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30 Apr 2018

 

Corea: fra denuclearizzazione e riunificazione

di Pierfrancesco Moscuzza

professore associato all’Università di Suwon, in Corea del Sud.

 

Il summit intercoreano di Panmunjom è stato uno di quegli eventi destinati ad entrare nella storia delle relazioni internazionali come uno spartiacque, anche se bisogna stare attenti a non farsi tradire dall’euforia del momento e da facili prospettive di pace.

L’incontro tra i leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, e della Corea del Sud, Moon Jae-in, nella zona demilitarizzata sul 38esimo parallelo è iniziato in maniera molto cerimoniale, esibendo da subito un alto valore simbolico e alcune sorprese. La prima è stata l’invito rivolto da Kim a Moon a sconfinare – per mano – in territorio nordcoreano, rompendo il protocollo ufficiale prestabilito. Con questo gesto, il leader di Pyongyang ha dimostrato di essere disposto a fare il primo passo verso la controparte sudcoreana a condizione di essere ricambiato, anche se ciò dovesse significare un’eccezione agli accordi prestabiliti e alle aspettative generali.

 

Il momento più importante è stato quello della dichiarazione congiunta al termine dell’incontro, con cui veniva annunciata la fine delle ostilità e la volontà di iniziare il processo di denuclearizzazione della penisola coreana.

 

Il futuro della penisola
Cosa ci si può aspettare da questo summit? Probabilmente una cessazione delle ostilità con una relativa apertura commerciale e una liberalizzazione graduale dell’economia nordcoreana. Quest’ultimo passaggio è utile ad entrambe le parti, perché rappresenta una nuova opportunità per la crescita economica di Seul e, allo stesso tempo, una possibilità di sviluppo per Pyongyang, che consentirebbe alla Corea del Nord anche di emanciparsi dall’egemonia cinese. Quello che rimane da vedere è se le sanzioni commerciali delle Nazioni Unite contro Pyongyang attualmente ancora in vigore verranno presto sollevate.

La questione centrale del summit rimane comunque la denuclearizzazione, obiettivo comune da raggiungere nella penisola, secondo la dichiarazione finale di Panmunjom. In aggiunta a ciò, il 29 aprile – due giorni dopo il summit – Kim Jong-un ha annunciato di voler chiudere entro maggio il sito per i test nucleari di Punggye-ri. Nonostante ciò, la denuclearizzazione totale rimane un obiettivo difficile da centrare.

 

Prima di tutto perché non potrà mai essere una concessione unilaterale di Pyongyang, come auspicato dagli Stati Uniti; e anche perché, per i nordcoreani la denuclearizzazione della penisola significa anche la rimozione dell’ombrello nucleare degli Stati Uniti da tutta la regione del nordest asiatico.

 

Una richiesta impossibile perché causerebbe uno squilibrio di potere a favore di Cina e Russia, influendo negativamente sulla posizione strategica di Washington e sull’equilibrio geopolitico nei confronti di Giappone e Taiwan. Peraltro, una rinuncia totale all’atomica da parte di Kim, dopo gli enormi sacrifici sostenuti per acquisire il potere deterrente nucleare, potrebbe causare una destabilizzazione politica interna pericolosa per la sopravvivenza stessa del regime.

 

Modello iraniano?
Il punto cruciale che resta da chiarire è la roadmap dell’eventuale piano di denuclearizzazione, che non è stata specificata in nessuna maniera nella dichiarazione di Panmunjom. Uno dei nodi da sciogliere è se la denuclearizzazione debba avvenire solo dal punto di vista militare, come nel caso dell’accordo raggiunto dall’amministrazione Obama e dai partner dell’Unione europea con l’Iran (Joint Comprehensive Plan of Action) ed oggi duramente attaccato e messo in forse da Donald Trump.

 

L’unica certezza è l’attuale insostenibilità economica del programma nucleare nordcoreano, che ha sottratto risorse molto importanti allo sviluppo del Paese. Tuttavia, per poter fare delle previsioni accurate, è necessario aspettare l’esito del prossimo summit tra il presidente statunitense Trump ed il leader nordcoreano Kim, che in questi giorni dovrebbe intanto presentare un piano preventivo per la denuclearizzazione del proprio Paese.

L’esito di tale incontro, da tenersi fra maggio e giugno (e per cui Trump ha proposto proprio il Palazzo della Pace di Panmunjom), non è per niente scontato, considerando l’instabilità dimostrata finora dall’ amministrazione statunitense in questioni di politica estera e il mancato rispetto degli accordi internazionali da parte di Kim, l’ultimo in ordine di tempo nel 2012, quando effettuò un test balistico di larga distanza poche settimane dopo aver firmato una moratoria sugli esperimenti nucleari in cambio di concessioni e aiuti economici significativi –

 

Un’unione che non s’ha da fare
Quello che molto sicuramente non accadrà è la riunificazione delle due Coree, come ventilato in questi giorni da alcuni osservatori che proponevano un’analogia con la Germania. Per quanto suggestivo, il paragone non regge per vari motivi. Anzitutto, perché la Germania era supportata dall’Unione sovietica, che alla fine degli anni Ottanta era ormai sul punto di collassare, quindi non più in grado di sostenere la sua sfera di influenza geopolitica. La Corea del Nord, al contrario, è sostenuta dalla Cina che ormai si appresta a superare gli Stati Uniti come prima economia mondiale.

 

In secondo luogo, al momento, l’unificazione delle due Coree non conviene a nessuno dei loro vicini. La Cina ha bisogno della Corea del Nord come stato cuscinetto per mantenere una separazione territoriale netta tra il suo confine e la Corea del Sud, che è sede di un ampio schieramento militare statunitense. Il Giappone, avversario storico della Cina e della Corea, ma in seguito alleato della Corea del Sud, non ha nessun interesse in vedere espandersi la concorrenza regionale in campo economico e manifatturiero come conseguenza della riunificazione coreana.

 

Terzo, gli Stati Uniti non permetterebbero un alienamento politico di Seul verso la sfera di influenza cinese, che, diventando la prima economia mondiale si appresta anche a vestire i panni di un partner commerciale di alto valore. Inoltre, l’unione delle due Coree potrebbe causare degli scompensi al sistema economico e sociale interno dei due Paesi, dovuto alla riorganizzazione politica del nuovo Stato.

 

Infine, chi ha guadagnato più di tutti da questo summit è stato di certo il leader nordcoreano, che è riuscito a proiettare una nuova immagine di sé e del suo Paese, sfatando il mito del leader autocratico, totalitario e irrazionale. Il solo fatto di avere violato un tabù storico, come quello di uscire dal proprio Paese per affrontare le negoziazioni su un tema così complicato come quello della pace tra le due Coree e della denuclearizzazione della penisola, ha fatto guadagnare a Kim Jong-un moltissimo in termini di credibilità, un capitale politico che in futuro potrà essere speso in proprio favore.

 

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