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12 Gen 2018

 

Planet First: educazione ambientale contro i negazionismi

di Francesca Toninato

 

Pubblichiamo l’articolo della prima classificata nella graduatoria finale della V edizione della Summer School Renzo Imbeni, nel quadro della cooperazione stabilita tra la Scuola e la nostra rivista. 

 

“L’America ha bisogno del buon vecchio riscaldamento globale per far fronte alle imponenti nevicate della West Coast”. Questa l’ennesima dichiarazione sul clima rilasciata con un misto di scetticismo e noncuranza dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Essa si inserisce nella scia del ritiro dall’accordo sul clima concluso alla Cop21 di Parigi e della concomitante interruzione nella fornitura di contributi al Green Climate Fund delle Nazioni Unite.

L’accordo prevedeva, accanto a degli obiettivi specifici – come la riduzione della temperatura mondiale al di sotto di 2° C e la creazione di un tetto alle emissioni inquinanti – anche dei risultati più generali, basati su un approccio innovativo, multilaterale, responsabile e trasparente da parte delle singole nazioni e soprattutto della High Ambition Coalition. Il fine ultimo è far fronte a quella che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha definito come “una delle più grandi minacce attuali per il futuro del nostro pianeta”, ossia il riscaldamento globale.

 

L’opzione pro combustibili fossili
Gli Stati Uniti, secondo produttore mondiale di gas serra, sono attori protagonisti nella scena dei cambiamenti climatici e se la scelta dell’amministrazione Obama di tagliare le emissioni globali nel 2015 del 2,6% e nel 2016 dell’1,7 % sembrava far ben sperare, l’amministrazione Trump ha invece virato in direzione di un drammatico finale per il futuro del pianeta.

Le motivazioni addotte dal presidente americano per spiegare il ritiro dall’accordo di cui sopra fanno leva sul risvolto economico negativo per i cittadini e le imprese americane. Tuttavia, recenti studi della Banca Mondiale hanno dimostrato come a lungo termine l’utilizzo di combustibili fossili porterà ad un aumento delle spese per l’assistenza sanitaria e ridurrà quindi la produttività del lavoro, che potrebbe invece aumentare con investimenti nel settore dell’energia rinnovabile.

La Trump attitude fronteggia anche un’opposizione interna, fatta di Stati e imprese di regioni economicamente molto dinamiche che, a differenza dei Rust Belt States – cruciali per la vittoria di Trump e in cui lo stesso Presidente ha dichiarato di voler far tornare in auge le miniere di carbone e di acciaio -, hanno dichiarato di voler proseguire con l’assolvimento degli impegni presi a Parigi e, laddove possibile, anche di andare oltre.

 

Segnali positivi sulla scena mondiale
Il trend di politica ambientale di Trump si scontrano anche con le politiche di altri Stati, da quelli della ‘sempreverde’ Scandinavia – in cui, per citare un esempio, la Svezia si propone di essere il primo Paese al mondo senza combustibili fossili entro il 2020 – , ai piccoli ma significativi cambiamenti che si stanno verificando in Medio Oriente: il ministro dell’Energia saudita Khaled Al-Faleh ha infatti recentemente dichiarato che Riad sta tentando di riformare il sistema energetico e punta a ottenere il 10% dell’elettricità dalle rinnovabili entro il 2023.

I segnali positivi emersi sulla scena mondiale a livello nazionale sono rielaborati nei fori multilaterali e nuovi stimoli sono proposti con vigore da parte delle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite da lungo tempo si fanno paladine e fari propulsori della protezione ambientale, dal rapporto Brundtland (1987), passando attraverso l’Agenda 21 sul cambiamento climatico (1992) e tramite numerose guidelines e accordi internazionali propongono una saldatura indissolubile tra sviluppo economico ed ambiente, ispirata al concetto di sviluppo sostenibile, ossia capace di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere quelli delle generazioni future.

Gli strumenti Onu richiamano i principi di soft law come quello di valutazione dell’impatto ambientale, il principio del “chi inquina paga”, il principio precauzionale, alcuni obblighi a carattere procedurale, come quello di notifica urgente di disastri ambientali e il principio dello sviluppo sostenibile. A questi si affiancano, però, anche degli accordi internazionali settoriali o generali e, sebbene le norme ambientali non siano ancora previste dal diritto internazionale generale, la materia della responsabilità per danni ambientali è regolata dalle stesse norme utilizzate per la responsabilità internazionale degli Stati da fatto illecito.

 

Il ruolo di Osce e società civile
Nella lotta per porre gli interessi del Pianeta prima di ogni altro interesse nazionale le Nazioni Unite non sono sole. Oltre a numerosi istituti e agenzie da loro dipendenti va sottolineato il ruolo di numerose Ong e di quel foro diplomatico permanente – a guida italiana nel 2018 – che è l’Osce. Attraverso l’ufficio del coordinatore delle attività economiche e ambientali, esso attua progetti che mirano ad una gestione sicura dei disastri climatici e dei rifiuti pericolosi, promuovendo il dialogo tra gli Stati partecipanti, l’efficienza energetica e la crescita verde.

Grazie all’azione congiunta e multilaterale, come affermato alla Cop23 di Bonn dello scorso novembre, gli Stati stanno imboccando la giusta via, ma attori economici e geopolitici importanti non possono essere lasciati al margine. Per questo, una maggiore consapevolezza a livello della società civile si rende necessaria.

Sussidi, riforme agrarie, sanzioni in caso di catastrofi climatiche, supporto all’innovazione verde vanno affiancati da una cultura civica capace di includere un’educazione ambientale. Secondo recenti studi dell’università di Yale, il 40% degli adulti nel mondo non ha mai sentito parlare di cambiamenti climatici.

Con l’educazione ambientale si potrà colmare questa falla e rendere le società colpite da problemi climatici più resilienti, si potranno mostrare le grandi possibilità economiche delle rinnovabili agli investitori internazionali e fronteggiare problemi locali con tecnologie globali e soluzioni fatte su misura. Una maggiore consapevolezza del problema non è solo la chiave per superare gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici, ma anche l’opportunità di scalzare quell’inerzia che impedisce agli stati di muoversi verso uno sviluppo più pulito, più equo e più produttivo di cui il Pianeta ha estremo bisogno.

 

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