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14 ottobre 2018

 

Toni Negri e l'ateneo di Padova raccontati da Lazzaretto

di Antonio Di Lorenzo 

 

Nel 1969 il professore venne aggredito da studenti stanchi delle occupazioni e fu salvato dalla polizia. L'aneddoto nel libro Dall’università di élite all’università di massa. 

 

Chi lo immagina Toni Negri, indicato da Indro Montanelli come uno dei «cattivi maestri» che ispirò i terroristi negli Anni 70, salvato dalla polizia dagli studenti che volevano picchiarlo (e che in parte ci riuscirono)? Eppure è il frammento praticamente sconosciuto di un film di quasi 50 anni fa. E gli andò di lusso. È vero che Montanelli in quella celebre dichiarazione del 1995 augurava a lui e alla categoria ben altro: essere impiccati, senza mezzi termini. E dal suo punto di vista di gambizzato delle Br aveva i suoi motivi. Ma la vicenda di Negri non è un controsenso, come si capirà tra breve, bensì uno dei frutti della sua attività rivoluzionaria nel caldo ’68 all’università di Padova. Aveva 36 anni ed era docente straordinario di Dottrina dello Stato a Scienze Politiche, carica cui l’aveva portato Enrico Opocher, suo maestro. Il 3 marzo 1969 fu letteralmente salvato dagli agenti che lo sottrassero, a stento, al pestaggio. Molti studenti, infatti, erano stanchi di violenze e di occupazioni e volevano un po’ di tranquillità: ma il giovane professore si opponeva a quella che considerava una resa e voleva proseguire la lotta a oltranza. Dalle parole si passò ai fatti, come si dice: gli studenti lo aspettarono fuori dalla facoltà e servì la polizia per riportare l’ordine e salvare il docente.

 

L’eterna rivolta:

https://www.youtube.com/results?search_query=toni+negri+l%27eterna+rivolta

 

Il libro di Alba Lazzaretto e Giulia Simone.

 

L'UNIVERSITÀ DI PADOVA NELLE RICERCHE DI ALBA LAZZARETTO

L’episodio emerge dalle ricerche di Alba Lazzaretto, storica dell’età contemporanea e docente (fino a pochi giorni fa) dell’università di Padova, di cui ha approfondito in vari saggi le vicende nel Dopoguerra. In uno di questi lavori ha trattato anche del salvataggio di Toni Negri. Di recente, assieme a Giulia Simone, Lazzaretto ha curato il libro Dall’università di élite all’università di massa (400 pagine, Padova university press) che analizza le vicende svoltesi attorno al Palazzo del

 

Bo dal 1945 all’incendiario 1968. A beneficio dei non veneti, va spiegato che il palazzo si chiama proprio così, con un riferimento bovino, perché la sede storica in cui fu fondato l’ateneo era un’osteria-macelleria: e, infatti, anche oggi il simbolo dell’università è una testa di bue. Il ponderoso libro curato da Lazzaretto raccoglie 15 saggi che accendono altrettanti riflettori per illuminare un periodo finora poco indagato, che poi

esplose con le contestazioni del ’68.

 

Siamo negli ultimi giorni di febbraio del 1969, che sono davvero infuocati nell’ateneo. Padova è stata tra le prime città d’Italia in cui è esplosa la contestazione: a dicembre 1967 si occupano le facoltà di Fisica, Lettere, Filosofia, Magistero e Scienze Politiche. È di quel mese il primo scontro al Bo a motivo di un tentativo di occupazione. È un intervento a suo modo storico, perché l’università era stata fino ad allora off limits per le forze dell’ordine, le quali tradizionalmente restavano fuori dalle mura scolastiche e lasciavano che studenti e professori se la sbrigassero tra loro, in nome dell’autonomia accademica. Ma quando l’autoregolamentazione non funzionò più e si rischiò l’ospedale o il morto, la polizia ruppe la tradizione e riportò la calma. Gli animi degli studenti in quegli anni si scaldano facilmente, perché l’università scoppia: in 15 anni gli iscritti sono passati dai 5 mila degli Anni 40 ai 10 mila degli Anni 50 fino ai 30 mila dei 60. L’ateneo ha 160 professori ordinari e 2 mila assistenti volontari. Il precariato non è una condizione solo di oggi. Nasce l’associazione dei docenti subalterni, che ottiene subito un largo successo. Va ricordato, inoltre, che Padova negli Anni 60 è una città politicamente in fermento: già nel 1964 la prefettura seguiva le attività di Franco Freda e, sull’altro versante, dei gruppi maoisti.

 

QUANDO NEGRI VENNE SALVATO DALLA POLIZIA

Quegli ultimi giorni di febbraio 1969 sono roventi. E Negri è uno dei protagonisti principali. «Luigi Carraro», scrive Alba Lazzaretto, «stigmatizza il fatto che un professore di ruolo, dopo la chiusura del Bo disposta dal rettore, vi avesse fatto irruzione con altri facinorosi, avesse quasi scardinato un cancello e minacciato il personale di custodia». Parlava proprio di Toni Negri, che aveva tentato di far irruzione nel palazzo del Bo da un portoncino laterale. Carraro, preside di Giurisprudenza e senatore democristiano, propone un provvedimento disciplinare per lui e per gli altri, rimasti sconosciuti. Così il Senato accademico decide far acclarare l’incidente provocato il 28 febbraio al Bo dal professor Negri. Pochi giorni dopo, il 3 marzo, a poca distanza dal Bo, davanti alla facoltà di Lettere e Filosofia, Negri era stato assalito da studenti anti-contestatori e sottratto a forza dalle mani degli stessi con l’aiuto della polizia: «Al rientro del corteo al Liviano», riferisce al Senato accademico il rettore Opocher, «il prof. Negri è stato malmenato. La polizia lo ha sottratto agli aggressori; egli ha subito delle lividure».

 

Toni Negri.

 

LE PRIME AVVISAGLIE DEL TERRORISMO

Negri, assieme a Franco Todescan, era l’allievo prediletto di Opocher, professore di area culturale azionista, eletto rettore nel 1968: prese il posto del dimissionario Guido Ferro, rettore per 20 anni, piegato dal braccio di ferro con gli studenti. Che erano appoggiati anche da molti professori, compresi Guido Petter e Angelo Ventura, i quali 10 anni dopo saranno vittime del terrorismo. È la prova che a Padova, sostiene Lazzaretto, il ’68 acquista un valore rivoluzionario e apre la strada al terrorismo, come la città imparerà con dolorose ferite. Anche Opocher sarà l’obiettivo di un attentato: una bomba esplode nello studio del rettore la sera del 15 aprile 1969, senza causare feriti. È la prima bomba padovana. Senz’altro i terroristi volevano colpire la figura del Magnifico e non la persona: ma il messaggio era chiaro.

Il processo alla Matricola, Padova, 1968.

 

Un altro professore protagonista del ’68 a Padova è Massimo Crepet, direttore dell’istituto di Medicina del Lavoro e patologo. Lazzaretto ricorda che Crepet si ritrovò un giorno con l’istituto invaso dagli studenti inseguiti dalla polizia. Aveva due scelte di fronte: poteva stare dalla parte degli studenti e aiutarli a fuggire, oppure chiudere le stanze, bloccarli nei laboratori e facilitare la cattura da parte degli agenti. Scelse la prima strada, aprì le porte sul retro e agevolò la fuga dei giovani. Oltre alla simpatia per i contestatori che avevano l’età di suo figlio Paolo (oggi psichiatra, scrittore e celebre personaggio televisivo) nella mente del professore si agitava un’altra preoccupazione: quale sarebbe stato il risultato di una rissa fra studenti e poliziotti nell’istituto di medicina strapieno di provette che contenevano bacilli e virus? È chiaro: costose apparecchiature devastate, ma anche la distruzione di quei vetrini pieni di batteri e la diffusione di un possibile contagio. Meglio evitarlo. E così aprì la porta agli studenti che fuggirono dagli agenti. Libertà per loro e sicurezza per tutti.

 

Il '68 E IL FUNERALE DELLA GOLIARDIA

Il ’68 di fatto cancella la goliardia, tradizione organizzata che colloca Padova, assieme a Coimbra, tra le poche esperienze europee del genere. Perché si celebra questo funerale? «Perché la goliardia appariva vecchia, superata, anacronistica», risponde l’altra curatrice del volume, Giulia Simone. «Sapeva di naftalina di fronte a problemi più gravi da affrontare». Certo, erano gli anni in cui obiettivo dei contestatori a Padova era eliminare la separazione nei collegi tra maschi e femmine, consentendo visite notturne auspicate da entrambe le parti. Ma c’era senz’altro da recuperare l’arretratezza dell’università italiana: molte facoltà erano accessibili solo a chi aveva frequentato il liceo classico. E poi, intendiamoci: non è che la goliardia sia scomparsa dall’università, ma oggi è un mondo ben lontano da quel passato. Nel giorno della Festa della matricola, per esempio, gli studenti erano letteralmente padroni della città: avevano diritto di ubriacarsi gratis nei locali, per dirne una. E la città metà accettava e metà sopportava. Ma accadeva ben di peggio e i comportamenti superavano la soglia non solo dell’accettabile ma anche del penale. Passi che il rappresentante degli studenti, chiamato “tribuno”, si decidesse con una sfida a pugni: era eletto chi restava in piedi dopo la lotta sulla cattedra di anatomia patologica. Di ben altre umiliazioni si trattava per ottenere il “codicillo” che dimostrava di aver superato la soglia d’accesso: non erano rari i casi di genitori che si rivolgevano alla polizia per le angherie e i ricatti subiti dai figli. Le ragazze, per esempio, erano sottoposte alla “carciofazio”: le facevano salire sulla statua di Cavour nella piazza accanto al Bo, con le gonne tirate su e legate al collo, ed erano costrette a mostrare gambe e mutande. I terribili scherzi arrivavano anche a colpire i laureandi: con la scusa di un giro sui vicini Colli Euganei, più d’uno è stato letteralmente sequestrato alla vigilia dell’esame di laurea e rilasciato dopo la conclusione della sessione. Che, naturalmente, avrebbe dovuto sostenere con una stagione di ritardo.

 

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