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May 2, 2018

 

Vertice a tre Cina, Giappone, Corea del Sud

 

Vertice trilaterale Cina-Giappone-Corea del Sud

 

La prossima settimana si terrà a Tokyo un vertice trilaterale tra Pechino, Tokyo e Seul. Il summit che coinvolgerà il prossimo 9 maggio il primo ministro nipponico Shinzo Abe, il suo omologo cinese Li Keqiang e il presidente sudcoreano Moon Jae-in si concentrerà sulla situazione in Corea del Nord. La scorsa settimana, nel corso di un vertice storico tra le due Coree, Moon e il leader nordcoreano Kim Jong-un hanno trovato un accordo su una serie di misure tese alla riconciliazione tra i rispettivi paesi e alla denuclearizzazione della penisola. Nel giro di alcune settimane è previsto anche un incontro tra Kim e il presidente Usa Donald Trump. Dal 2008 il trilaterale si tiene su base quasi regolare: le tre potenze asiatiche sono strettamente legate da scambi economici ma divise su questioni storiche legate al passato coloniale giapponese. Potrebbero inoltre nascere divisioni sulla Corea del Nord: la Cina è l’unico alleato del “Regno eremita”.

 

Seul vuole che i militari Usa restino, anche in caso di pace con Pyongyang

La Corea del Sud vuole che i soldati Usa restino nel paese, che ci sia o meno un accordo duraturo di pace con la Corea del Nord. Questo almeno è quanto dichiarato dal governo di Seul pochi giorni dopo lo storico incontro tra il presidente Moon Jae-in e Kim Jong-un a Panmunjom, un villaggio frontaliero sul 38esimo parallelo. La questione della permanenza in territorio sudcoreano dei militari americani, infatti, riguarda l’alleanza tra Seul e Washington e questa è destinata a non essere influenzata dagli accordi di pace con il vicino nordcoreano. Inoltre le truppe Usa offrirebbero mediazione in caso di conflitto tra le principali potenze regionali, ovvero Cina e Giappone. La cosa potrebbe naturalmente irritare Pyongyang che in passato ha chiesto il ritiro delle truppe Usa dalla penisola. Sono oltre 28mila i soldati americani qui di stanza.

 


Il Fatto quotidiano online

Apr 30, 2018

 

I calcoli di Kim

 

Dalle minacce missilistiche e nucleari alla stretta di mano con Seul sotto i riflettori: un cambio di passo attraverso cui il leader della Corea del Nord spera di portare a casa una inedita posizione di forza.

 

“Un nuovo inizio, un’era di pace”. Il messaggio lasciato da Kim Jong-un sul libro degli ospiti nella Casa della Pace, sul lato sud della zona demilitarizzata, riassume al meglio lo spirito con cui venerdì si è svolto lo storico vertice intercoreano. Il terzo in ordine di tempo ma il primo ad essere ospitato dal Sud sotto l’occhio vigile della stampa internazionale. Il regno Eremita si apre simbolicamente al mondo lasciando le telecamere seguire passo passo il leader nordcoreano, una figura fin’oggi ammantata di mistero e cliché. Le ripetute provocazioni missilistiche dell’ultimo anno sono soltanto un ricordo lontano. Oggi è tempo di sorrisi e strette di mano. Ma sul futuro non v’è certezza.

La dichiarazione congiunta siglata dalle due parti al termine dell’incontro riafferma il “comune obiettivo a rendere la penisola coreana libera dal nucleare attraverso una completa denuclearizzazione”. Il passo successivo sarà l’instaurazione di una pace “solida” e “permanente”, in grado di mettere formalmente fine alla guerra sospesa nel 1953 con la proclamazione di un armistizio, che ha visto coinvolti Cina e Stati Uniti, all’epoca impegnati su fronti opposti a sostenere rispettivamente il Nord e il Sud. Questo vuol dire che un trattato di pace necessita la collaborazione di Washington e Pechino, come attesta il conclamato impegno ad avviare colloqui a tre o a quattro, versione ridimensionata degli storici “tavoli a sei” a cui parteciparono senza troppo successo anche Giappone e Russia prima del ritiro nordcoreano nel 2009.

 

La scelta strategica con cui negli ultimi mesi Kim Jong-un ha avviato silenziose trattative con l’establishment cinese e americano si inserisce quindi in un processo di normalizzazione delle relazioni tra Pyongyang e il mondo con chiare finalità di politica interna. Una progressiva distensione nella penisola coreana (dove gli Usa sono ancora presenti militarmente), l’ottenimento di un’alleggerimento delle sanzioni internazionali, la concessione di aiuti economici e l’implicito riconoscimento della Corea del Nord come potenza nucleare, è quanto presumibilmente Kim spera di portare a casa con il suo debutto sotto i riflettori internazionali da una nuova inedita posizione di forza. I morsi delle sanzioni??che nei primi tre mesi del 2018 hanno affossato gli scambi commerciali con la Cina del 60%??si fanno infatti sentire con tempismo perfetto proprio ora che il Regno Eremita considera completato il proprio programma nucleare.

 

Annunciando alcuni giorni fa la sospensione dei test nucleari e missilistici e lo smantellamento del sito di Punggye-ri??utilizzato da Pyongyang per testare i suoi ordigni e che gli esperti ritengono gravemente danneggiato dall’ultima più potente detonazione di settembre??il leader nordcoreano ha sottolineato il pieno raggiungimento dello status di potenza nucleare, uno dei due pilastri del byungjin, la linea politica lanciata nel 2013 che prevede lo sviluppo parallelo dell’atomica e dell’economia.

 

Secondo la logica nordcoreana, la piena espansione del proprio arsenale rende superflua una continuazione dei test. Ma questo non implica necessariamente un endorsement a quanto richiesto dalle Nazioni Unite nelle varie risoluzioni di condanna seguite al primo test nucleare del 2006: ovvero lo “smantellamento completo, verificabile, irreversibile del programma nordcoreano”. Né chiarisce la posizione di Pyongyang in merito alla presenza militare americana al Sud (dove Washington tiene ancora parcheggiati circa 28mila soldati), di cui in passato è stata imposta la rimozione come precondizione per un impegno nordcoreano alla denuclearizzazione. Un punto su cui probabilmente insisterà anche la Cina, preoccupata che un’eventuale riunificazione delle due Coree possa tradursi in un riposizionamento delle truppe statunitense davanti alla porta di casa.

 

I precedenti non sono incoraggianti. Nessuno dei vertici tra Nord e Sud (del 2000 e 2007) è stato in grado di frenare la corsa agli armamenti del Regno Eremita??l’ultima grande beffa risale al 2012, quando la moratoria sui test missilistici, raggiunta nell’ambito del cosiddetto “Leap Day deal”, si è conclusa con il lancio di “un satellite” appena sei settimane dopo. L’ipotesi che il regime nordcoreano sia disposto a barattare la deterrenza nucleare accumulata negli ultimi decenni per fronteggiare una possibile invasione americana rimane un’eventualità dubbia ma non impossibile. Dipende dal grado di affidabilità trasmesso dall’amministrazione Trump, le cui mosse fino ad oggi.

 

Come affermato da Kim durante il suo incontro con il presidente sudcoreano Moon Jae-in, “oggi, invece di creare risultati che non saremo in grado di realizzare come avvenuto in passato, dovremmo ottenere buoni risultati parlando francamente di questioni attuali, questioni di interesse”. Secondo quanto rivelato al New York Times da fonti sudcoreane, Washington e Seul starebbero spingendo per una deadline precisa (il 2021, anno della fine del mandato di The Donald) entro cui completare la denuclearizzazione. Per indorare la pillola, Moon ha ricordato come in passato il Sud abbia promesso incentivi economici per lo sviluppo delle infrastrutture stradali e ferroviarie nordcoreane in cambio di una rinuncia all’atomica. Di più. Stando all’ex ministro dell’Unificazione, Jeong Se-hyun, il disgelo tra le due Coree??se affiancato dal placet americano??potrebbe avviare un processo di apertura del Regno Eremita d’ispirazione cinese e vietnamita, in grado di assicurare la coesistenza del regime a partito unico con l’introduzione di un sistema economico “capitalista”. Proprio quel che ci vuole per completare l’altro pilastro del byungjin.

 

 

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