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8 novembre 2018

 

Ricostruire il territorio. Un progetto patriottico.

di Roberto Pecchioli

 

La natura ha battuto un colpo, nel caldo autunno italiano. In fondo, nulla di eccezionale per il pianeta, qualche pioggia più violenta di quelle a cui siamo abituati accompagnata da venti impetuosi tipici di altri climi, ma è bastato per arrecare danni impressionanti. Il bilancio, in termini di vite umane, è stato relativamente clemente, ma i danni materiali sono superiori alle peggiori previsioni. Il capo della protezione civile ha parlato di scenari apocalittici visitando la montagna bellunese e le alpi.

 

Milioni di alberi sradicati, bosco e sottobosco trascinati via, vallate invase dal fango e dai detriti, un panorama mutato per decenni, forse per secoli, la più grande bellezza sfigurata. In liguria le onde del mare sono arrivate laddove mai si erano spinte, le aree in cui gli antenati costruivano abitazioni, paesi, porti. L’italia intera, già ferita da terremoti, frane, disastri di ogni tipo, è stata colpita da una tragedia le cui dimensioni si comprenderanno nel tempo.

 

Responsabilità della natura, in parte, ma anche grandi colpe umane. Mancanze evidentissime nella tragedia siciliana di casteldaccia, con le villette costruite nel letto del torrente milicia, ancora lì nonostante un ordine di demolizione vecchio di dieci anni, ma gli abusi attraversano l’intero stivale. A ogni tragedia si ripete che l’italia è a rischio per questa o quella emergenza. La generosità della nostra gente, l’orgoglioso desiderio di riprendere vita e normalità mascherano le ferite, ma tutto continua come prima, in attesa dell’inevitabile prossimo venturo.

 

E’ l’ora di cambiare passo, di prendere atto dell’esistente, dei cambiamenti climatici, delle devastazioni inferte dall’avidità e dal profitto, dalla fragilità del nostro territorio. Unito a una definitiva, energica, autocritica presa di coscienza, urge un grande progetto nazionale, un’impresa patriottica di lungo periodo, la messa in sicurezza e ricostruzione del territorio. Occorre decolonizzare l’immaginario dal consumo, dalla cupidigia, dall’assurda ansia di dominio sulla natura. Stiamo perdendo beni fondamentali scambiati con merci inutili, lussi e sprechi persino ridicoli. Da oggi, il nostro popolo deve impegnarsi in un’opera nuova, conservare l’italia, rigenerare il territorio, ricostruire ciò che è andato perduto, con una consapevolezza nuova. L’italia è una, come il pianeta, l’abbiamo ricevuta, la dobbiamo custodire e consegnare in condizioni accettabili a chi ci sostituirà.

 

La patria non è un concetto astratto, non è un inno cantato a squarciagola o le glorie vere e presunte del passato. E’, innanzitutto, uno spazio concreto, la terra che calpestiamo ogni giorno. Era la semplice idea dei contadini della vandea nemici dei giacobini di città, è la convinzione che dobbiamo recuperare a beneficio dei nostri figli. Abbiamo dimenticato il tempo ciclico, lo scorrere delle stagioni, il senso della sobrietà, la necessità di non divorare, sfruttare, consumare tutto e subito. In nome del sedicente progresso, ci siamo scordati di essere semplici creature. La natura, il creato, si incarica ogni tanto di rammentarcelo.

 

Questa patria, terra dei padri, ha bisogno di noi, ci impone di investire su di lei, sulle coste, sui monti, sulle valli, sul territorio intero della piccola porzione di mondo che chiamiamo italia. Le ferite ci richiamano a prendere atto della forza della natura, dei suoi cambiamenti, dei suoi diritti. Alla natura si comanda solo ubbidendole, scriveva francesco bacone, un fondatore del pensiero scientifico.

No, il superbo uomo moderno non vuole limiti, intende rovesciare ciò che non gli piace e sfruttare sino all’ultima goccia tutto ciò che può trasformare in profitto. Predicarono invano giganti della filosofia (aristotele: la natura rifiuta di essere male amministrata) e pedagogisti come lo svizzero pestalozzi: presto o tardi la natura non manca di vendicarsi contro ogni azione dell’uomo diretta contro di lei.

 

Dunque, non resta che cambiare paradigma. Un esempio tra tutti: prendere atto che è in corso un aumento delle temperature marine e terrestri. L’uomo, forse per il suo smisurato orgoglio, pensa di esserne responsabile, le polemiche sulle emissioni nocive, specie di anidride carbonica, appassionano da anni gli scienziati e creano opposti schieramenti di opinione. Il clima non è mai stato stabile, c’è chi ritiene di riconoscere ben 75 mutamenti in 4.500 anni. Chiunque abbia ragione, restiamo ai fatti; fenomeni naturali come quelli che hanno messo in ginocchio l’italia in queste settimane non erano mai accaduti in epoche storiche. Tuttavia, essi avvengono in una condizione di degrado, sfregio e sfruttamento che moltiplicano i loro effetti.

 

Adesso è l’ora di piantare alberi per un’altra generazione. Lo scrisse cicerone, filosofo e uomo politico romano, lo ha sempre saputo chi ci ha preceduto. Nelle nostre valli soleggiate si piantava l’ulivo per i figli, consapevoli che non si sarebbe vista la raccolta dei frutti; sull’altra sponda del mediterraneo, i padri lasciano in eredità giovani piante di dattero.

 

Abbiamo interrotto una catena di trasmissione, ci siamo persuasi di essere i signori del creato, dobbiamo ristabilire un’alleanza tra natura e cultura, padri, figli e generazioni successive. Non è filosofia e neppure ideologia, è il senso della continuità della vita, un aspetto della tradizione, cioè della trasmissione; ed è una necessità pratica che può trasformarsi in una straordinaria occasione di ricchezza. La propaganda del liberismo vincente non smette di ricordarci che occorre trasformare ogni cosa in opportunità, profitto. Prendiamoli in parola, per immaginare, progettare e realizzare l’impresa titanica di ricostruire il nostro territorio. Un atto d’amore, una scommessa sul domani e il dopodomani che può cambiare in meglio la nostra vita anche dal punto di vista economico.

 

Cerchiamo di gettare qualche seme, tirare fuori qualche idea; nulla di straordinario, semplice buon senso al servizio di noi stessi dopo decenni di follia, arroganza e imprevidenza. Al centro di tutto va posto il concetto di beni comuni. La natura tutta, l’acqua, l’ambiente. Un’operazione di recupero e conservazione del territorio richiede una politica economica e finanziaria volta al domani, la capacità di scommettere su noi stessi. Entro certi limiti, sarà necessario indebitarci, superando la follia ideologica del pareggio di bilancio. Senza investimenti importanti di lungo termine, senza l’iniziativa, il denaro e il ruolo propulsivo dello stato non metteremo in sicurezza settemila chilometri di coste edificate oltre ogni limite, né riusciremo a restituire la bellezza e la funzione naturale delle foreste alpine.

 

Con la politica della lesina, con l’austerità imposta dai signori della finanza non ci sarà alcun piano idrologico che eviti le frane, limiti le alluvioni, faccia rinascere i boschi e consenta a ogni italiano di bere buona acqua a un prezzo accettabile, esercitando il controllo pubblico sulla risorsa più vitale su cui si posano gli artigli dei monopolisti privati. I mutamenti climatici fanno temere la desertificazione progressiva di una porzione significativa della nostra geografia. Solo un radicale cambiamento del modo di vivere, unito al massimo impegno nella ricerca e nella conservazione può metterci al riparo da un rischio tanto drammatico. I terremoti ci saranno sempre, ma la generalizzazione degli accorgimenti antisismici consentirà di affrontarli con una certa tranquillità.

 

La concentrazione di precipitazioni intensissime e brevi è un fenomeno che sperimentiamo da alcuni decenni. Tenere puliti fiumi e torrenti, presidiare monti e vallate, impedire l’impermeabilizzazione massiccia e l’edificazione selvaggia non dovrebbe neppure figurare nei programmi politici e amministrativi, tanto è ovvio. Altrettanto chiara è la necessità della riforestazione di tante nostre vallate, insieme con un programma di sfruttamento controllato e uso comune del legname. Ma la nostra è l’epoca in cui occorre sguainare la spada per affermare le verità più evidenti. Una di esse riguarda l’abuso continuato delle risorse non rinnovabili del pianeta.

 

Sappiamo bene quanto sia equivoca- ed equivocata- l’idea di decrescita, in un mondo che vive (e muore) di crescita, sviluppo, progresso. Non necessario conoscere gregory bateson e il concetto di processi monotòni per sapere che nessun vivente cresce all’infinito. Adesso tutti affermano che per ritornare alla situazione precedente i recenti disastri occorreranno decenni, perfino secoli. Il problema è che la civiltà in cui siamo immersi ragiona in termini di breve periodo. Il profitto deve essere immediato, i diagrammi degli economisti devono innalzarsi rapidamente per remunerare investitori ed azionisti. I governi sono costretti a concentrare le loro promesse nel rapido volgere di mesi, al massimo qualche anno, per non essere battuti alle successive elezioni. Il nuovo vince sempre sul vecchio, il più sul meno. Anche per questo è tanto contestata la cosiddetta decrescita, confusa con la povertà, il sottosviluppo, la regressione.

 

Tuttavia, come dare torto a maurizio pallante quando invita a distinguere i beni – ovvero ciò che è davvero utile alla nostra vita – dalle merci, che sono ciò che può essere scambiato per denaro sul mercato del consumo, senza riguardo per il giudizio etico e l’utilità per la nostra vita? Allo stesso modo, la dittatura del prodotto interno lordo, il ricatto della crescita misurata esclusivamente in termini di scambio monetario, impedisce di guardare al di là della prossima scadenza, oltre l’utile immediato calcolato in denaro. Quanto valgono i boschi martoriati del cadore, le valli franate, i fiumi, le coste invase dal cemento? Sappiamo soltanto fare la conta dei danni materiali dopo i disastri, spesso con il malcelato obiettivo di ottenere fondi pubblici, risarcimenti e deroghe fiscali.

 

Ecco perché ci sembra utile ricordare alcuni dei verbi cari a serge latouche, i principi di un mondo diverso, che sa vedere oltre la ragione strumentale e la contabilità dei ragionieri. Rivalutare, al fine di riconsiderare i valori su cui abbiamo organizzato il nostro mondo; riconcettualizzare per interrogarsi sul senso delle cose; ristrutturare, puntare cioè sul recupero e riuso dell’esistente, a partire dall’immenso patrimonio edilizio inutilizzato. Ed ancora rilocalizzare, dire no alla grottesca globalizzazione per la quale consumiamo prodotti in gran parte provenienti dall’altra parte del mondo, distruggendo la biodiversità e la nostra cultura materiale.

 

Ridistribuire, ridurre, riutilizzare. Noi siamo persuasi che una politica orientata al recupero del territorio, alla sua messa in sicurezza, al riutilizzo delle risorse, compreso il massimo impegno sul versante delle energie rinnovabili, sia un’impresa di interesse nazionale e valore storico in grado di generare ricchezza economica, non decrescita infelice.

 

Pensiamo all’enorme sforzo scientifico, educativo, culturale in senso ampio, di un progetto teso a canalizzare le acque e a risolvere una volta per tutte il problema idrico; immaginiamo quanto può valere, anche in termini di pil, un’opera di riforestazione, riordino geologico del territorio, o nuove tecnologie in grado di convogliare, trattare e recuperare i rifiuti, metodi di edificazione antisismica, l’impiego di tecniche e materiali in grado di rendere costante la temperatura interna dei locali. Una politica energetica diversificata può essere assecondata, e i costi diminuiti, se saremo capaci di utilizzare il vento, l’acqua, inventare nuove tecniche, magari attraverso riciclo, riuso, trattamenti scoperti attraverso l’intelligenza, la competenza, il lavoro.

 

Un progetto del genere, necessariamente sostenuto da investimenti e strumenti giuridici pubblici, può destare entusiasmo, motivare milioni di persone, aguzzare l’ingegno di ricercatori e gente comune, stimolare l’ingresso di capitali, determinare lo sviluppo e la nascita di nuove imprese. Poiché una parte notevole dei problemi riguarda le zone montane e rurali, i buoni progetti potranno invertire la tendenza allo spopolamento, con l’effetto di ripristinare il presidio naturale del territorio. Gli italiani danno il meglio di sé nella difficoltà, allorché occorre inventare, trovare soluzioni. E’ una sorta di genius loci che non crediamo sia andato smarrito nella bufera della modernità. Le soluzioni che troveranno per la loro vallata, per il loro fiume o per un certo tratto di costa sarà probabilmente valida anche altrove. Potremo essere in grado di vendere conoscenze, tecnologie, saperi, o, come si dice adesso, know-how.

 

Bisogna fare il primo e il secondo passo. Tocca alla gente, al nostro popolo esigere politiche nuove, di lungo periodo, estranee al modello di sviluppo che ha creato tanti danni e ha diffuso disagio sociale, povertà materiale, miseria morale, cinismo, una visione sterile, arida e insieme avida dell’esistenza. Tocca alle avanguardie politiche sognare prima, progettare poi, infine realizzare. Siamo convinti che i popoli siano molto più avanti delle oligarchie al potere. Diceva russell kirk che gli individui possono essere stolti, ma la specie è saggia. Riescono a ingannare con promesse di ricchezza, piacere, progresso, ma non hanno il potere di rovesciare il ciclo della natura, né di moltiplicare le risorse limitate del pianeta.

 

Non possiamo permetterci di derubricare i disastri naturali e lo sfruttamento infinito a danni collaterali, emergenze da affrontare con la protezione civile e la distribuzione più o meno equa di risorse economiche. Anche la marcia più lunga comincia con un piccolo passo: per cambiare paradigma, per rovesciare una società che riconosce esclusivamente il prezzo, bisogna dimostrare che il sistema vigente non è solo iniquo, ma è un’impresa che sta facendo bancarotta. Ricostruire il territorio, trattarlo con il rispetto e l’amore che merita fa certamente decrescere i profitti e il potere di qualcuno. Per molti altri è un’opportunità che dà senso alla vita, crea lavoro, gioia, dignità. Sicuramente crea anche ricchezza e fa avanzare la conoscenza. Forse salverà, insieme con la terra degli uomini, anche il loro totem più adorato, il prodotto interno lordo, che non misura la felicità, la qualità della vita né la salute.

 

Un economista buontempone spiegò il suo funzionamento: se stasera esco con la mia fidanzata e torno a casa felice e innamorato, il pil resta fermo. Se un’automobile ci travolge, uccide uno di noi e ferisce l’altro, ci sarà lavoro per le pompe funebri, per l’ospedale, l’industria sanitaria, le assicurazioni, i carrozzieri. Venderanno fiori per il funerale e farmaci per curare il superstite. Il pil aumenterà, con grande soddisfazione degli oligarchi e degli economisti. Anche i terremoti e le guerre arricchiscono qualcuno e muovono l’economia. Ne vale la pena? Tanto vale mettere l’uomo al servizio della natura. Vivrà meglio persino in senso materiale forse è più saggio ricostruire un bosco che innalzare un altro grattacielo di vetro a maggior gloria del dio denaro e dell’uomo, effimero dominatore di un creato a cui basta un colpo di vento per ristabilire le gerarchie.

 

Naturam expellas furca; tamen usque recurret. Anche se caccerai la natura con la forca, essa tuttavia ritornerà sempre. Orazio, epistole. Duemila anni fa, un soffio per il calendario della natura.

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