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12/07/2018

 

Joshua Ferris: "Scrivo di uomini tremendi che vogliono solo il denaro. Sono tutti lì fuori ed è giusto parlarne"

By Giuseppe Fantasia

 

Lo scrittore americano si è raccontato ad HuffPost prima di salire sul palco del festival "La Milanesiana"

 

In una società come la nostra, sempre più caratterizzata da mutamenti improvvisi e da pressioni sistemiche verso l'eccellenza e la performance, la figura maschile si ritrova ad attraversare una fase di incertezza e di straniamento, vuoi per le tante e giuste libertà acquisite dalle donne negli ultimi decenni, vuoi per i diversi fattori di stress dal punto di vista estetico come da quello economico e lavorativo. Fatto sta che l'uomo vive in una condizione di fragilità sociale che a ben vedere può vantare sicuramente una letteratura sterminata da parte delle scienze sociali ma niente più della narrativa contemporanea è in grado di restituire la crudezza, l'amabilità e la futilità del fenomeno.

 

Ne abbiamo parlato a Milano con Joshua Ferris, quarantaquattrenne americano di Danville, Illinois, lo scrittore che poco più di dieci anni fa, con il romanzo d'esordio "E poi siamo arrivati alla fine"(Neri Pozza-Beat) - la commedia umana di un gruppo di giovani spregiudicati e sognatori, cinici e brillanti, che ogni mattina si incontrava fatalmente in ufficio, tra affetto e competizione, struggimento e disprezzo – si fece conoscere in tutto il mondo. Ventiquattro edizioni all'attivo e una miriade di premi, tra cui il prestigioso Pen/Hemingway Award. Di libri, ne seguirono altri come "Non conosco il tuo nome" – un romanzo sul matrimonio, la famiglia e sulle forze imprevedibili della natura e del desiderio – e "Svegliamoci pure, ma a un'ora decente", la storia di un dentista convinto di vivere un'esistenza insignificante nonostante l'amore, i soldi e il successo, tanto da ritenere che "niente è tutto se ciascuna cosa riesce perfettamente a occupare perfettamente il tempo soltanto per un certo periodo". Dubbi ed incertezze, desideri e privazioni, ma anche ansia, solitudine e fragilità degli uomini, unite alla loro incapacità di stare al mondo, sono al centro anche in "Invito a Cena", la sua prima raccolta di racconti che ha impiegato quindici anni per scrivere e ordinare insieme. "Devi avere una gran volontà quando scrivi racconti, l'approccio è sempre meno organizzato, più casuale", ci spiega poco prima di salire sul palco del "La Milanesiana", il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi che quest'anno ha come tema "Il dubbio e la certezza". Undici storie dedicate a personaggi afflitti da nevrosi che conducono una vita frenetica dove "arrivare" viene preso in considerazione sempre prima del "vivere". Sono uomini borghesi con problemi borghesi, uomini belli e tristi incapaci di essere coppia, di avere gli stessi ideali del vivere insieme e di non riuscire a trasformare la vita in qualcosa di monotono.

 

Sono uomini, come lei stesso li definisce, orribili: perché?

"Perché? (ride) Ma non li leggete i giornali? Basta leggerli per rendersi conto che è pieno di uomini terribili che governano il mondo, che scatenano guerre. Sono dei veri bastardi che vogliono solo il denaro, sono tutti lì fuori ed è giusto quindi per me parlarne e farlo in un certo modo. Il lettore intellettuale, la sera, quando è nella sua bella casa, vorrebbe leggere altro, qualcosa che lo rilassi e che lo distragga, ma io riesco solo a scrivere di uomini tremendi, cosa ci posso fare? È la mia natura".

C'è qualcuno che si salva?

"Nelle mie storie c'è sempre un momento di illuminazione: questi uomini posso prendere coscienza di ciò che non funziona. C'è la consapevolezza in loro di aver fatto certi errori e di veicolare un cambiamento della propria vita. Hanno la possibilità di svegliarsi dal proprio incubo principale che è loro stessi. Prendere coscienza dei propri errori per diventare una persona migliore. Questa è la regola".

 

Lei lo fa?

"Nel mio piccolo, posso dire di farlo e di essere un uomo, un marito, un padre e un amico accettabile. Poi ho i miei difetti come tutti, altrimenti non sarei umano".

"Un tempo credevo ciecamente negli altri, ma non sono certo che sia così", si legge nell'incipit del suo discorso alla Milanesiana: ci spieghi meglio. 

"Non è che non creda più negli altri, ma a ben vedere c'è una certezza degli esseri umani a prescindere che non è filosofica. Quando entriamo in questo mondo, crediamo negli altri, poi queste certezze vengono meno. Non è un dubbio, ma uno scetticismo vero e proprio nei confronti delle certezze degli stessi esseri umani".

In questo l'avranno aiutata sicuramente i suoi studi filosofici alla University of Iowa e poi a quella della California: cosa le è rimasto?

"La certezza che la filosofia non può salvare nessuno. I sistemi filosofici tendono a diventare fuori moda e ad estinguersi. L'ultima trovata di un filosofo è spesso screditata e poi soppiantata da altre. Quel che resta è un continuo ciclo di cambiamento che sviluppa un atteggiamento cinico perché continuo".

Da scrittore, che responsabilità ha o pensa si avere?

"La responsabilità di uno scrittore è quella di continuare a fare quel mestiere con responsabilità distanti dalla vita quotidiana. Il ruolo degli scrittori e dei cittadini è diverso, ma anche loro sono cittadini. Negli Stati Uniti hanno una responsabilità particolare, soprattutto in questo periodo. Le responsabilità sono cambiate e non sono sempre state quelle odierne come la resistenza, l'incredulità difronte a quanto accade, il disgusto, la disponibilità a mettersi in una situazione di pericolo se necessario".

 

Ogni riferimento alla situazione politica statunitense non è certamente casuale...

"La svolta politica ha spinto molti a venire allo scoperto e a diventare ancora più consapevoli. Il mio Paese non sta vivendo un bel periodo, ma credo, comunque che la cultura americana sia ancora viva".

 

Di Trump cosa pensa? 

"Non ho un'opinione alta, è ovvio. Lui fa fede alle responsabilità che si è posto di assumere e il suo è un atteggiamento di parte che poi si è rivelato diverso da quello che ci si poteva aspettare. In ogni caso, attraverso sotterfugi e bugie dice che ha responsabilità non proprie di un presidente degli Usa. Di certo non gli si può imputare di essere George Washington, sono ovviamente molto diversi, imparagonabili. Non si può chiedere a un criceto di trascinare un carro".

 

Tornando a lei, Ferris, di cosa ha paura?

"Di tutto" (ride, ndr).

 

Cos'è per lei la morte? 

"La spiegazione che do alla morte è diversa da quella generale. Per me è qualcosa che dà pace e che crea una grande assenza. È il senso del vuoto, l'azzeramento del rumore. La parte difficile resta il morire: come sarà quello di ognuno di noi? Impossibile saperlo. Per guadagnarci la morte, dobbiamo morire e questo, me lo lasci dire, non sembra essere affatto divertente".