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8 maggio 2018

 

Uno stato che non era un moloch 
di Roberto Salerno

 

Qualche giorno fa, Franco Calamida – che proprio nei giorni del sequestro Moro fu tra i fondatori di Democrazia Proletaria – ha ricordato come il terrorismo sia stato “il nostro peggior nemico”. Dopo il massacro dei cinque uomini della scorta, “l’omicidio del leader democristiano, l’atto irreversibile della sua morte trasformava l’oppressore – l’uomo del potere – in vittima e, al contrario, chi si affermava come vendicatore… diventava a sua volta oppressore”, scrisse all’epoca Ninetta Zandegiacomi (su Unità Proletaria, giugno-luglio 1978). A partire dai ragionamenti “alti” di Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino, fino all’ultimo improvvisato “dietrologo” fuori tempo massimo, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro non si è mai smesso di parlare, lungo questi 40 anni che ci separano dal tragico epilogo di via Caetani. In questo intervento Roberto Salerno fa giustizia dei tanti mediocri complottismi, proponendo invece una riflessione sul ruolo transitorio e il fragile potere di chi temporaneamente ha “in mano le redini” delle strutture statali [PalermoGrad].

La mattina del 9 maggio del 1978 a due passi da Via delle Botteghe Oscure e a qualcuno di più da Piazza del Gesù venne ritrovato il corpo di Aldo Moro. Il presidente (dimissionario) della Democrazia Cristiana era stato rapito 55 giorni prima, il 16 marzo, da un gruppo formato da almeno dieci persone. 

Per quanto queste due affermazioni possano sembrare – e siano – asettiche, persino su queste alcuni hanno avanzato dei dubbi e ci sono poche certezze. Per esempio sull’orario del ritrovamento ci sono varie incongruenze. La polizia accorre sul luogo poco dopo le 13 mentre le dichiarazioni, più o meno concordanti, dei brigatisti raccontano che la macchina, una Renault 4 rosso amaranto, venne lasciata in Via Caetani intorno alle 8 del mattino. Signorile, all’epoca vicesegretario del PSI, racconta alla prima “Commissione Moro” di essere stato invitato da Cossiga intorno alle 10.30 e che durante il colloquio arrivò una telefonata che stravolse il Ministro dell’Interno che lo congedò dicendo “non serve più nulla, non c’è più niente da fare”. Ancora: la celeberrima telefonata di Valerio Morucci all’assistente di Moro, Franco Tritto, nella quale viene annunciata sia l’esecuzione che il luogo dove poter ritrovare il cadavere, viene registrata poco prima le 12.15. 

Anche sulla seconda affermazione, quella relativa al momento del rapimento, ci sono vari dubbi, seppure più affrontabili. Tralasciando quelli più fantasiosi – secondo i quali Moro non è mai stato in Via Fani e che sia stata una gigantesca messinscena per nascondere il luogo e gli attori del reale rapimento – in molti hanno sostenuto che il gruppo di fuoco non poteva essere così esiguo, ma, soprattutto, che non poteva essere formato da quei dieci ragazzi che avevano un’età compresa tra i 20 anni di Rita Algranati e i 32 di Mario Moretti. Quindi di volta in volta si è parlato di agenti dei servizi, uomini della ’ndrangheta, professionisti del crimine provenienti dalla Germania e così via. 

Quasi inutile dire che il periodo tra i due eventi, i famosi 55 giorni, sono il festival delle interpretazioni più disparate, tant’è che è arduo trovare un soggetto politico, militare, sociale, che in qualche modo non sia stato coinvolto dalla vicenda: dai servizi segreti cecoslovacchi alla mafia siciliana, dalla massoneria all’autonomia, e poi la CIA, il Mossad, e qualsiasi altra cosa possa venire in mente. Il fiorire di una enorme pubblicistica sul tema – si contano centinaia di titoli in qualche modo collegati al caso Moro, senza contare le migliaia di pagine delle due commissioni parlamentari specificamente dedicate e quelle delle altre connesse, come la Commissione Stragi – rende pressoché inutile anche una superficiale panoramica sui vari lavori. Quello che ci pare conti è che, alla fine, sostanzialmente sono due le versioni che si contrappongono. 

La prima è quella “ufficiale”, che risulta dagli atti processuali. Aldo Moro venne rapito il 16 marzo all’incrocio tra via Fani e Via Stresa da un commando di 10 persone – 8 uomini e 2 donne; 4 di loro spararono e uccisero i cinque uomini della scorta; mentre sei di loro si allontanavano dal luogo dell’eccidio, in 4 trascinavano Moro nella prigione del popolo, in Via Montalcini, dove è stato tenuto prigioniero da tre uomini e una donna ed ucciso la mattina del nove maggio da uno di loro. Di tutti si conoscono i nomi: i dieci erano Rita Algranati, Alessio Casimirri, Alvaro Lo Jacono, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Valerio Morucci, Mario Moretti, Barbara Balzarani, Bruno Seghetti. I quattro che spararono furono Bonisoli, Fiore, Morucci e Gallinari. Mentre Rita Algranati si allontanò subito, da sola, gli altri nove trasportarono Moro per una parte del percorso. Quindi si staccarono prima Fiore e Bonisoli, poi Casimirri, Lo Jacono e Balzarani e infine Morucci e Seghetti. Dei nove rimasero quindi solo Moretti e Gallinari, che forse vennero raggiunti da Germano Maccari, e furono loro a portare Moro in via Montalcini. Lì c’era Anna Laura Braghetti, e saranno questi quattro a detenere Moro per 55 giorni. Alla fine dei quali, Mario Moretti l’uccise. 

La seconda versione è in realtà l’insieme di tante versioni diverse che tra loro non si incastrano e che in comune hanno un solo punto: la versione ufficiale è inverosimile. Sarebbe inverosimile il numero dei componenti del commando (dieci uomini sono troppo pochi, oltre al problema della preparazione di un’azione che venne definita di “geometrica potenza”); il numero delle persone che hanno sparato (di nuovo troppo pochi); sarebbero inverosimili i nomi di chi ha sparato (dev’esserci stato sicuramente qualcun altro di non identificato, bravissimo a sparare); inverosimile il tipo di percorso che fecero i rapitori per arrivare in via Montalcini; inverosimile che siano veramente arrivati in via Montalcini; inverosimile che Moro potesse essere tenuto per 55 giorni in quell’angusta cella costruita; inverosimile che a ucciderlo sia stato Moretti; inverosimile che l’abbia fatto in quel modo. Le “inverosimiglianze” si spingono sino al ritrovamento del corpo – trovato chissà dove e poi “portato” in via Caetani – e naturalmente non si esauriscono in questo stringato elenco. 

Azzardando una sorta di idealtipo di versione alternativa le cose sarebbero andate come segue. L’agguato in via Fani è stato organizzato e gestito da qualche servizio (la CIA, il Mossad, il KGB poco importa) in collaborazione con massoneria (P2) e criminalità organizzata (’ndrangheta), al quale ha forse partecipato qualche appartenente delle Brigate Rosse; Moro è stato portato o in un’ambasciata o in una villa sul litorale per poi essere trasferito in un palazzo del ghetto ebraico, che si trova molto vicino a Via Caetani, e lì ucciso. 

Entrare nel merito delle due versioni è ovviamente impossibile. Come detto migliaia di pagine sono state spese per analizzare anche i singoli passaggi e ci sono chissà quanti siti dedicati soltanto a quei 55 giorni. Si sono analizzati in profondità praticamente tutti i singoli momenti: quello del 16 marzo; i nove comunicati delle Brigate Rosse prodotti durante i 55 giorni del sequestro; il memoriale Moro; i comportamenti dei vari soggetti durante le indagini; le modalità di ricerca del covo; le modalità di uccisione; il percorso fatto sia dopo il rapimento, sia dopo l’uccisione; i depistaggi, soprattutto il famoso falso comunicato numero 7; le grottesche soffiate come quella della seduta spiritica a cui partecipò Prodi insieme a Clò e Baldassarri, entrambi futuri Ministri, e si potrebbe continuare. 

Tutto questo considerato com’è possibile che si sostenga che ci siano ancora punti oscuri nella vicenda Moro? La risposta non può che partire da una chiarificazione della domanda: cosa si intende per “punti oscuri”? Se intendiamo il fatto di cronaca, alla stregua dei tanti serial che adesso vanno molto di moda, la risposta non può che essere positiva. Ci sono legittimi dubbi almeno sul fatto che Moro sia stato veramente tenuto per 55 giorni in una cella di 2m x 0,80 e che sia stato ucciso come raccontato, cioè in un garage molto angusto in cui la difficoltà di movimento e la probabilità di essere in qualche modo notati era molto alta. E probabilmente sul numero dei partecipanti all’azione di Via Fani e alla gestione del sequestro le incongruenze dei vari racconti non sono del tutto innocenti. Quindi sì, se intendiamo la ricostruzione perfetta dell’intera vicenda alcuni punti in futuro potranno presentare qualche sorpresa. Sorprese che probabilmente potrebbero essere del tutto svelate se ci si decidesse a chiudere questa vicenda. Ma fino a quando, a distanza di 40 anni, parlare di un undicesimo uomo o di qualcuno che uccise materialmente Moro insieme a, o al posto di, Moretti significa renderlo perseguibile penalmente è impensabile che dal fronte brigatista possano arrivare notizie significative. Che ancora si vada appresso a latitanti rifugiati in Brasile o in Nicaragua dopo 40 anni, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, è indice di ferite aperte. 

Ma esiste un secondo livello, decisamente più interessante e che è il punto – ed è il motivo reale – sul quale ci si accapiglia: Aldo Moro è stato rapito, tenuto prigioniero, interrogato e ucciso dalle Brigate Rosse? Ci sono punti oscuri su questa affermazione? Ebbene, su questa qualsiasi dubbio è del tutto campato in aria. Siano stati 10 o 15 in via Fani; Aldo Moro sia stato per 55 giorni in via Montalcini o trascinato da qualche parte; ucciso da Mario Moretti o da qualcun altro; nel garage o altrove, in piedi o seduto; una cosa non cambia: un gruppo formato da studenti, operai, commesse, precari, contadini, nel 1978 rapì l’esponente politico di punta del primo partito del sesto paese industrializzato del mondo, lo tenne prigioniero per 55 giorni e poi l’ammazzò. Il gruppo è stato certamente aiutato dalla superficialità, a volte molto interessata, dei vari attori politici che si muovevano attorno a loro, e la decisione di ucciderlo era indubbiamente non invisa a gruppi che istituzionalmente avrebbero dovuto adoperarsi per salvare l’uomo politico democristiano ma questo è tutto. 

Ed è questa la cosa veramente inaccettabile ancora 40 anni dopo, il motivo per cui si agitano fantasmi. Le Brigate Rosse hanno mostrato una clamorosa fragilità delle strutture statali. O per meglio dire hanno mostrato come siano terribilmente transitorie le fortune degli uomini che temporaneamente ne hanno in mano le redini: per quanto ci si possa sentire sicuri, all’apice, protetti, basta poco per far saltare tutto. Hanno messo plasticamente in mostra la fragilità del potere e quanto sia vano credersi potenti. Il re non è mai stato nudo quanto in quei giorni. L’uomo politico più potente d’Italia, che a lungo continuò a ragionare come un capo che richiamava all’ordine dei sottoposti, stessero ai vertici del potere temporale o spirituale, si accorse con sgomento che, come nelle bande criminali, nessuna fedeltà teneva; che ben presto il sentimento prevalente fu l’ansia di liberarsi di lui, cambiamento così repentino che poteva essere reso possibile solo dal fatto che questo sentimento alberga continuamente nei cuori e nei cervelli dei subordinati. E in quest’ottica va letto questo svuotamento che l’indusse, quando tutto era finito, a rivolgersi esclusivamente alla famiglia provocando forse l’unico vero moto di stizza dei suoi carcerieri, che raccontano basiti, e appunto quasi indignati, di come l’ultimo argomento al quale un uomo così potente potesse appigliarsi per smuoverli a compassione fosse il “tengo famiglia”. 

È per molti inammissibile che a ridurre in modo così miserevole tutto il gruppo che aveva condotto lo stato italiano fosse appunto una balorda banda di ragazzini. E per questo si cercano vecchi grandi e piccoli, menti raffinatissime, si parla di “geometrica potenza”, di fini misteriosi e inconoscibili. Siccome gli uomini delle Brigate Rosse, una volta trovati, mostrarono di essere appunto poco più di ragazzini di media intelligenza politica, meglio avvolgere nel mistero, evocare fantomatici Tex Willer, marchesi e direttori d’orchestra, spiriti di La Pira. 

Il caso Moro è politicamente risolto. Il rapimento venne progettato perché si pensava che mostrare i piedi d’argilla del gigante democristiano avrebbe fatto esplodere contraddizioni soprattutto all’interno del PCI e del suo gruppo dirigente. Se l’obiettivo principale era appunto “processare” la Democrazia Cristiana in vece dello Stato Italiano, ci si aspettava che su questo convergesse una parte rilevante del PCI. Questo avrebbe scardinato la linea politica del partito di Berlinguer, ormai ben ancorato all’interno delle istituzioni della Repubblica e completamente disinteressato a qualsiasi istanza rivoluzionaria. Com’è noto, questo non avvenne. Il PCI si saldò ferocemente e mostrò di poter saldamente tenere in pugno il proprio blocco sociale di riferimento, che pure, in una sua parte, si poteva immaginare non lontanissimo dalle posizioni dei brigatisti. Non solo, ma divenne il vero giustiziere di Moro, avvertendo subito la Democrazia Cristiana che qualsiasi concessione avrebbe provocato l’immediato cessazione del Partito dal sostegno al governo. La posizione si saldò perfettamente con quella parte della Democrazia Cristiana che reggeva le istituzioni, dal presidente del consiglio al ministro dell’interno (Andreotti e Cossiga), che da parte loro si occuparono di bloccare le iniziative che flebilmente venivano proposte all’interno del partito, da Fanfani a Leone. Se si considera che né gli Stati Uniti né gli israeliani avevano particolari motivi per intervenire nella vicenda – o meglio: per i loro interessi immediati, soprattutto considerato che molto presto Moro mostrò che non avrebbe fatto l’eroe, era molto meglio che il presidente della DC dalla prigione del popolo non ne uscisse vivo – si comprende abbastanza bene come in quei 55 giorni si poterono accavallare incompetenze grottesche e depistaggi più tradizionali. 

Certo, col senno di poi è facile dire che in molti sbagliarono i loro conti. Ma tra questi ci fu senz’altro anche Moro, del tutto sorpreso prima dal comprendere che con i rapitori non avrebbe mai potuto trovare un qualche terreno in comune e poi dal capire che tutto il suo potere non lo avrebbe salvato. Adesso di Moro ci si ricorda della tragica fine e di quelle foto scattate nella prigione del popolo, come quelle di un uomo anziano e nelle mani di un “dominio pieno e incontrollato”. Ma Moro non fu solo questo e vale la pena ricordare che il giorno del suo rapimento alcuni quotidiani nazionali avevano in pagina la notizia che era proprio lui l’“Antilope Cobbler”, cioè in sostanza un uomo corrotto da una grande multinazionale. Dopo il rapimento quelle copie sparirono e naturalmente della questione non si parlò più. Ma Moro era stato anche uno di quelli che sapeva di Gladio e per quanto Pasolini potesse parlarne come del “meno implicato” era del tutto lontano dal non condividere le enormi responsabilità che il poeta friulano assegnava alla Democrazia Cristiana. 

Fu Moro a dire che la Democrazia Cristiana “non si sarebbe fatta processare nelle piazze”. Era Moro ad essere del tutto disinteressato, se non nell’ottica di una “stabilità” da mantenere ad ogni costo, alle istanze sociali ed economiche da cui era circondato. La cooptazione del PCI era un modo per diluire le responsabilità enormi della Democrazia Cristiana, di chiamarlo a correo.

 Forse è vero che i brigatisti si trovarono spiazzati dal linguaggio contorto ed è ancora più vero che abbastanza ingenuamente furono sorpresi di trovare il rappresentante di uno Stato che non era un Moloch ma una miriade di piccoli e grandi interessi che in qualche modo si ricomponevano senza scontentare nessuno. Ed il fastidio di Moretti (“parla, parla, parla! Parla in continuazione ma non dice niente”) non era solo quello di trovarsi di fronte un uomo intellettualmente più raffinato di lui, più complesso. Era anche quello di trovarsi davanti, loro con la loro palingenesi rivoluzionaria, tutta la mediocrità etica di una politica che era già un “tutto s’aggiusta”. E se loro, appunto, furono sorpresi di questo, non è immaginabile la sorpresa di Moro nel ritrovarsi improvvisamente con dei personaggi che non erano disposti ad aggiustare niente.