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27 Maggio 2018 

 

L'ordine è un obbligo sociale, ma per vivere abbiamo bisogno della disobbedienza 

di Carlo Bordoni

 

Lo dice anche la scienza: abbiamo bisogno del Caos per crescere. La disobbedienza è il sale della vita (mentre l'ordine è solo l'assenza di un rinnovamento). Da Prometeo a Icaro, da Adamo ed Eva alla Rivoluzione Francese: la storia dell'uomo è fatta di un'insaziabile ricerca di libertà 

 

Dopo Fine del mondo liquido, il Saggiatore offre ai lettori il nuovo libro del sociologo Carlo Bordoni, Il paradosso di Icaro: per riassegnare un valore al concetto di limite, rinunciando al nostro protagonismo assoluto; per ridimensionare il nostro ruolo divino, attenendoci a quello di ospiti del pianeta; per imparare la lezione senza rinunciare alle ali. Essere disobbedienti significa essere creativi. Essere Icaro significa volare alto, quasi fino al sole.

Di seguito, un estratto del libro.

Carlo Bordoni, Il paradosso di Icaro, Il Saggiatore, 2018, pp. 351. (21 euro)

Se il senso del limite è necessario per mantenere coesa la società, non è detto che le sue prescrizioni siano ineludibili. Fin dai tempi più remoti, l’inosservanza delle norme ha permesso di valicare i limiti entro i quali l’uomo aveva ristretto il suo campo d’azione per ignoranza, pigrizia o viltà. La storia dell’uomo, infatti, è una storia di superamento dei limiti: geografici, sensoriali, tecnologici, etici. Non un invito a sovvertire l’ordine costituito, ma una constatazione sulla scorta di fatti storici che, in questo caso, collimano con l’evidenza scientifica.

Non solo la disobbedienza è il sale della vita, ma è l’origine e la ragione stessa della vita. Così come il sapere è un gesto di ribellione nei confronti dell’autorità, che mantiene e rafforza il suo potere nell’ignoranza e nell’inconsapevole sottomissione, la vita biologica nasce da uno scarto dalla norma, produttore di una «diversità» (la vita come eccezione), da una deviazione rispetto alla regola, alla riproduzione pedissequa dell’identico. La scienza moderna ha scoperto solo da pochi decenni che è proprio dal riconoscimento della non-armonia, del non-ordine, della ibridazione che nasce la complessità della vita che ci circonda. È l’altra faccia della hybris, una proiezione umana della quale si intuisce il limite di fronte a un mondo terribilmente più complesso, del quale l’uomo apprende di essere parte integrante, effetto e causa.

Edgar Morin ha dimostrato, sulla scia di Darwin, Monod, Atlan, Prigogine e altri, che la natura della vita è fondata sul caos: l’eterna differenza di potenziale tra le forze da cui scaturisce l’energia, il movimento, il cambiamento. L’ordine è la morte, il ristagno, l’oblio, il silenzio, l’assenza di crescita. Nella termodinamica l’entropia, che misura la degradazione dell’energia, è una forma di «obbedienza» alla naturale tendenza all’equilibrio termico, combattuta dal suo contrario, la neghentropia; nella teoria dei sistemi la neghentropia impedisce l’immobilismo e la chiusura. Nella teoria dell’informazione persino il rumore (noise) produce senso, ed è tanto più efficace quanto meno è prevedibile. Imprevedibilità, disordine, differenza di potenziale non sono che combinazioni di uno status che nel linguaggio umano si concretizzano nella nozione di inosservanza della norma.

Ciò che vale per il cosmo si ripete nella logica dei sistemi viventi e determina l’evoluzione della specie. Negli esseri pensanti la neghentropia rivela la sua carica vitale di informazione, ovvero di imprevedibilità, che permette la continuazione della vita. Cosa c’è di più imprevedibile dello scarto dalla norma? La norma conosce una sola sequenza e un’informazione univoca: nel momento dello scarto si aprono miriadi di possibilità e una serie infinita di sequenze, le cui conseguenze non sono affatto prevedibili. Qui la differenza influenza la qualità dell’essere vivente e ne determina lo sviluppo successivo. La disobbedienza è perciò il lato «consapevole» della neghentropia e la sua modalità di applicazione all’umano. La scoperta che l’informazione sia legata all’imprevedibilità e al disordine, è stata – secondo Michel Serres – di fondamentale importanza: «Che l’entropia sia legata all’informazione è la più grande scoperta della storia, nella teoria della conoscenza e nella teoria della materia».

Gli esseri viventi, così come i sistemi sociali, si nutrono di informazioni, non solo di cibo. Privare dell’informazione, come sanno bene i dittatori di ogni tempo e in genere tutti i regimi totalitari, è una garanzia per preservare l’ordine, cioè il mantenimento puro e semplice dello statu quo; asservire, privare della libertà e, da quest’«ordine», considerato fondamento della sicurezza e garanzia di continuità (volutamente acritica e uniforme), trarre il proprio potere, attraverso l’ignoranza dell’altro. Nessun dubbio: la storia dell’uomo è una storia di reiterate disobbedienze. Il primo è stato Prometeo, che avendo ceduto all’impulso di donare il fuoco all’uomo (metafora della conoscenza) fu punito da Zeus per avergli disobbedito. Ma se tutti si fossero uniformati, comportandosi come il fratello di Prometeo, Epimeteo, colui che «riflette in ritardo», non vi sarebbe stata storia.

Strano destino della disobbedienza: sempre seguita da un castigo, da una punizione da parte di Dio come degli uomini, talvolta anche della natura, per aver infranto l’ordine, ignorato la regola, contravvenuto a un obbligo. Da quel peccato originale che ha spinto Adamo ed Eva a cogliere il frutto proibito, l’esistenza futura si è giocata tutta nella ricerca di una riparazione per il torto fatto all’Assoluto. Se Adamo non avesse osato sfidare l’ordine superiore, ci godremmo ancora le delizie dell’Eden. Ma annoiati e incoscienti. La disobbedienza è una forma di arroganza. Si mette in discussione l’autorità e il rispetto della giusta misura (kata metron), che si tratti della durata della vita, dei limiti delle capacità umane o delle norme etiche. Arrogante è colui che si ritiene in diritto di superare il limite prestabilito e perciò è punito dalla natura se la sua azione ha violato le leggi naturali, oppure dai tribunali se ha violato le leggi umane. Ma il kata metron è una variabile dipendente, fluttua come un titolo in borsa, a seconda della cultura di un popolo o del livello etico raggiunto. Oggi volare non è un gesto di arroganza, ma pretendere di farlo al tempo di Icaro era un insulto da pagare con la vita. Esiste la disobbedienza civile, opposizione non violenta a un potere ingiusto, e quella «incivile», che provoca disastri, rovina e lutti ed è quindi bene distinguere quando si tratta di disobbedienza, in riferimento agli effetti che produce.

È vero che la morale si evolve incessantemente, ma nessuna etica può giustificare una disobbedienza che produca disagio nel prossimo, che giunga a privare l’altro di un diritto, a usare violenza e a uccidere. I greci si erano inventati persino una divinità per ridurre all’obbedienza, Nemesis, dea alata della giustizia, munita di spada e bilancia. Pronta a vendicare ogni atto di superbia, raddrizzatrice di torti e restauratrice di equilibri messi in discussione; decisa a rimettere l’uomo al suo posto. Da braccio armato degli dèi a forza distruttiva della natura il passo è breve. Nella sua forma moderna, la «nemesi storica» s’incarica di vendicare le vittime di soprusi compiuti dal malgoverno: un atto consolatorio invocato con sospetta frequenza. Nella convinzione che il kata metron non fosse fissato per sempre, l’uomo si è preso molte libertà in tutti i campi, estendendo i limiti della sua azione. Col tempo l’asticella è stata posta sempre più in alto, sicché l’area dell’obbedienza si è fatta progressivamente più vasta e, per contro, l’arroganza ha dovuto trovarsi nuovi e più scomodi ambiti d’intervento.

L’obbedienza, al contrario, è premiata. Vista come il comportamento corretto da tenere, sia in campo religioso sia in quello civile. Fedeli ossequiosi, buoni cittadini, esecutori fidati. Si comincia a obbedire in famiglia, si prosegue nella scuola con maggior rigore, poi sotto le armi, di fronte all’autorità e al datore di lavoro. Una vita in conformità alle regole. L’espansione dell’obbedienza è proseguita senza sforzo nella convinzione che fosse l’unico modo per assicurare un’esistenza pacifica e ordinata. La modernità se n’è fatta carico e l’ha adottata come obiettivo ideale da raggiungere con le buone o, quando non è bastato, con le cattive. In un primo momento la modernità nasce come risposta a un’esigenza di ordine e si afferma grazie alla disobbedienza. Vivificata da questa apparente e insanabile contraddizione, vede le moltitudini disperse farsi popolo, sottomettersi docilmente al sovrano, unirsi sotto l’egida dello Stato regolato da leggi e regole certe per poter sopravvivere. È necessario invocare l’ordine per vincere la paura, come ricorda Baruch Spinoza, proprio alle origini del tempo nuovo: «D’altra parte è in tutti gli uomini la paura della solitudine, poiché in solitudine nessuno ha la forza di difendersi e di procurarsi il necessario per vivere; ne consegue che gli uomini per natura desiderano lo stato di civiltà».

La condizione di civiltà è, per Spinoza, la naturale evoluzione della moltitudine, che si riunisce per un fine positivo, nella conservazione della libertà individuale. Quello di rinunciare alla libertà personale è un sacrificio troppo grande, che si rivela subito insopportabile. Così la modernità trova nella Rivoluzione francese l’occasione per affermarsi definitivamente, ribadendo l’esigenza di un disordine così grande, così incontenibile, da recuperare l’idea di libertà e di mutamento sociale che in origine era stata esclusa. Cosa che si è rivelata più un problema politico che etico, fino a giungere, nell’adempimento della società di massa nel xx secolo, alla sua massima aspirazione: l’obbedienza collettiva.

La società di massa è ossequiente persino nelle sue reazioni violente, se si tiene conto del fatto che la ben nota «scarica» descritta da Elias Canetti, cioè l’esplosione improvvisa delle tensioni accumulate dalla massa, avviene in seguito a una volontà prestabilita. Non è spontanea, né inattesa, ma provocata da una sapiente regia delle emozioni collettive. Alla massa passiva e ubbidiente si oppone, per contrasto, il capo carismatico, al quale è riconosciuto il diritto-dovere di infrangere le leggi che egli stesso ha promulgato. La sua arroganza non è punibile, è il delirio della disobbedienza, la sua forma più alienante e politicamente scorretta. Una hybris negativa. Gli stessi capi carismatici e i regimi totalitari hanno sfruttato la buona fama dell’obbedienza per controllare le masse e mantenere il potere. Hannah Arendt ha dimostrato in La banalità del male il volto perverso dell’obbedienza e come la falsa coscienza del boia nazista possa nascondersi dietro la giustificazione di aver compiuto, eseguendo gli ordini, solo il proprio dovere.

Allora perché l’obbedienza è premiata e la disobbedienza è punita? La risposta sta nella struttura stessa della società, che si deve difendere ponendo regole, fissando limiti alla libertà d’azione, prescrivendo obblighi nell’interesse di tutti. Ma ci vuole sempre qualcuno che pratichi la hybris, rompa le righe, si esprima «contro» e faccia germogliare il cambiamento, nutra il rinnovamento e getti le basi per migliorare la società. Si può quindi desumere che la modernità sia fondata sulla ricerca di un ordine causato dal disordine. L’incertezza e il rischio sono gli ingredienti emergenti che ne caratterizzano la complessità e l’ansia di rinnovamento continuo. La ricerca di nuovi spazi, i viaggi e le scoperte, il bisogno di conoscere e di migliorarsi, il primato della ragione e l’imprenditorialità spingono verso il progresso, visto come un miglioramento continuo e dato per scontato, ma anche come una perenne sfida con cui misurarsi, retti dalla fiducia positiva nelle possibilità dell’uomo.

La certezza che ne deriva – quella società solida su cui è possibile fare affidamento – sta in proporzione al tempo della vita umana e consente di fare progetti a lungo termine, di portarli a compimento nell’arco di una o più generazioni, almeno finché un nuovo scuotimento, un nuovo disordine non rimetterà tutto in discussione e ricomporrà l’equilibrio su nuove basi. La modernità, questa forma di equilibrio sufficiente a garantire le speranze del progresso, viene messa in discussione dall’alterazione del tempo imposta dalla tecnologia col suo sviluppo rapidissimo, che scardina i ritmi umani dell’esistenza. La prima volta lo ha fatto con la Rivoluzione industriale del xviii secolo, la seconda con la digitalizzazione e Internet.

Da questo punto di vista la società liquida di Bauman non è che l’effetto di un’improvvisa accelerazione che comprime lo spazio/tempo, accorcia le distanze, allontana gli obiettivi raggiungibili, generando insoddisfazione e disagio di fronte all’esigenza di fare tutto subito, perché la vita è un cambiamento continuo che non consente soste.Questa corsa contro il tempo genera instabilità, non permette più di programmare l’esistenza con ritmi accettabili/sostenibili da parte del singolo, lo costringe a continue deviazioni, aggiustamenti di rotta, adeguamenti a una realtà che cambia giorno per giorno, di ora in ora. Il che genera appunto una sensazione di «liquidità», di un vivere che non ha punti di riferimento certi o stabili, almeno lungo un certo periodo di tempo.

La contrazione del tempo avvicina talmente il futuro da renderlo simile al presente; il futuro stesso non è più desiderabile, né osservabile da lontano con sguardo sereno e speranza ottimistica, poiché preme sul presente e genera ansie da prestazione. Ora, senza un’idea accettabile di futuro – sulla quale innestare una qualsiasi concezione possibile di progresso – la modernità non può che esaurire la sua carica innovativa. Si inaridisce e secca come una pianta priva di linfa. Così muore la modernità, uccisa dalla velocità eccessiva, da quel movimento sempre più rapido che essa stessa ha impresso fin dall’inizio come modello di sviluppo, che ha indicato come autentica rappresentazione di sé nell’estetica del Futurismo e nell’esaltazione della guerra: occasione violenta di radicale rinnovamento e ringiovanimento demografico e politico.

La liquidità non è data altro che dall’estrema fluidità di molecole che scivolano l’una sull’altra, rendendo la materia mobile, adattabile e dissolta. Benché la modernità si sia proposta fin dal XVI secolo come progetto di società più malleabile rispetto al passato, basata più sul movimento che su una stabilità inamovibile, la velocizzazione eccessiva non può fare a meno di destabilizzarla. La condizione attuale è una modernità alterata, esasperata, condotta oltre le sue possibilità di sopportazione, che non offre quelle certezze sulle quali aveva fondato il patto di stabilità con i cittadini. Frantumata, impoverita, privata di ogni speranza oggettiva, oggi la modernità ha portato a termine il suo ciclo vitale, o meglio, lo ha interrotto per implosione, provocata da quelle stesse forze che ne avevano determinato il successo. Le occasioni di seconda o terza modernità, rappresentate dal tentativo di Ulrich Beckdi salvare il salvabile e restituire un barlume di speranza a un ciclo evolutivo giunto all’estremo, non risolvono la questione, ma semplicemente ne rinviano dolorosamente l’esito finale.

Se il problema del presente è l’assenza di speranza, inutile cercarla nelle promesse tradite della modernità: meglio rintracciarla altrove, in un tempo che seguirà questa faticosa e incomprensibile (ai nostri occhi) fase di «interregno». Si dovrà fare i conti con un tempo sempre più rapido, mettersi al suo passo. Forse sarà necessario un adattamento cerebrale pari a quello che modificò permanentemente le sinapsi dei nostri antenati in seguito all’introduzione della scrittura. Ma non bastano un paio di generazioni per maturare una modificazione sistemica di tale portata, e la tanto osannata leva dei «nativi digitali» non costituisce che una sparuta avanguardia, destinata a immolarsi di fronte a un mutamento solo germinale, di cui essa non è in grado di comprendere la portata storica.

Ne è prova il momento di disordine che stiamo attraversando: una «disobbedienza» sistemica che viene vissuta con angoscia, caratterizzata da un avvicendamento troppo rapido perché possa essere accolto come un insieme di regole a cui attenersi. Percepiamo questo disordine, rinnovato ogni giorno in modo imprevedibile, come una minaccia alla nostra vita, come privazione della speranza, come presagio di morte. Invece non dovremmo temere il disordine: «Non avere paura» è una frase che i politici ripetono spesso senza cognizione di causa. Il disordine è sempre positivo, se non ora, almeno a lungo termine: è un ingrediente necessario, perché da un «interregno» maturi una società diversa da quella che conosciamo, capace di guardare al passato (il nostro presente) con la gratitudine di un figlio che guarda al sacrificio del padre come atto indispensabile per garantirgli la vita. Inutile essere pessimisti: il pessimismo porta all’inazione e alla rinuncia.

Anche se viviamo in tempi difficili, possiamo sopperire all’incomprensibilità con l’immaginazione. In fondo le scienze socialipossono assolvere questo compito così necessario per l’uomo, non limitarsi al conteggio statistico dell’esistente ma utilizzare i dati in loro possesso per fare proiezioni intelligenti sul domani. Immaginare il futuro è nelle scelte che facciamo oggi: possiamo comprenderlo in noi, purché consapevoli che ogni decisione presa potrà modificarlo. Quando si pensa al futuro, si immagina qualcosa di definito, di già formato, che ci attende dietro l’angolo e di cui ignoriamo ancora il volto. In realtà il futuro non è qualcosa di preordinato, ma assumerà l’aspetto che gli daremo. Non esiste prima di essere costruito, giorno per giorno, grazie alle nostre scelte e alle decisioni che prenderemo. E soprattutto è bene tener presente che, dati i tempi, le decisioni da prendere sono innumerevoli, brevi, rapide. Oggi più che mai, la natura umana della hybris, la sua capacità di «disobbedire» al prevedibile, può permetterci un altro futuro. Un futuro che non ci saremmo mai aspettati d’incontrare.