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09/04/2018

 

Economia mondiale in crisi. La fine di un'epoca (in quattro parti)

di Maurizio d'Orlando

 

Prima parte

Analisi e commenti parlano di un’economia in ripresa. Ma è solo apparenza (e forse falsità): la “ripresa” è soltanto frutto di emissioni monetarie da parte di tutte le banche centrali del mondo. In realtà molti si aspettano lo scoppio di un’enorme bolla speculativa, mentre l’economia reale rimane umiliata. Siamo alla vigilia del cambiamento di un’epoca che potrebbe travolgere i governi in occidente e in oriente. Dal nostro esperto di economia politica. La prima di quattro parti.

 

Un mio caro amico, il direttore di AsiaNews, da tempo si chiede: “Possibile che chi sin dal 2005, quando cioè ancora nessuno avanzava sospetti o suggeriva cautele, ha previsto – grazie, direttore – la profonda successiva crisi del 2008, non abbia invece oggi alcunché da dire?”.

Il direttore insiste per avere un parere alternativo. Avrà un parere molto alternativo.

Chi scrive, infatti, da tempo ha smesso di guardare gli indici economici mondiali, il Pil, il tasso d’inflazione reale, il mercato dei cambi, l’andamento dei tassi d’interesse, gli indici azionari ed obbligazionari, i livelli della produzione manifatturiera, dell’edilizia, dell’occupazione e della disoccupazione, gli andamenti di mercato delle materie prime e dei metalli preziosi. A maggior ragione s’è tenuto alla larga da analisi e commenti di economia politica. Non si tratta di un capriccio, ma di un disaccordo profondo su come vengono riportati (o, meglio, falsati) i dati e gli indicatori economici e di un ripudio totale, ragionato e di base, del pensiero e delle dottrine economiche prevalenti, su cui le analisi ed i commenti economici si fondano.

 

L’economia mondiale sta bene. Sarà vero?

Il largo consenso tra i commentatori economici è che l’economia mondiale, almeno per tutto il 2018 e 2019, sia in generale in una fase di ripresa e l’attenzione è piuttosto sugli effetti del neo-protezionismo americano del presidente Trump. Al più qualche incertezza riguarda gli indici di borsa.

Il Dow Jones, l’indice primario della Borsa americana, agli inizi del 2009 era sceso a circa al livello di 7'000. In quattro anni era raddoppiato recuperando tutte le perdite dal 2007. Poi è salito in cinque anni da 14'000 a 26'600. In quest’ultimo periodo è poi ridisceso ed ora si colloca attorno a 23'500. Un simile andamento sostanzialmente si riscontra anche per altri parametri di borsa. Si tratta di inevitabili piccole correzioni di indici che hanno corso senza sosta ed ora “tirano un po’ il fiato”? Oppure si tratta dei primi segnali di cedimento che preannunciano una grande correzione simile a quella dell’autunno 2008? Ovviamente le seguenti considerazioni non sono finalizzata a fornire su questo sito un orientamento per investimenti finanziari ma a capire se vi siano dei presagi di una nuova grande crisi economica.

Nel commentare queste oscillazioni, uno degli economisti asiatici più pessimisti, che mi sono stati segnalati, Andy Xie, afferma (correttamente) che quello attuale non è che un moderato ristorno delle quotazioni, non un crollo. “Il mercato azionario è immerso in un’enorme bolla (speculativa), più ancora che nel 2007, nel 2000, o il 1929, a causa di una politica monetaria ultra accomodante che è stata adottata per un decennio”. Educatamente Andy Xie si riferisce al diluvio quotidiano di emissione monetaria attuata in tutto il mondo da tutte le banche centrali a partire dal 2009. “La vera esplosione ci sarà ma probabilmente non nel 2018”. Dunque, secondo questo filone di pensiero, una crisi sta maturando, la bolla finirà per esplodere, ma sarà salutare e riporterà ordine e logica nel sistema, e dopo la grande tempesta tornerà infine la normalità. 

Per chi scrive anche Andy Xie – e quelli che la pensano come lui – è dunque un normalista sistemico, pessimista nel breve ma ottimista nel lungo periodo. Il principio che sta alla base di questa visione non è nuovo, è molto umano ed esprime la ciclicità delle vicende mondane. È Giambattista Vico rivisitato ed immanentismo. È la visione di molti che per le previsioni economiche si affidano ai grafici, i “chartisti”[1] . Lungi da me – anche per una serie di questioni personali che mi hanno marcato profondamente (mio nonno perse tutto nella crisi del ’29) – sminuire il valore di queste analisi, perché sono in larga misura corrette. Anche questo pessimismo è, però, riduttivo e si basa su un assunto non dimostrato: la supposta circolarità della storia e, quindi, anche dell’economia.

 

Emissioni monetarie all’infinito

Chiariamolo subito: la fede sulla linearità del progresso e dell’espansione economica e dei listini azionari è forse ben più pericolosa dello strologare complesso ed un po’ alchemico dei “chartisti”. Pensare che la QE, l’accomodamento economico – eufemismo per indicare un’emissione monetaria smisurata volta a salvare le borse e le banche, non l’economia reale – il “miracolo” (che miracolo non è stato affatto) possa continuare all’infinito non lo crede più nessuno, nemmeno le banche centrali, la Fed americana, la BCE europea, la britannica BoE, la BoJ giapponese, la PBC cinese, la BNS svizzera. Sono talmente ingolfate di titoli tossici, hanno talmente dilatato i propri bilanci con carta straccia che, pur essendo “costrette” per dovere d’ufficio a parlare con “lingua biforcuta” nelle conferenze stampa che il politicamente corretto della “trasparenza” – altra putrefatta falsità – impone, sanno bene che di altra QE si può solo morire ed anche più in fretta del dovuto. A credere ancora nella QE e nella linearità del progresso dei listini e dei mercati monetari non sono rimasti che una pattuglia di “esperti”, sempre i soliti, usati per mantenere viva la narrativa dell’ottimismo. In gran parte si tratta di “fedeli” di economisti militanti del QE all’infinito, costi quel che costi[2] , tipo i premi Nobel Paul Krugman e Joihn Stiglitz. Come i soldati dell’esercito imperiale giapponese che a trent’anni dalla fine della guerra si nascondevano nella giungla per evitare il disonore della resa, così anche gli ultimi keynesiani della spesa allegra, questi riveriti “commentatori” si rifiutano di arrendersi all’evidenza, sopravvivendo alla meno peggio nel sottobosco di qualche redazione economica e “progressista”. Per loro non c’è niente da fare, si tratta di una fede laica, continuano e continueranno sempre a crederci. Se si prende la crescita reale dell’economia, depurata cioè dell’inflazione correttamente valutata, è stata negativa almeno dal 2004 /2005[3] . In tale epoca con diversi articoli su AsiaNews chi scrive metteva in guardia che una grave crisi era in arrivo. Viceversa la quasi totalità dei commentatori, sulle pagine della grande stampa e dalle reti televisive, rabboniva l’opinione pubblica che era arrivata l’epoca dello sviluppo senza fine. È arrivata poi la crisi del 2007/2008, (quella che hanno detto è stata innescata dal fallimento della Lehman Brothers). Dopo un picco negativo del Pil a – 6% nel 2009 la crescita si è stabilizzata attorno al – 2 % annuo fino ad oggi. Anche se prendiamo i dati ufficiali (resi opportunamente più “rosei” del reale), dal culmine della crisi ad ora la crescita economica è rimasta molto contenuta negli USA (mentre in alcuni paesi come l’Italia è stata addirittura inesistente). Di fatto la QE a suon di centinaia di migliaia di miliardi non è servita solo a dare una ripresa dei mercati monetari e di borsa. La ripresa dal fondo della crisi è pura apparenza e mai come prima lo scollamento tra indici di borsa ed economia reale è stato così grande, grazie appunto alla QE infinita.

 

La BCE ha salvato (solo) le banche

La realtà, però, prima o poi, alla fine viene a galla ed a quel punto c’è solo da chiedersi quali ghiribizzi e sofismi verranno estratti dal cilindro degli illusionisti economici. Si prenda ad esempio la BNS, bastione keynesiano. Ha fatto addirittura cambiare la Costituzione Federale elvetica ed ha svenduto l’oro accumulato da generazioni di diligenti lavoratori svizzeri per comprare titoli azionari americani ed obbligazioni di ogni genere. È noto infatti che Keynes considerava l’oro come un relitto barbarico. Povera, piccola Svizzera, ultimo rifugio della civiltà europea durante due atroci guerre mondiali, sarai smembrata, non servi più nemmeno come cassaforte del continente. Quando i mercati azionari ed obbligazionari crolleranno, quando scoprirai quello che veramente c’è dietro la banconota da 100 franchi, che cosa ti racconterà quella masnada di briganti che ti tiene in pugno e ti fa marciare ordinatamente, come un orologio?

Nessuno, però si consoli pensando che altrove sia diverso, perché quello della BNS è solo un esempio, dappertutto è così. Se si volesse essere equanimi ci sarebbe tanto altro da ricordare.

Dovremmo infatti almeno accennare al paradossale e sin ridicolo rapporto, al 250 %, in Giappone, tra Pil e debito pubblico. Che sia tutto – o quasi – in mano a creditori interni giapponesi, poco importa, è un debito insostenibile, che mai sarà pagato.

Dovremmo anche dire – e qui il discorso diventerebbe molto lungo – del dirigismo e dello squilibrio economico strutturale dell’Unione Sovietica Europea, il Quarto Reich modellato sulle esigenze dell’economia tedesca, ma finiremmo poi inevitabilmente in un capitolo politico. Non potremmo, infatti, evitare di far riferimento alle scelte economiche della BCE e della Commissione Europea, che insieme formano un complesso di governo “illuminato” (il lettore vi legga ciò che vuole) ma privo di sovranità legittima. Altrimenti non si potrebbe spiegare perché da un lato sono state impiegate cifre colossali per salvare le banche, mentre dall’altro lato non si è fatto che opprimere di fatto i popoli del continente.

(Fine prima parte)


Note

[1]  Vedi ad esempio: Zerohedge, 03/02/2018, Similarities to 1929, 1987, 2000 & 2007 in play says Joe Friday

 

[2]  È la politica del “whatever it takes” di accomodamento quantitativo, QE, annunciata da Mario Draghi il 26 luglio 2012, ma già attuata dalla Fed di Bernanke a partire dall’autunno 2008.

[3]  Vedi http://www.shadowstats.com/alternate_data/gross-domestic-product-charts

 


 

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10/04/2018

 

Il paradosso Usa: una superpotenza piena di debiti e con la voglia di guerra

di Maurizio d'Orlando

 

Seconda parte

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Usa si sono imposti per la superiorità quantitativa della propria base produttiva interna, sia agricola che manifatturiera. Il dollaro come moneta di scambio mondiale ha gonfiato l’economia solo coi consumi, e ora si rischia l’insolvenza. In attivo solo l’industria bellica. Una crisi anche umana, delle scuole e delle università. Dal nostro esperto di economia politica. La seconda di quattro parti.

 

Dovremmo poi dire del paradosso USA, ma un semplice accenno purtroppo non è sufficiente. La sua base produttiva – possente e l’unica intatta dopo la 2a Guerra mondiale – è ormai talmente (ed intenzionalmente) delocalizzata al punto che il suo Pil è per il 70% costituito dai consumi, grazie alla possibilità di emettere dollari a volontà e proprio questo è il paradosso. Gli USA hanno vinto due guerre mondiali ed hanno vinto il confronto con il blocco comunista, non perché erano superiori tecnologicamente (i brevetti industriali tedeschi e l’industria bellica furono senza dubbio all’avanguardia sia nel 1o che nel 2° conflitto mondiale) o militarmente (i generali americani – tranne Patton –  furono poco più che mediocri ed altrettanto si può dire del corpo ufficiali e della truppa) e nemmeno  ideologicamente (i partiti comunisti hanno avuto una presa ineguagliata sulla società civile in tutto il mondo, il sistema sovietico implose per le sue enormi falle nel sistema produttivo). L’America storicamente s’è imposta invece come potenza anche militare grazie alla superiorità quantitativa della propria base produttiva interna, sia agricola che manifatturiera che alla disponibilità di risorse energetiche e minerarie sul suo territorio. A tal punto si è generata una spirale ascendente di concomitanze positive sinergiche. La supremazia economica e militare ha conferito poi all’America il ruolo di guida anche politica, anche se in un primo momento solo dell’Occidente.

 

Il dollaro moneta mondiale

Per conseguenza, la sua valuta, il dollaro, è diventata quella di riferimento dei mercati occidentali, seppure da quasi 50 anni, dal 1971, non sia più nemmeno convertibile in oro. In successive tappe, in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli USA, unica superpotenza mondiale rimasta, hanno conseguito anche il predominio mondiale monetario e finanziario. Tale infatti è stata ed è la potenza americana, che l’oro, per millenni cardine dei pagamenti internazionali, ha finito per essere completamente inutilizzato come strumento valutario, del tutto spodestato dal dollaro. È così che gli USA sono arrivati a beneficiare di una rendita senza precedenti storici. Poiché il dollaro è la moneta interna americana ma è anche valuta universalmente accettata, gli USA possono ottenere beni reali e servizi dal resto del mondo semplicemente emettendo la propria moneta senza dover dar altro in cambio. Fin quando, dunque, il resto del mondo continua ad utilizzare dollari ed a comprare i Treasury bond – cioè ad utilizzare il debito del governo federale al posto dell’oro o di un’altra moneta per saldare i pagamenti reciproci – il perenne deficit commerciale americano con l’estero non è più un problema, è irrilevante. Svalutare e rendere più conveniente produrre di più internamente per esportare di più – quello che devono fare gli altri Paesi per riportare in pareggio la bilancia commerciale – non è perciò necessario agli USA. In tal modo svanisce anche il rischio o meglio la certezza di provocare inflazione interna che il ricorso ad una svalutazione valutaria ovviamente comporta. Ora, però, siamo ad un punto di svolta, l’elastico è stato teso troppo e troppo a lungo, così da innestare una spirale discendente. La globalizzazione, infatti, ha fatto letteralmente evaporare la base produttiva americana e di fatto, la sola industria totalmente rimasta sul suolo americano (a buon ragione dal punto di vista strategico), è quella del complesso militare industriale[1]. In tal modo, però, vengono a svanire anche le premesse della supremazia statunitense e quindi del dollaro e quindi della relativa rendita. Questo è il paradosso americano e non si capisce bene per quale ragione gli USA debbano essere ancora beneficiari di tale rendita. Per quale ragione gli USA possono consumare senza dover produrre, mantenere cioè una così elevata proporzione dei consumi rispetto al Pil, al pari di Paesi poverissimi che sopravvivono in gran parte grazie agli aiuti umanitari?

 

Il gendarme del mondo?

L’unica ragione che potrebbe forse spiegare il paradosso americano potrebbe essere che il resto del mondo per debolezze strutturali interne implicitamente riconosca agli USA un ruolo di gendarme mondiale. La rendita valutaria, una sorta di signoraggio globale, sarebbe dunque la remunerazione per questo ruolo di polizia del pianeta. È così? Forse, ma non è sicuro che ci sia l’accordo esplicito di tutti. Tuttavia, anche supponendo per un attimo che sia così, mantenere una presenza militare dominante in tutto il mondo ha dei costi enormi. Gli USA, come s’è detto, già non dispongono più di sufficienti risorse produttive interne. A maggior ragione non possono per far fronte ai costi di mantenimento di questo “Imperium” in continua crescita. Si dovrebbero quindi ipotizzare dei disavanzi commerciali statunitensi sempre crescenti. Fino a quando ciò sarà accettabile per il resto del mondo prima di arrivare ad un palese stato di insolvenza, cioè ad un punto di rottura? Se il gendarme chiede l’aumento chi ne decide la paga? In ogni caso, accantonando per un attimo il quesito, se la globalizzazione è certamente la scelta preferita dall’apparato statale USA, il “deep state”, la scelta degli elettori americani con l’elezione di Trump, il protezionismo, è stata del tutto diversa. È questa dunque la soluzione del paradosso? In secondo luogo è possibile riportare l’industria in America? Si noti in primo luogo che il neo-protezionismo americano, non è un vincolo esterno ma una scelta determinata da esigenze elettorali interne e forse da esigenze strategico-militari. È un’autolimitazione della rendita che non risolve affatto le premesse da cui scaturisce il paradosso – il duplice ruolo del dollaro, moneta nazionale e valuta internazionale. In secondo luogo, il ricorso alla guerra dei dazi per riportare in patria oggi il settore manifatturiero, al di là del problema delle ritorsioni, potrà avere una valenza forse nel lungo periodo. Senza altri elementi, questa scelta potrebbe però rivelarsi come ormai tardiva ed inutile. Il Paese ha infatti perso in primo luogo la cultura ed il tessuto industriale e sembra orientato solo a fare finanza (anche se giocare in borsa non significa davvero fare finanza). Soprattutto, però, sprofonda nella crisi della disponibilità interna di manodopera industriale produttiva adeguata e qualificata. Le ragioni sono diverse: il basso livello qualitativo delle scuole (secondarie in particolare), la crisi degli oppioidi (liberamente e scriteriatamente prescritti come antidolorifici), la crisi sociale (con l’alto costo delle famiglie “liquide” tra convivenze e divorzi seriali, l’obesità dilagante[2] ed i seri disturbi dell’alimentazione, le gravidanze adolescenziali, la diffusa pornografia invalidante compulsiva)[3].  Perfino le università, un tempo motore dell’innovazione e fiore all’occhiello dell’eccellenza americana, sperimentano una sorta di guerra civile, per ora di bassa intensità, con le safe spaces, le aree del politicamente corretto e con i relativi controlli ideologici. Ne risente in tal modo la qualità della formazione universitaria, costosa e sempre meno qualificante, anche qui con importanti ricadute sulla disponibilità di laureati per impieghi di alto livello. Ricostruire la perduta base produttiva interna non sarà né facile né immediato. Quale che sia l’esito della partita che si gioca a Washington tra protezionismo e globalismo, è però evidente che lo squilibrio strutturale del paradosso americano – “Imperium” senza base produttiva ed un’economia basata sui consumi – nel breve termine permane ed anzi si aggrava.

(Fine della seconda parte)


Note

[1] Sulla qualità ed efficienza del complesso militare industriale americano, un settore piagato da corruzione, sprechi ed inefficienze, tipiche di settori che vivono di appalti statali e godono di un monopolio non scalfibile, ci sarebbe molto da dire.

[2] https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2676543 il 40 % degli adulti è classificato come obeso con un indice di massa corporea superiore a 30.

[3] Altre due gravi emergenze sono in primo luogo l’alto costo, in relazione al PIL, delle cure mediche – di qualità media rispetto agli standard di altri paesi avanzati – ed il problema delle relative coperture assicurative, da cui deriva anche il fallimento economico dell’Obamacare. In secondo luogo, ma problema molto serio nel lungo periodo, vi è il problema pensionistico, privo di adeguate coperture per i diritti futuri maturati, una bomba ad orologeria che però è comune a quasi tutti i paesi avanzati. Tuttavia questi sono fattori che solo indirettamente influiscono nell’immediato sulla ricostituzione della base produttiva interna americana.  


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11/04/2018

 

Lo squilibrio cinese, fra eccedenze valutarie e manipolazione dello yuan

di Maurizio d'Orlando

 

Terza parte

Il gigante cinese è segnato da una enorme base produttiva, ma trainata solo dalle esportazioni. La frode dei cambi e i progetti corrotti. La Cina ha paura di cambiare il modello di sviluppo per timore di rivoluzioni sociali. I problemi della Russia, dell’India, dell’America latina. Nessuna speranza per una crescita dell’economia reale. Dal nostro esperto di economia politica. La terza di quattro parti.

 

Per equità, [dopo aver parlato del paradosso Usa – ndr] bisognerebbe accennare allo speculare paradosso e squilibrio cinese. Un’economia trainata unicamente dalle esportazioni con un’espansione senza precedenti della base produttiva e l’accumulo di eccedenze valutarie sono le sue simmetriche e contrapposte caratteristiche. Come quello americano anche il paradosso cinese non è più ulteriormente sostenibile. Il fenomenale sviluppo economico degli ultimi 20 anni poggia su un’incongruenza non sanabile. Da tempo è noto infatti che la crescita cinese si è basata tutta sulla frode dei cambi (sottovalutati fino al 30 / 40% rispetto alla parità di poter d’acquisto); sul trasferimento coatto di tecnologia – o sul furto puro e semplice (di proprietà intellettuale) – ; sulla compressione dei consumi interni ed infine sull’impiego delle eccedenze valutarie per consentire al Partito comunista al potere di mantenere il controllo politico e sociale in Cina. Il lato oscuro ed inquietante è proprio questo: la rapina sistematica del risparmio, operata da banche e finanziarie per sostenere imprese statali o para-statali inefficienti ed insolventi o per finanziare progetti ed infrastrutture utili solo ai dirigenti politici locali per fini clientelari.

 

I timori della Cina

A tutto ciò oggi, dopo 10 anni di crescita reale piatta a livello mondiale, al controsenso di una base industriale ipertrofica tutta orientata all’esportazione, si deve aggiungere un’ulteriore contraddizione. La QE cinese, infatti, è stata impegnata ancora in nuovi impianti industriali, con enormi e costosissimi eccessi di capacità produttiva sotto utilizzata. Infine proprio in questi giorni dobbiamo osservare come una dirigenza corrotta, formata dai quadri del Partito comunista, si è resa inamovibile con diritto a guidare il Paese a vita, o meglio all’infinito. Come negli USA, anche in Cina le esigenze politiche interne sono preminenti rispetto alla soluzione delle contraddizioni economiche interne al sistema. La Cina non può rinunciare ad accumulare eccedenze valutarie o mediante una forte rivalutazione del cambio dello yuan rispetto al dollaro o mediante l’accettazione di dazi protezionistici che fermino il flusso straripante delle sue esportazioni. Significherebbe il fallimento di interi settori industriali che producono solo per l’esportazione con licenziamenti di massa e concreti rischi di sommosse e di un rovesciamento del regime. Anche il paradosso cinese, speculare a quello americano, è crescente e sempre più insostenibile. D’altronde, come si può davvero pensare che un’economia parassitaria di idee come quella cinese, in un Paese con un regime dittatoriale, con una manodopera in larga parte poco al disopra del livello della schiavitù, possa fare da traino alla ripresa di un reale sviluppo economico mondiale?

 

E poi c’è Russia e India

Abbiamo accennato alle tre maggiori aree economiche del pianeta. Sempre per equità dovremmo dire qualcosa – solo due righe – delle altre aree del mondo. Si pensi alla Russia, alle prese con una complessa ristrutturazione del settore bancario, un Paese che è ancora controllato da un ristretto ceto formato dagli eredi dei cekisti bolscevichi, dove l’unica industria che sforna prodotti con un buon rapporto qualità prezzo è quella degli armamenti e per il resto riesce solo ad esportare materie prime e soprattutto idrocarburi, gas naturale in primo luogo.

 

Si pensi all’India del suprematismo induista, con il problema delle infrastrutture fatiscenti ed insufficienti – spesso risalenti ancora all’epoca coloniale inglese – schiacciata dalla burocrazia soffocante e dall’annoso problema delle caste ed in cui il governo Modi sta scivolando verso un regime dittatoriale. Ha fatto ridere tutto il mondo pensando di risolvere il problema della corruzione ritirando dalla circolazione le banconote con un controvalore di circa 7 dollari.

 

Si pensi ancora all’Africa, un continente potenzialmente molto ricco, incatenato da un feroce razzismo intertribale che tutto distorce e tutto corrompe, dove la corruzione non solo è sistemica ma è codificata secondo le varie appartenenze etniche e la crescita economica rimane contenuta nonostante una dinamica demografica fortissima.

Si pensi all’America Latina, soggiogata dalle mafie politiche o indigeniste o massoniche o “deutero-comuniste” o semplicemente criminali, che continua a non riuscire ad ingranare un autentico decollo economico endogeno.

 

Si pensi al Nord Africa paralizzato anche economicamente dall’islamismo, o ad Israele che da decenni e decenni senza l’aiuto economico americano non potrebbe sopravvivere. Si pensi al ducetto anatolico che con l’economia in bancarotta e con le forze armate decapitate dalle purghe integraliste si lancia spensierato in guerre di conquista neo-ottomane. Si pensi infine alle tante altre aree sconvolte dai conflitti, dove nemmeno si può ragionare di economia. Da quale parte del mondo può venire una speranza di crescita economica reale in grado di trainare il resto del pianeta?  

(Fine terza parte)


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12/04/2018

 

Un mondo pieno di debiti, produrrà crisi economiche e politiche (IV)

di Maurizio d'Orlando

 

Quarta parte

A fine 2017, a livello mondiale il debito totale è stato di 233 mila miliardi di dollari, pari al 318% del Pil mondiale. La valanga di moneta messa in circolazione dalle banche centrali ha salvato le banche, ma non l’economia reale. Si è giunti alla soglia di credibilità del sistema monetario e finanziario. Siamo alla vigilia della fine di un’epoca. Dal nostro esperto di economia politica. La quarta parte di quattro.

 

La QE [quantitative easing, l’allentamento monetario, con cui le banche centrali intervengono per aumentare la moneta in circolazione – ndr] aveva due obiettivi di cui uno esplicito: doveva sconfiggere la crisi finanziaria del 2008 e per questo intento è stato uno straordinario successo. Le banche e le finanziarie sono state salvate e gli indici di borsa prima hanno recuperato tutte le perdite, poi hanno ampiamente guadagnato. Il Dow Jones dai minimi del 2009 è risalito del 270 %, dai massimi del 2007 è cresciuto dell’85%.

Il secondo scopo della QE era politico. Doveva evitare quanto era successo dopo la crisi del ’29 e cioè che la crisi finanziaria conducesse ad una crisi sociale con svolte politiche autoritarie. L’ovvio riferimento è alla presa del potere da parte del partito nazionalsocialista in Germania nel ’33.  In effetti, questi nove anni di QE hanno profondamente cambiato la società ed i costumi, con grandi trionfi per l’ideologia progressista e “liberal” che da sempre e per nascita ha un forte nesso con l’ideologia keynesiana del QE. Alla base c’è l’idea ottimistica che sia possibile uno sviluppo lineare per l’umanità, un futuro di progresso senza limiti e senza cadute e senza regressi, basta emettere moneta. Questo ottimismo non è nuovo nella storia. Nei secoli scorsi, a partire dai prodromi della Rivoluzione Francese, il mondo aveva già conosciuto altre ideologie ottimistiche per l’umanità nella loro fase iniziale, come ad esempio illuminismo, razionalismo, idealismo, positivismo, marxismo, superomismo, storicismo, futurismo. Sono state le ideologie, le false fedi, dei secoli passati che hanno accompagnato le fasi apollinee, esuberanti ed ottimiste, di crescita economica e sociale. Tutte queste fedi, che hanno avuto centinaia e centinaia di milioni di veri credenti, sono però crollate, spazzate via nelle fasi dionisiache e distruttive della disillusione, succedute alle fasi di crescita.

 

Così sarà dell’attuale fede nella QE e nel potere taumaturgico dei controllori dell’emissione monetaria, le banche centrali. Nove anni di QE senza limiti, ultra-keynesiana, non hanno infatti risolto alcunché dal punto di vista della crescita dell’economia reale. Anche accettando i dati ufficiali sull’inflazione – cosa davvero dura in particolare per i dati cinesi, ma è vero anche per i Paesi occidentali – e quindi sulla crescita reale del Pil al netto dell’inflazione, siamo di fronte a tassi di sviluppo economico veramente asfittici, con incrementi annui negli USA attorno al 2%. Non trova dunque giustificazione la ripresa degli indici di borsa. Che importa, quindi, discettare se l’indice perde un po’ di punti, come dice uno o se, invece, ne dovrebbe perdere di più, magari anche molti di più, come dice un altro? Per riallinearsi con la crescita del Pil il Dow Jones, infatti, dovrebbe più che dimezzarsi, al netto dell’inflazione e sarebbe un tracollo, con effetti molto forti sull’economia reale.

 

Quella che si sta preparando non è però una crisi come quelle precedenti del 2007, del 2000, o anche quella rimasta nell’immaginario storico come l’archetipo di tutte le crisi di borsa, la crisi del 1929. La crisi che verrà, non sarà solo una crisi disastrosa, ma anche politica e soprattutto una singolarità epocale. In un universo razionale e meccanico il Dow Jones , infatti, non sarebbe dovuto salire del 270 % rispetto al febbraio 2009, come invece è stato. Il punto è che l’economia non è solo meccanica dei bilanci e della contrattualistica sociale, ma anche riflesso del comportamento umano, delle aspettative, della psicologia del pubblico, delle dottrine economiche, politiche e sociali. Pertanto se gli indici di borsa hanno potuto avere la rimonta di cui s’è detto è perché finora non è venuta meno la fiducia nella moneta bancaria garantita dalla sorveglianza e dalla liquidità fornita delle banche centrali. È stato l’effetto di più di mezzo secolo di incontrastato prevalere delle dottrine economiche keynesiane a partire dal 1960, con la presidenza Kennedy. Da allora data l’abbandono del principio stesso del pareggio annuale di bilancio per i conti dello Stato, postulato dall’economia classica, e l’inizio della spesa pubblica in costante deficit, anche quando non vi erano urgenti e momentanee necessità belliche. È stata poi la volta delle dottrine neo-keynesiane volte a stimolare la crescita con l’espansione del credito alle famiglie ed alle imprese private non finanziarie. Infine, in questi ultimi anni, con gli ultra-keynesiani, c’è stato il sostegno al sistema bancario e finanziario che ha gonfiato di titoli tossici i bilanci delle banche centrali, a loro volta contro-garantite dai governi. In tal modo negli USA ed in molti altri Paesi, il debito pubblico ha già superato una ben nota soglia critica che, per i Paesi sviluppati, si situa tra 80%  e 90% del Pil[1] . Il dato più preoccupante è però quello dell’indebitamento totale, cioè la somma del debito pubblico, del debito delle famiglie, delle imprese private non finanziarie e di quello di banche ed imprese finanziarie. Alla fine dello scorso anno, secondo una ricerca del “Institute of International Finance”, a livello mondiale il debito totale è stato di 233 mila miliardi di dollari, pari al 318 % del Pil mondiale. Era il 217% nel 1997 ed il 278% nel 2007. In 20 anni la progressione è stata in media del 5,05% annuo. Non solo dunque il debito pubblico del pianeta non potrà mai essere ripagato. Gli altri tipi di debito hanno soglie di sostenibilità inferiori, come è logico, e dunque il problema riguarda tutto il comparto del credito e dunque la “ricchezza” espressa in valori finanziari. Con questi dati, con l’enorme divergenza tra indici di borsa e Pil, con la bomba ad orologeria dei derivati finanziari, che non è ancora stata disinnescata, con l’emissione monetaria senza limiti attuata soprattutto in questi ultimi 10 anni, con la dilatazione patologica dei bilanci delle banche centrali ci si sta avvicinando ad una soglia di credibilità del sistema monetario e finanziario. Siamo al momento in cui Fonzie salta lo squalo[2] , quando le spacconate non sono più credibili ed accettate. Lo si può capire da alcuni scricchiolii, come ad esempio il fermento sulle cripto-valute. Pur con tutte le riserve più che legittime su di esse, le cripto-valute sono l’espressione di una forte inquietudine nei confronti della moneta emessa dalle banche commerciali e regolata dalle banche centrali. Chi scrive pensa dunque che un evento, probabilmente esogeno all’economia, una guerra o una catastrofe naturale, farà da catalizzatore ad una singolarità storica, una crisi senza precedenti. Quando ciò avverrà chi scrive non è in grado di dirlo. Potrebbe anche risultare vero, come molti analisti predicono, che il 2018 ed il 2019 saranno anni di crescita economica. Siamo, però, pensa che scrive, alla vigilia della fine di un’epoca, come il 1789 che marcò la fine delle monarchie. Presto a finire saranno forse le repubbliche.

(Fine quarta parte)

 


note

[1]  Per i Paesi in via di sviluppo la soglia tecnica è inferiore, intorno al 40 – 50% del PIL.

[2]  Il riferimento è famoso nel mondo dello spettacolo. La serie televisiva “Happy Days”, molto popolare a cavallo tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta.

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