISMI e SIOS.
Viene creato anche un terzo comitato, non ufficiale, denominato «comitato di esperti». Della sua esistenza si saprà solo nel 1981, quando Cossiga stesso ne rivelerà l'esistenza alla Commissione Moro, senza indicarne le attività e le decisioni. Di questo organismo fanno parte, tra gli altri: Steve Pieczenik (funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano), il criminologo Franco Ferracuti, Stefano Silvestri, Vincenzo Cappelletti (direttore generale dell'Istituto per l'Enciclopedia italiana) e Giulia Conte Micheli. Si avranno le prove che la maggior parte dei membri dei tre comitati sia iscritta alla Loggia P2 di Licio Gelli. Di Pieczenik riparleremo dopo.

 

Moretti, gioventù di un brigatista particolare.

Mario Moretti è il regista del rapimento Moro: partecipa al rapimento, agli interrogatori, all’eliminazione del presidente DC. Una figura particolare. I suoi studi giovanili vengono finanziati da una benestante famiglia nobile fascista, Camillo e Anna Casati Stampa di Soncino. Il 30 agosto 1970 Camillo ucciderà Anna e il suo amante, Massimo Minorenti, poi si toglierà la vita. La loro villa, ereditata dalla figlia Anna Maria, verrà poi venduta per 250 milioni (parliamo di 3500 mq, inclusa una pinacoteca con opere del ‘400 e del ‘500, una biblioteca con 10.000 volumi antichi, un parco immenso, scuderie e piscine) grazie alla decisiva intermediazione del pro-tutore della ricca ereditiera ancora minorenne: l’avvocato Cesare Previti. L’acquirente e “utilizzatore finale” di Villa San Martino è Silvio Berlusconi, ma questa è un’altra storia, torniamo a Moretti. Verrà assunto alla Sit-Siemens nel 1968 grazie ad una lettera di raccomandazione di Anna Casati. Lì conosce Corrado Alunni, Paola Besuschio, Giuliano Isa, futuro zoccolo duro delle Brigate Rosse, l’ala militarista osteggiata da Curcio e Franceschini, contrari alla lotta armata. Moretti il 30 giugno 1971, partecipa con Renato Curcio ad una rapina per autofinanziarsi a Pergine di Valsugana. E’ la sua prima azione all’interno delle Brigate Rosse, è sicuro di sé, pronto a tutto.
Durante il fallito rapimento del politico democristiano Massimo De Carolis, le forze dell’ordine decapitano l’intera classe dirigente delle Br, ma proprio lui riesce a fuggire. Però all’interno del covo che avrebbe dovuto accogliere De Carolis, polizia e carabinieri trovano in una scatola di scarpe le fotografie di Curcio e altri scatti compromettenti. Quella scatola l’ha dimenticata Moretti, che pure assicura i compagni di averla bruciata. E inizia una latitanza obbligata. Nel 1974 vengono arrestati a Pinerolo Curcio e Franceschini, durante un incontro con Silvano Girotto, detto Frate Mitra, infiltrato dai carabinieri. Un incontro al quale avrebbe dovuto partecipare anche Mario Moretti, opportunamente avvertito da una telefonata anonima che gli permette di sfuggire all’arresto. La telefonata arriva ben quattro giorni prima, ma nel frattempo Moretti “non riesce” ad avvisare Curcio e Franceschini.

 

Moretti, la scalata di un brigatista particolare.

Curcio e Franceschini sono fuori dai giochi e le BR virano decisamente verso la linea dura: lotta armata contro lo Stato. In uno scontro a fuoco con i carabinieri durante il rapimento dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia muore Mara Cagol, mentre Giorgio Semeria rimane gravemente ferito.
Semeria dal carcere riuscirà a scrivere a Curcio per avvertirlo che Moretti è una spia e che Mara Cagol è stata ammazzata quando era già ammanettata e in ginocchio. Moretti è ormai il capo indiscusso delle Brigate Rosse, si trasferisce a Roma e si prepara a gestire la stagione di piombo che culminerà con il rapimento Moro.
Curcio intanto evade dal carcere di Casale Monferrato con una fuga rocambolesca e incontra i nuovi vertici delle BR. Moretti insiste per soggiornare nell’appartamento di Curcio, di cui non conosce ancora l’indirizzo. Solo due giorni dopo, la polizia fa irruzione nell’abitazione del vecchio leader, arrestandolo nuovamente. Confiderà in seguito Curcio a Franceschini “Sono convinto che Moretti sia una spia”.

Moretti, la fine di un brigatista particolare. Il pluriricercato Moretti negli anni successivi va più volte in Francia per incontrare compagni latitanti. Rivelerà questa circostanza durante il processo provocando lo stupore degli altri brigatisti coimputati che non ne sapevano nulla. Ne riparleremo più avanti alla voce Hyperion. Durante il sequestro Moro, viaggia ripetutamente tra Roma e Firenze, sfuggendo a qualsiasi controllo. Il 4 aprile 1981, dopo oltre dieci anni di latitanza, la primula rossa verrà arrestata e condannata a sei ergastoli. Dopo soli 16 anni, nel luglio del 1997, otterrà la semilibertà. Moretti non si è mai pentito, né si è mai dissociato e non ha collaborato con gli inquirenti.