Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Ritorno_energetico_sull%27investimento_energetico

https://comedonchisciotte.org/

27 agosto 2018

 

Documenti rivelano che la filantropia liberale sta condannando il pianeta al disastro climatico

di Nafeez Ahmed

 

Abbiamo bisogno di un movimento popolare che si mobiliti per la rigenerazione ecologica e la trasformazione sistemica.

 

Si appresta a fallire catastroficamente una delle più grandi iniziative filantropiche al mondo per affrontare i cambiamenti climatici, secondo un documento sulla strategia che definisce il piano quinquennale dell’iniziativa.

 

Il documento sulla strategia, pubblicato a gennaio dalla William and Flora Hewlett Foundation, rappresenta il terzo rinnovo dell’iniziativa Climate Works, originariamente fondata nel 2008. L’iniziativa è stata realizzata mediante la Climate Works Foundation, in coordinamento con altre grandi fondazioni filantropiche, la Packard e la McKnight Foundation.

 

Il documento sulla strategia della Hewlett Foundation, intitolato Climate Initiative Strategy 2018-2023, riflette sull’approccio strategico alla base del processo che ha portato lo scorso dicembre all’annuncio che la fondazione avrebbe impegnato 600 milioni di dollari, per affrontare il cambiamento climatico nei prossimi cinque anni: un aumento del 20%, rispetto al precedente finanziamento.

 

La quinta più grande fondazione negli Stati Uniti, la Hewlett Foundation è uno dei più influenti finanziatori statunitensi per il clima e l’energia, che stabilisce tradizionalmente il programma per altre importanti fondazioni in queste aree. Ogni anno, la filantropia per il clima spende tra 600 milioni e 1,2 miliardi di dollari.

 

Ma il documento sulla strategia di Hewlett è completamente da rivedere, nei confronti della scienza più recente, sulla velocità e la portata delle azioni necessarie per evitare pericolosi cambiamenti climatici.

 

Adotta un approccio sconsiderato, minimizzando la riduzione delle emissioni, richiedendo investimenti per tecnologie dubbie e non provate per le emissioni negative(1), ignorando le prove emergenti di tecnologie più promettenti e oscurando l’urgenza di cambiamenti economici rivoluzionari.

 

Garantire la catastrofe: obiettivi di emissioni moderate

 

 

 

 

Estratto dal documento sulla strategia della Hewlett Foundation

Nonostante sostenga di voler “arrivare più lontano e impegnarsi maggiormente”, il documento propone una valutazione fondamentalmente errata delle scienze del clima, per giustificare ciò che definisce un approccio alla mitigazione, con orizzonte temporale più lungo, per mezzo di un “obiettivo 2050”:

“I modelli climatici ci aiutano a capire che, per mantenere l’aumento delle temperature medie globali ‘ben al di sotto’ di 2°C, come previsto dall’Accordo di Parigi, dobbiamo ridurre del 60% o più le emissioni globali di gas serra entro il 2050 – qualcosa che non può realisticamente accadere, senza ridurre nello stesso periodo le emissioni di oltre l’80% nei Paesi sviluppati.”

 

Due gradi Celsius è ampiamente riconosciuto dagli scienziati come il limite superiore per le temperature medie globali, oltre il quale il clima entra in una fase pericolosa. Gli scienziati,tuttavia, concordano sempre più sul fatto che un clima veramente sicuro richieda il mantenimento [del rialzo] delle temperature al di sotto di 1,5°C.

 

Anche all’interno di 2°C, mettiamo in moto cambiamenti che attiveranno la distruzione ecologica: il 90-98% delle barriere coralline è a rischio di deterioramento, perdita del 6-16% nella rendita dei raccolti, 40-50 cm di innalzamento del livello del mare, l’aumento della gravità e della frequenza di eventi meteorologici estremi, tra cui più ondate di caldo e tempeste, diminuzione del 9-17% della disponibilità di acqua dolce nel Mediterraneo. Oltre a ciò, iniziamo a vedere l’accelerazione dei danni alle calotte polari, artica e antartica, alla foresta pluviale amazzonica, al sistema di circolazione termoalina dell’oceano(2)che regola il clima globale, massicce siccità prolungate e un’accelerazione senza precedenti delle condizioni meteorologiche estreme, che portano rapidamente a un pianeta sempre più inabitabile.

 

Secondo il 2007 Emissions Gap Reportdell’ONU, tuttavia, sono necessari tagli molto più profondi e più ampi delle emissioni che vent’anni fa.

 

Il rapporto conclude che esiste un ampio “divario” tra le riduzioni delle emissioni promesse dai governi nell’ambito dell’accordo di Parigi (note come Nationally Determined Contributionso NDC) e le riduzioni effettive delle emissioni “necessarie per raggiungere questi obiettivi concordati al minor costo”.

 

Le ‘NDC’, secondo il rapporto di sintesi ambientale delle Nazioni Unite, sono una ricetta per il disastro, che include “circa solo un terzo delle riduzioni di emissioni, necessarie per essere su un percorso meno costoso per l’obiettivo di stare ben al di sotto di 2°C. Il divario tra le riduzioni necessarie e gli impegni nazionali presi a Parigi è elevato in modo allarmante”.

 

Il rapporto delle Nazioni Unite propone la seguente conclusione misurata:

“… è chiaro che se il divario delle emissioni non sarà contenuto entro il 2030, è estremamente improbabile che l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C possa ancora essere raggiunto.”

 

Anche se i Paesi rispettano gli impegni assunti con l’accordo di Parigi, entro il 2030 il margine disponibile per ulteriori emissioni di carbonio (noto come “budget del carbonio”)(3) per mantenere [il rialzo del]le temperature medie globali intorno a 1,5°C “sarà già del tutto esaurito entro il 2030”.

 

Tagli inefficaci

In altre parole, l’obiettivo strategico della Hewlett Foundation di lavorare per ridurre le emissioni globali di carbonio del 60% entro il 2050 garantirà, probabilmente, un devastante aumento della temperatura di 2°C.

 

La vera portata dei tagli necessari per evitare pericolosi cambiamenti climatici è stata documentata in una serie di studi recenti.

 

Un documento del 2017 su Science, scritto da Johan Rockström, direttore dell’Istituto per la ricerca sull’impatto climatico di Potsdam, ha concluso che le emissioni globali di carbonio dovrebbero essere dimezzate entro il 2020, per poi dimezzarle nuovamente entro il 2030 e poi di nuovo per ogni decennio fino al 2050.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 82 Ciò implica che le emissioni dovrebbero essere ridotte di circa il 75% entro il 2030 e di quasi il 95% entro il 2050, per rimanere all’interno di un clima sicuro.

Uno studio di Nature Geoscience ha riscontrato, allo stesso modo,che “limitare il riscaldamento a 1,5° C non è ancora qualcosa d’impossibile dal punto di vista geofisico, ma è probabile che richieda la presa in consegna di impegni rinvigoriti per il 2030, seguiti da una profonda e rapida mitigazione in modo oneroso.”

 

Ciò significa che in nome della “mitigazione del clima”, la strategia di Hewlett – che è molto influente nei circoli di filantropia per il clima – garantisce effettivamente il disastro.

Dimezzare la minaccia? O renderne oscuro l’impatto?

 

Il documento sulla strategia di Hewlett presenta una serie di altre valutazioni errate.

All’inizio, il documento rivendica una grande vittoria nell’aver ridotto la portata del riscaldamento globale, diventato di ordinaria amministrazione:

“Quando la filantropia per il clima è iniziata circa un decennio fa, il mondo era sulla buona strada per il riscaldamento di 6-8°C entro la fine del secolo, ma gli sforzi congiunti della società civile e dell’amministrazione hanno dato un taglio a quella traiettoria.”

Ma questa conclusione autocelebrativa può venire solo da una lettura fuorviante e selettiva della letteratura scientifica.

 

Un’analisi del 2016 da parte di Climate Interactive e del MIT Sloan ha rilevato che, anche se pienamente attuati, gli impegni dell’accordo di Parigi per la riduzione delle emissioni di carbonio porterebbero nel 2100 a 3,5°C di riscaldamento previsto, con un range di oscillazione da 2,1 a 4,7°C, ben oltre la zona di pericolo dei 2°C. Ciò è stato confermato da un rapporto del Carbon Tracker di Londra, che ha posto il probabile riscaldamento a 3,2° C, nel quadro degli impegni dell’Accordo di Parigi a 3.2°C.

Ma c’è un inghippo: è il livello di riscaldamento che vedremmo se i governi raggiungeranno gli obiettivi che hanno sottoscritto con l’accordo di Parigi.

Questo è un grande “se”.

 

Nell’agosto 2017, un commento su Nature di un gruppo di studiosi di politica climatica ha osservato minacciosamente che:

“Tutti i principali Paesi industrializzati non riescono a soddisfare gli impegni assunti per ridurre le emissioni di gas serra”.

Ciò è in parte dovuto al fatto che lo stesso Accordo di Parigi è pieno di “impegni vaghi e irresponsabili … La maggior parte degli impegni è quasi posta sotto silenzio sulla gamma di linee di condotta utilizzate, rendendo difficile discernere quali siano effettivamente quelle efficaci”.

 

In altre parole, mentre l’esecuzione degli impegni dell’Accordo di Parigi potrebbe frenare il riscaldamento estremo per il range di temperatura medio ancora catastrofico di circa 3-4°C, i governi non sono effettivamente sulla buona strada per adempiere a tali impegni.

Ciò significa che la convinzione della Hewlett Foundation, che la nostra attuale traiettoria si stia dirigendo verso la metà del range di riscaldamento estremo di 6-8°C, è senza fondamento.

 

La metà del riscaldamento estremo è il punto verso il quale siamo diretti se l’Accordo di Parigi è attuato; ma tutte le prove confermano che i governi stanno attualmente fallendo nell’attuare anche questi “impegni vaghi e irresponsabili”.

 

Quindi verso dove potremmo essere diretti?

Una traiettoria normale indica che il pianeta continua a dirigersi, potenzialmente, verso uno scenario di riscaldamento estremo. Lo scorso agosto, ho segnalato per VICE una valutazione del rischio poco conosciuta,realizzata dalla società di investimenti britannica Schroders.

 

Il Climate Progress Dashboard dell’azienda, volto ad aiutare gli investitori a prendere decisioni più consapevoli, ha messo in guardia, sulla base dei dati dell’AIE(4), che l’attuale tasso di produzione di petrolio e gas ci pone in direzione del raggiungimento di un aumento della temperatura media globale di 7,8°C entro il 2100, se nulla cambia.

Questo è ovviamente al vertice delle previsioni del modello climatico. Schroders ha attenuato questa conclusione, osservando che se gli impegni di riduzione delle emissioni esistenti dovessero essere avviati, ciò porterebbe a un aumento di circa 3-4°C, ma proprio in questo momento con tali impegni, di fatto, non si va fino in fondo.

 

La plausibilità dello scenario peggiore, da parte di Schroders, su una traiettoria di normalità è sostenuta da una serie di studi oggetto di revisione paritaria(5), i quali indicano una molto più elevata “sensibilità climatica”(6), rispetto a quella riconosciuta dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico(7). Spesso, questi tipi di studi portano alla luce nuove ricerche sugli effetti dell’amplificazione dei feedback nel sistema climatico, dove i gradi di riscaldamento portano a ulteriori cambiamenti del sistema terrestre che inducono ulteriore riscaldamento.

 

Uno di questi su Science Advances dello scorso luglio ha concluso che la sensibilità climatica potrebbe arrivare fino a 6°C, ciò significa che le alte temperature medie globali potrebbero aumentare con un raddoppio di CO2 nell’atmosfera. Un altro studio precedente della Yale University ha stabilito allo stesso modo [la sensibilità climatica] tra 5 e 5.3°C.

Sebbene non esista un consenso univoco su tali valori, la convinzione della Hewlett Foundation che la filantropia per il clima abbia già evitato lo scenario climatico più catastrofico è poco più di un’illusione consolatoria.

 

La BECCS: la bacchetta magica per la mitigazione del clima

Dopo essersi vincolata a un modello defunto della scala di riduzione delle emissioni di carbonio, necessarie per evitare pericolosi cambiamenti climatici, la Hewlett Foundation continua a suggerire che un altro obiettivo dell’azione per il clima dovrebbero essere le tecnologie per le emissioni negative:

“Risolvere il problema richiederà probabilmente anche ingenti investimenti per la [tecnologia per le] ’emissioni negative’ – principalmente la cattura e lo stoccaggio del carbonio, l’assorbimento del carbonio del suolo e il rimboschimento, ma forse anche la cattura direttamente dall’atmosfera o la geoingegneria.”

 

Il documento promette anche di investire in un portfolio tecnologico che comprende la “rimozione del carbonio e tecnologie avanzate a emissioni zero, inclusa l’energia nucleare”, nonostante la scoperta del 2017 World Nuclear Industry Status Report, secondo cui le nuove fonti rinnovabili sono ora meno costose dei costi operativi e di manutenzione degli impianti nucleari esistenti.”

 

Pur appoggiando gli sforzi più tiepidi per ridurre le emissioni di carbonio, la Hewlett Foundation è costretta a presumere che l’unico modo per compensare l’aumento delle emissioni sia attraverso le tecnologie per le “emissioni negative”, in modo da ridurre il carbonio dell’atmosfera.

 

C’è un’altra strada

Il primo problema è che la strategia non riconosce le prove scientifiche per i percorsi di mitigazione, che riducono al minimo la necessità di tali tecnologie per le emissioni negative.

Uno di questi nuovi articoli su Nature Climate Change rileva che la BECCS non è necessaria per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.

Fa uso di un modello di valutazione integrato, per esplorare come utilizzare percorsi alternativi, “per ridurre in modo significativo la necessità di rimozione del biossido di carbonio, ma non eliminarlo completamente”.

 

Tra questi percorsi alternativi vi è “una rapida trasformazione dell’energia e dei sistemi di uso del territorio” che comportano una più rapida e rinnovata elettrificazione, importanti cambiamenti dello stile di vita, riducendo il consumo di carne e uova, provenienti da allevamento pastorale e avicolo, espansione del rimboschimento, sforzi per limitare la crescita della popolazione mondiale, per mezzo di una più rapida riduzione dei tassi di fertilità (offrendo livelli d’istruzione specialmente per le donne più giovani) e aumentando le tecnologie esistenti per ridurre al minimo le emissioni di CO2 dall’industria dei combustibili fossili, dall’industria chimica e in agricoltura.

 

Un eccellente riassunto del documento è disponibile su Carbon Brief, il quale osserva che la BECCS è in realtà un artefatto di modelli climatici piuttosto che un bisogno essenziale.

 

La BECCS: la tecnologia fantastica che non esiste ancora

Il secondo problema è che la maggior parte delle tecnologie per le emissioni negative (NET) approvate dalla strategia Hewlett sono o non fattibili, non provate, inadeguate o altamente speculative.

 

Un nuovo articolo sulla BECCS nella rivista Carbon & Climate Law sottolinea che la scienza alla base della BECCS, che funziona con la combustione della biomassa per produrre energia e con la cattura del carbonio rilasciato per lo stoccaggio sotterraneo, è in gran parte non dimostrata e non testata.

 

La BECCS rappresenta una tecnologia di risparmio, centrale negli scenari convenzionali di mitigazione del clima adottati dai governi, nonostante il fatto che:

“… attualmente esiste solo un impianto dimostrativo su larga scala e anche la stessa cattura e stoccaggio del carbonio non si è dimostrata tecnicamente praticabile, nonostante due decenni di ricerca. Altre tecnologie per le emissioni negative “non sono andate oltre gli studi teorici o le dimostrazioni su piccola scala”. Ciò solleva la legittima preoccupazione di “rischio morale” che il futuro affidamento a tecnologie non ancora dimostrate, ci conduca a posticipare le riduzioni delle emissioni e ci blocchino in un percorso verso il rialzo della temperatura”.

 

Il documento, inoltre, evidenzia prove dei principali effetti collaterali della BECCS. Per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C, la BECCS avrebbe “gravi ripercussioni sugli ecosistemi e sulla produzione alimentare”, e persino l’obiettivo di 2°C condurrebbe la BECCS ad avere un impatto significativo su “terra, energia, acqua, sostanze nutritive, albedo(9) o costo”. L’uso estensivo della terra e la competizione con la produzione alimentare “farebbero pressione sui prezzi dei prodotti alimentari fortemente correlati ai prezzi del carbonio” e produrranno effetti negativi sulla biodiversità, portando a “perdite di specie terrestri, in corrispondenza a un aumento della temperatura di 2,8°C”.

 

La BECCS: un potenziale disastro energetico netto

Un altro nuovo articolo nella rivista Environment, Energy and Science della Royal Society of Chemistry esamina la BECCS dal punto di vista dell’”energia netta”, per misurare la quantità di energia che la BECCS richiederebbe rispetto a ciò che produce.

 

Si scopre che c’è una contraddizione tra la capacità della BECCS di produrre energia su larga scala e la sua capacità di rimuovere il biossido di carbonio. Maggiore è il potenziale di rimozione di CO2, minore è la potenza che può generare, e maggiore è la sua produzione di energia, minore è la quantità di CO2 che può eliminare:

“… il miglioramento dell’efficienza della produzione di energia della BECCS potrebbe ridurre drasticamente le perdite di energia della BECCS, ma aumenterebbe anche la quantità di potenzainstallata(10)della BECCS, necessaria per raggiungere un obiettivo annuo di rimozione del carbonio, e quindi i costi finanziari associati al raggiungimento di tale obiettivo. Si assiste quindi a un chiaro compromesso tra il potenziale annuo di rimozione del carbonio della BECCS e la produzione di energia.”

 

Se “più energia viene usata per far funzionare la BECCS di quanto viene restituita alla società” – come suggeriscono diversi studi – questo “potrebbe compromettere la sicurezza energetica, oltre che aumentare l’uso di tecnologie a EROI più elevato(11), come i combustibili fossili, per sostenere la BECCS nel mix energetico. Le conseguenze indesiderate di questo potrebbero includere un aumento delle emissioni di CO2, con una potenziale compensazione del servizio di rimozione di biossido di carbonio fornito dalla BECCS. ”

 

Mentre lo studio tenta di identificare i meccanismi attraverso i quali la catena di approvvigionamento della biomassa per la BECCS può essere più efficiente, economica e meno ad alto consumo energetico, la fattibilità pratica di tali meccanismi non è chiara ed “è vasta la portata delle conseguenze impreviste”.

 

La BECCS: i politici davvero non se ne preoccupano 

A conclusione, un altro nuovo studio su Energy Research& Social Science, condotto da scienziati svedesi, valuta le “condizioni sociopolitiche d’implementazione” della BECCS, sulla base di un’indagine condotta dai responsabili delle politiche alle conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

 

Lo studio rileva “la bassa priorità assegnata agli investimenti per la BECCS, gli elevati vincoli politici e sociali previsti per l’implementazione, e un divario tra il suo basso potenziale nazionale percepito per contribuire alla mitigazione e un percepito potenziale globale leggermente superiore”.

 

In termini più semplici, nonostante tutta la finta devozione, i responsabili delle politiche non prendono molto sul serio la BECCS e non stanno neanche cercando attivamente di implementarla.

 

Nulla di ciò viene minimamente riconosciuto dal documento sulla strategia della Hewlett Foundation.

 

La soluzione trascurata del biochar

Tra le altre tecnologie per le emissioni negative suggerite nel documento, l’assorbimento del carbonio del suolo – che utilizza tecniche agricole rigenerative per ridurre il carbonio atmosferico nei terreni, migliorandone la salute e la fertilità agricola – è certamente un approccio molto più comprovato. Tuttavia, non è preso in considerazione nei modelli esistenti di mitigazione del clima.

 

Nel 2012, il Biochar Research Team dell’Università di Swansea, in collaborazione con il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, la Cornell University e l’Università del New South Wales ha pubblicato un articolo innovativo in Nature Communications, concludendo che il biochar (un materiale carbonizzato prodotto dal riscaldamento della biomassa residuale) potrebbe compensare le emissioni di gas serraper il 7-12 percento.

Uno studio più recente su Global Change Biology rileva che l’assorbimento del carbonio del suolo ha “minore impatto sulla terra, sull’uso dell’acqua, sui nutrienti, sull’albedo, sul fabbisogno energetico e sul costo, quindi ha meno svantaggi rispetto a molte NET (tecnologie per le emissioni negative)”.

 

Purtroppo, il 7-12 percento delle emissioni di gas serra comprende solo una minima parte delle compensazioni di carbonio necessarie, apparentemente confermando l’insistenza della Hewlett Foundation sulla mitica tecnologia BECCS che nessuno ha ancora creato.

 

Eppure, il documento sulla strategia della Hewlett trascura la ricerca scientifica d’avanguardia su altre applicazioni innovative del biochar. Una nuova ricerca ha esaminato le applicazioni del biochar come materiale da costruzione alternativo,per creare un genere di cemento più sostenibile. I risultati indicano un enorme potenziale di riduzione del carbonio, su una scala che è più del doppio di quella prevista per l’agricoltura. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Materials in Civil Engineering nel settembre 2017:

“L’uso di materiali da costruzione contenenti biochar, per catturare e poi imprigionare l’anidride carbonica atmosferica negli edifici e nelle strutture, può potenzialmente ridurre le emissioni di gas serra di un ulteriore 25%.”

 

Ciò indica il potenziale di assorbimento del carbonio totale del biochar fino al 37% delle emissioni di carbonio.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 82 Nel complesso, la nuova ricerca conferma che una strategia di successo per la mitigazione del clima comporterà una transizione concertata post-carbonio, che implichi una trasformazione completa delle nostre società e delle loro economie. Ciò deve implicare uno spostamento strutturale nella produzione industriale e nel consumo di alimenti, i materiali, le costruzioni e altre attività su scala sistemica e individuale.

Sottostimare la portata del cambiamento

Il documento sulla strategia della Hewlett Foundation non si avvicina minimamente a riconoscere la portata, l’intensità e la velocità di questa trasformazione e trascura alcune delle migliori ricerche scientifiche, pertinenti ai suoi dichiarati imperativi strategici.

Invece, per esempio, il documento vuole sostenere “gli attuali sforzi per massimizzare il prima possibile l’uso globale di combustibili fossili”, assicurando che “quasi un terzo delle riduzioni delle emissioni globali deve venire dalla gestione delle nostre terre, della nostra agricoltura e delle nostre foreste.”

 

Dato che l’attuale tasso di produzione di combustibili fossili è in aumento, non in diminuzione, è troppo ambiguo il riferimento alla ricerca di un anticipato “picco” di utilizzo dei combustibili fossili e non specifica quale dovrebbe essere la fase post-picco (un livello fisso con ondulazioni, un declino graduale o una riduzione rapida?). Disattende quindi la richiesta di ciò che l’ex capo scienziato del clima della NASA, James Hansen, definisce urgente “eliminazione del combustibile fossile”, il che comporta, d’urgenza, l’eliminazione progressiva e il disinvestimento sistemico dai combustibili fossili.

 

Allo stesso modo, il documento non specifica quale tipo di “gestione” di terre, agricoltura e foreste è necessario per raggiungere gli obiettivi di emissione – quando esiste un consenso scientifico su una soluzione specifica: una trasformazione fondamentale dell’agricoltura industriale che comporta uno spostamento concertato verso pratiche agroecologiche rigenerative.

 

Già nel 2008, l’agroecologia è stata promossa nella relazione finale del International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IAASTD), uno studio commissionato dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite che coinvolge oltre 400 scienziati e 30 governi. Il rapporto richiede una radicale trasformazione delle pratiche e delle tecnologie agricole, una conclusione ribadita in più rapporti di diverse agenzie delle Nazioni Unite.

 

Mentre il documento sulla strategia della Hewlett non è certamente del tutto negativo, è bizzarra la sua attenta elusione di tali soluzioni specifiche. Il suo approccio di base sembra essere fondato su un’inspiegabile ignoranza e omissione di alcune delle scoperte scientifiche più rilevanti per la strategia.

 

La Hewlett Foundation non ha risposto alla richiesta di dichiarazione.

In breve, c’è un enorme divario tra gli imperativi strategici della Hewlett Foundation per la filantropia in merito al clima e la crescente evidenza scientifica sulle azioni urgenti che richiedono quel sostegno filantropico.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 82 Il misero contributo della filantropia liberale

Ma la Hewlett Foundation è un esempio di un problema più ampio nella filantropia. Come ha scritto il giornalista Marc Gunther in The Chronicle of Philanthropy all’inizio di quest’anno, data la realtà della nostra attuale traiettoria verso un clima pericoloso su un pianeta sempre più inabitabile, la filantropia liberale in merito al clima ha finora fallito,senza ombra di dubbio.

 

Secondo i dati della piattaforma di ricerca MAPS di Foundation Center, la percentuale di filantropia liberale dedicata ai cambiamenti climatici è,in modo irrisorio, bassa.

I dati non sono pubblici, ma a pagamento, mostrano che, anno dopo anno, la donazione per il clima degli Stati Uniti rappresenta una piccola frazione – meno di un millesimo – delle donazioni filantropiche statunitensi totali.

Nel 2014, la percentuale del totale [di donazioni] degli Stati Uniti per il clima è stata dello 0,06%.

 

Nel 2015 era di nuovo dello 0,06%.

Nel 2016, l’ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, è scesa allo 0,04%, anche se il calo potrebbe essere spiegato a causa della mancanza di dati.

 

Si tratta di dati interessanti, visto che lo scorso anno Larry Kramer della Hewlett Foundation ha esortato giustamente i suoi colleghi filantropi a incrementare le donazioni per il clima, ma ha erroneamente stimato al 2% la percentuale di donazione esistente per il clima. Il quadro reale è chiaramente di gran lunga peggiore.

 

Un problema chiave è che le fondazioni filantropiche liberali sono incorporate, in modo permanente, nella prevalente ortodossia economica neoliberale della crescita illimitata a ogni costo.

 

Gunther fa notare che troppi fiduciari della fondazione, in particolare quelli che siedono in comitati per gli investimenti, “vengono da Wall Street, da fondi di private equity, hedge fund e venture capital”. Di conseguenza, gli investimenti delle fondazioni spesso includono le stesse speculazioni per i combustibili fossili,che le loro donazioni per le strategie sul clima pretendono di tentare di ridurre, nonostante il rischio finanziario di asset non recuperabili, come dimostrato da molti dei progetti che finanziano.

 

Per quanto riguarda la Hewlett Foundation, mentre prometteva di “astenersi dagli investimenti futuri in partnership private, principalmente coinvolte nella perforazione per petrolio e gas”, e la sua dotazione di 9 miliardi di dollari, riporta Gunther, “quasi sicuramente detiene società che scavano e bruciano carbone ed estraggono petrolio da sabbie bituminose, per mezzo del proprio investimento in fondi indicizzati, inclusi S&P 500 ed Euro Stoxx 50.”

 

La fondazione possiede anche azioni nella major del petrolio e del gas brasiliano, Petrobas e Anglo American, una delle più grandi società minerarie del mondo e leader nel carbone; possiede obbligazioni di Petrobas e della compagnia petrolifera norvegese Statoil; e investe in futures sul petrolio e sul gas. Gran parte dei dettagli di tali investimenti sono sconosciuti perché la fondazione non vuole rispondere, in modo trasparente, a domande a essi inerenti.

E questo suscita una domanda fondamentale. Se la filantropia liberale e i suoi miliardi di dollari in dotazione sono strutturalmente integrati in un modello economico di crescita senza fine, basato sull’estrazione continua di combustibili fossili, non è del tutto sorprendente che le fondazioni siano spesso incapaci di considerare davvero la portata del cambio di paradigma dellaciviltà, richiesto per affrontare la crisi climatica.

 

Andare avanti

Questa indagine dimostra che, nonostante l’attuale rotta del viaggio verso la catastrofe, sono disponibili soluzioni reali.

Ma queste soluzioni non si inseriscono facilmente all’interno del paradigma esistente. Indicano un cambio di paradigma radicale, un nuovo tipo di civiltà e un nuovo tipo di umano per un mondo veramente sostenibile e prospero.

 

Uno dei problemi principali nell’approccio strategico della filantropia liberale è la sua incapacità di diagnosticare, sia il contesto sistemico alla base della crisi climatica, sia la vera portata e la dinamica della crisi stessa. C’è chiaramente anche una generale incapacità di confrontarsi in modo critico e costruttivo con la letteratura scientifica, al fine di identificare la migliore scienza emergente per azioni e soluzioni incoraggianti.

Inoltre, un importante fattore inibitorio sembra essere l’intreccio strutturale della filantropia liberale proprio con il contesto economico-sistemico che sta determinando la crisi climatica. Ciò crea inerzia e incapacità di affrontare quel contesto con l’approccio radicale e trasformativo richiesto.

 

Il documento sulla strategia della Hewlett Foundation e gli ultimi dati disponibili sulle donazioni per il clima rivelano, in modo più ampio, che la filantropia liberale è invischiata in un’illusione radicata, relativamente allo stato della lotta per il clima. Compiacendosi per i successi del passato,in gran parte irrilevanti, il documento si concentra quasi interamente su un approccio di mitigazione che è o destinato al fallimento, o discutibile dal punto di vista della tecnologia.

 

La filantropia liberale è priva dei processi di intelligenza collettiva, necessari per comprendere e impegnarsi nel mondo in modo efficace; e proprio gli assetti delle sue dotazioni la rendono complice, inconsapevolmente o meno, delle crisi sistemiche che vuole affrontare.

 

Per superare questa impasse, la filantropia liberale deve impegnarsi fondamentalmente in merito al fatto preponderante che, ad oggi, ha fallito. Solo affrontando e accettando questo fallimento la filantropia liberale sarà in grado di rivalutare, sia le cause sistemiche e strutturali di questo fallimento, sia le azioni sistemiche e strutturali necessarie per il successo. Al centro di questo processo, la filantropia liberale è chiamata a valutare i suoi impegni più intimi, ed ecco quanto vi è di più cruciale: di cosa, veramente, è al servizio?

Oltre a ciò, l’abietto fallimento della filantropia liberale mette in evidenza l’urgenza di una strategia popolare ad ampio raggio per l’educazione al clima e l’azione di individui e gruppi a più livelli: comunità locali, gruppi giovanili, imprese, aziende, organizzazioni non profit e oltre. Fondamentale è che le persone che gestiscono queste reti e organizzazioni siano persone. Sono le persone che sono state in gran parte dimentacate da un complesso mediatico-industriale che è anche, per lo più, strutturalmente impigliato all’interno dello stesso sistema. E quindi non vengono informate della portata della sfida, né dell’entità dell’azione richiesta; né sono quindi date loro opportunità di esplorare le azioni che possono intraprendere nei propri contesti.

 

Il compito che ci attende è che ognuno di noi, tutti noi, dia l’allarme su ciò che sta realmente succedendo, dove siamo diretti e sulle opportunità disponibili, sia per scongiurare la crisi, sia per creare nuove forme di prosperità irreprensibile; e iniziare a esplorare e catalizzare quelle opportunità nei nostri contesti – le nostre case, i nostri luoghi di lavoro, i nostri spazi per il tempo libero – proprio ora.

 

Ciò vale per tutti, nella filantropia liberale e oltre.

Ringraziamenti: questa notizia è stata analizzata con l’aiuto di due fonti, a condizione di anonimato.

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Il Dr. Nafeez Ahmed è l’editore fondatore di INSURGE intelligence. Nafeez è giornalista investigativo da 16 anni, in origine del The Guardian per il quale faceva il cronista in materia della geopolitica delle crisi sociali, economiche e ambientali. Nafeez riferisce sul “cambiamento di sistema globale” per Motherboard di VICE e sulla geopolitica regionale per Middle East Eye. Firma articoli in The Independent on Sunday, The Independent, The Scotsman, Sydney MorningHerald, The Age, Foreign Policy, The Atlantic, Quartz, New York Observer, The New Statesman, Prospect, Le Monde diplomatique, e non solo lì. Ha vinto due volte il Project Censored Award per la sua copertura d’inchiesta; è stato inserito due volte nella classifica dell’Evening Standard dei 1.000 londinesi più influenti; e ha vinto il Premio Napoli, il più prestigioso premio letterario italiano, il quale è stato creato dal Presidente della Repubblica. Nafeez è anche un accademico interdisciplinare, ampiamente pubblicato e citato, che applica l’analisi di sistemi complessi all’impeto ambientale e politico.È VisitingResearchFellow presso il Global SustainabilityInstitute della Facoltà di Scienze e Tecnologia dell’AngliaRuskinUniversity.

 

Fonte: https://medium.com/

Link: https://medium.com/insurge-intelligence/exclusive-liberal-philanthropy-is-dooming-the-world-to-climate-disaster-68c3b53939e8

 

Note a cura del traduttore

                       

I sistemi e le tecnologie per aspirare l’anidride carbonica dall’aria non funzioneranno sulle enormi scale necessarie a fermare il cambiamento climatico, l’unica soluzione è il taglio delle emissioni. È categorico il giudizio degli esperti del Consiglio consultivo scientifico delle accademie europee (EASAC), sulle cosiddette “Net”, le tecnologie per le emissioni negative di cui si sente parlare sempre più spesso.

Dalla semplice piantagione di alberi alla filtrazione di CO2 dall’aria, le tecnologie che per alcuni possono essere la “pallottola d’argento” nell’arrestare il riscaldamento globale, rischiano paradossalmente di provocare enormi danni all’ambiente stesso e sono anche estremamente costose.

Fonte: www.ecodallecitta.it/notizie/388985/le-tecnologie-per-aspirare-co2-dallaria-non-sono-la-soluzione-contro-il-cambiamento-climatico/

                       

Per Circolazione termoalina (a volte detta anche Grande Nastro Trasportatore) si intende la componente della circolazione globale oceanica causata dalla variazione di densità delle masse d’acqua. La densità è determinata dalla temperatura (termo-) e dalla salinità (-alina) delle acque. Alle alte latitudini (sud-est della Groenlandia e pressi dell’Islanda) l’acqua sprofonda, sia per la bassa temperatura, sia per l’elevata salinità causata dalla formazione della banchisa. Muovendosi verso l’equatore l’acqua di fondo diminuisce la sua densità interagendo con le altre acque e tende a risalire, in particolare a sud dell’Oceano Indiano.

 

La risalita di acque profonde (upwelling) favorisce la produttività biologica in quanto provoca la risalita di nutrienti minerali. Uno degli scopritori della circolazione termoalina, grazie ai suoi studi sui traccianti in mare, fu Wallace S. Broecker. Le masse d’acqua coinvolte in questa circolazione trasportano sia energia (sotto forma di calore) che materiali (sostanze disciolte, gas e particelle insolute) con la conseguenza di influenzare significativamente sia il clima terrestre che la biologia marina.

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Circolazione_termoalina

                       

Budget del carbonio – È generalmente definito come la quantità massima di carbonio che gli esseri umani potrebbero emettere nell’atmosfera e mantenere comunque le temperature medie globali al di sotto di un aumento di 2 gradi Celsius. 

Fonte: https://blog.conservation.org/2017/09/what-on-earth-is-the-carbon-budget/

traduzione dell’Inglese all’Italiano

                       

L’Agenzia internazionale dell’energia (AIE, in lingua ingleseInternational Energy Agency, IEA) è un’organizzazione internazionale intergovernativa fondata nel 1974 dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) in seguito allo shock petrolifero dell’anno precedente.

 

Lo scopo dell’agenzia è quello di facilitare il coordinamento delle politiche energetiche dei paesi membri per assicurare la stabilità degli approvvigionamenti energetici (principalmente petrolio) al fine di sostenere la crescita economica.

 

Recentemente l’agenzia ha esteso il suo mandato verso la direzione dello sviluppo sostenibile, occupandosi anche di protezione dell’ambiente e cambiamenti climatici.

Essa ha assunto dunque un ruolo nel promuovere e sviluppare le fonti alternative di energia, razionalizzare le politiche energetiche e coordinare la ricerca multinazionale su nuove fonti di energia.

 

La AIE si occupa di tutti i settori energetici a eccezione dell’energia nucleare, dove si limita a compilare statistiche di bilancio generale, essendo questo settore delegato in particolare all’Agenzia per l’energia nucleare della stessa OCSE e inoltre all’Agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

 

La sede dell’agenzia è Parigi e il direttore esecutivo al 2015 è FatihBirol.

 Fonte: ttps://it.wikipedia.org/wiki/Agenzia_internazionale_dell%27energia

                       

Nell’ambito della ricerca scientifica la valutazione tra pari, riesame dei pari, o riesame paritario (meglio nota con il termine inglese di peer review) indica la procedura di selezione degli articoli o dei progetti di ricerca proposti da membri della comunità scientifica, effettuata attraverso una valutazione esperta da parte di specialisti del settore per verificarne l’idoneità alla pubblicazione scientifica su riviste specializzate (evitando errori, distorsioni o bias, plagi o vere e proprie bufale, frodi o truffe scientifiche) o, nel caso di progetti, al finanziamento degli stessi.

 

Gli editori e le agenzie di finanziamento usano dunque la tecnica di valutazione tra pari per selezionare le proposte ricevute. Questo processo costringe gli autori ad adeguarsi ai migliori livelli di qualità della loro disciplina, oppure ai requisiti specifici della rivista, o dell’agenzia finanziatrice. Pubblicazioni e progetti di ricerca che non siano stati soggetti a una revisione dei pari non sono generalmente considerati scientificamente validi dai ricercatori e dai professionisti del settore, se non dopo eventuali e accurate verifiche. La valutazione tra pari è nata assieme alla crescita e standardizzazione editoriale dei periodici scientifici, non è priva di difetti e di proposte di perfezionamento, ma nei fatti questo sistema è quello che ha maggiormente contribuito allo sviluppo della conoscenza scientifica, verificata attraverso un metodo scientifico, nella società moderna con l’affermarsi di un consenso scientifico nel tempo intorno alle varie tematiche di pari passo con le rispettive verifiche sperimentali.

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Revisione_paritaria

                       

La sensibilità climatica all’equilibrio (ESC), ovvero la variazione della temperatura globale terrestre al raddoppio della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, rappresenta uno dei punti più controversi del dibattito climatico. Le stime sono le più disparate e vanno da valori prossimi allo zero, fino a valori che sfiorano le due cifre. IPCC [Intergovernmental Panel on ClimateChange] nel suo ultimo rapporto ha stimato per la sensibilità climatica all’equilibrio un valore minimo di 1,5°C, riducendo di circa mezzo grado il valore indicato nel rapporto precedente, ed un valore massimo di 4,5°C.

Fonte: www.climatemonitor.it/?p=42454

                       

Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on ClimateChange – IPCC) è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale.

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_intergovernativo_sul_cambiamento_climatico

                       

La bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio(Bio-energy with carbon capture and storage– BECCS) è una potenziale tecnologia di mitigazione dei gas serra che produce emissioni di biossido di carbonio negative, combinando l’uso di bioenergia (energia da biomassa) con la cattura e lo stoccaggio del carbonio geologico. Il concetto di BECCS è tratto dall’integrazione di alberi e colture che, mentre crescono, estraggono l’anidride carbonica (CO2) dall’atmosfera, l’uso di questa biomassa nelle industrie di trasformazione o centrali elettriche e l’applicazione della cattura e dello stoccaggio del carbonio tramite apporto di CO2 in formazioni geologiche.

Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Bio-energy_with_carbon_capture_and_storage

Traduzione dall’Inglese all’Italiano

                       

L’albedo (dal latino alb?do, “bianchezza”, da albus, “bianco”) di una superficie è la frazione di luce o, più in generale, di radiazione incidente che è riflessa in tutte le direzioni. Essa indica dunque il potere riflettente di una superficie. L’esatto valore della frazione dipende, per lo stesso materiale, dalla lunghezza d’onda della radiazione considerata.

 

L’albedo massima è 1, quando tutta la luce incidente viene riflessa. L’albedo minima è 0, quando nessuna frazione della luce viene riflessa. In termini di luce visibile, il primo caso è quello di un oggetto perfettamente bianco, l’altro di un oggetto perfettamente nero. Valori intermedi significano situazioni intermedie.

 Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Albedo

                       

Capacità installata – potenza sostenuta a pieno carico prevista di un impianto come una centrale elettrica, un impianto chimico, un impianto di produzione di carburante, una raffineria di metalli, una miniera e molti altri.

Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Nameplate_capacity

Traduzione dall’Inglese all’Italiano

                       

Il ritorno energetico sull’investimento energetico, più noto con la sigla EROEI (o EROI), acronimi dell’inglese Energy Returned On Energy Invested (o Energy Return On Investment), ovvero energia ricavata su energia consumata, è un coefficiente che, riferito a una data fonte di energia, ne indica la sua convenienza in termini di resa energetica. Qualsiasi fonte di energia costa una certa quantità di energia investita, da considerarsi come congelata nella fonte di energia stessa (per la costruzione e il mantenimento degli impianti), quantità che l’EROEI cerca di valutare.

 

Da un punto di vista matematico, è il rapporto tra l’energia ricavata e tutta l’energia spesa per arrivare al suo ottenimento. Ne risulta che una fonte energetica con un EROEI inferiore ad 1 è in perdita da un punto di vista energetico. Fonti energetiche che presentano un EROEI minore di 1 non possono essere considerate fonti primarie di energia poiché il loro sfruttamento impiega più energia di quanta se ne ricavi. L’EROEI si rivela un parametro fondamentale per operare scelte strategiche di politica energetica, valutando e comparando l’approvvigionamento fra diverse fonti energetiche.

 

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