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14 giugno 2018

 

Dopo Singapore: cosa portano a casa Kim, Trump (e tutti gli altri)?

di Sergio Miracola

 

Il summit del 12 giugno tra Donald Trump e Kim Jong-un a Singapore ha avuto certamente una portata storica: non era mai successo che un Presidente degli Stati Uniti in carica incontrasse un leader nordcoreano. Gli USA e la Corea del Nord nutrono ostilità reciproca sin dai tempi della Guerra di Corea (1950-1953), in cui gli USA fornirono sostegno militare alla Corea del Sud, appena invasa dalla Corea del Nord, a sua volta supportata dalla Cina. Dopo quasi settant’anni, l’incontro di Singapore potrebbe essere un passo decisivo in direzione della normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, dell’elaborazione di un trattato di pace definitivo tra le due Coree e, forse, del ritorno della stabilità nella regione. Eppure, questi sviluppi ruotano tutti attorno a un’incognita che continuerà a pesare sull’evoluzione dei negoziati: la denuclearizzazione. Benché alla questione siano stati dedicati alcuni passaggi del documento siglato dal Presidente USA e il leader nordcoreano alla fine del summit, sui dettagli e i prossimi passi necessari da sviluppare per un concreto programma di denuclearizzazione  pesano ancora numerose incertezze. Cosa significa davvero denuclearizzare la penisola per entrambi i leader e per gli altri attori regionali?  Quali sono le priorità degli USA e quali quelle della Corea del Nord? Cosa fa la Cina? E cosa succederà ora?

COSA VOLEVANO OTTENERE TRUMP E KIM CON L’INCONTRO?

Ottenendo la firma di una ‘promessa’ di denuclearizzazione dal leader della Corea del Nord, Donald Trump è indubbiamente riuscito a ottenere un risultato diplomatico significativo, con un impatto positivo sia per la propria immagine, sia relativamente ai suoi metodi negoziali non convenzionali a cui il mondo ha spesso assistito con stupore nel corso degli ultimi mesi. L’avvenimento potrebbe dunque avere delle ricadute positive anche in termini di consenso politico interno, soprattutto alla luce di un banco di prova decisivo come quello delle elezioni di mid-term del prossimo novembre. Il Presidente americano non solo passerà alla storia per aver incontrato un leader nordcoreano – rendendo in questo modo meno inverosimile la prospettiva, spesso ironicamente commentata, di essere un possibile candidato al premio Nobel – ma potrà anche rivendicare di avere ottenuto più di qualsiasi suo predecessore una distensione tangibile con la Corea del Nord, mantenendo per giunta una promessa fatta in campagna elettorale.

Dall’altro lato, invece, l’obiettivo di Kim Jong-un era, sopra ogni altra cosa, quello di sedersi come co-protagonista al tavolo delle trattative. Il leader nordcoreano ha potuto in questo modo dimostrare al mondo di essere un attore da dover trattare alla pari, ottenendo di fatto anche una legittimazione politica da parte degli USA, che formalmente ancora non riconoscono la Corea del Nord. Inoltre, come sottolinea Antonio Fiori, l’incontro è valso a Pyongyang anche il riconoscimento di fatto della propria statura di potenza nucleare nella regione. Ma soprattutto, Kim ha intelligentemente utilizzato il periodo antecedente al summit per attirare l’attenzione del mondo sulla sua figura politica e la sua agenda internazionale. Non va dimenticato, infatti, che nell’arco di pochi mesi il leader nordcoreano ha incontrato il Presidente cinese Xi Jinping (nel primo storico incontro tra i due leader), il Presidente sudcoreano Moon Jae-in (per il terzo summit intercoreano), il nuovo Segretario di Stato americano Mike Pompeo, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, e adesso il Presidente USA in persona.

Infine, la denuclearizzazione. Nel documento finale del summit, Kim Jong-un ha sì “ribadito il proprio impegno incrollabile alla denuclearizzazione completa della penisola”, ma la mancanza di dettagli concreti relativi al processo di denuclearizzazione (per esempio tempistiche e modalità) e la genericità delle formule utilizzate nel testo fanno sì che la Corea del Nord possa, almeno per il momento, continuare a interpretare a proprio piacimento la questione, senza di fatto essere vincolata a scadenze e azioni concrete da intraprendere.

DENUCLEARIZZARE, SÌ. MA A CHE PREZZO?

All’interno dell’accordo firmato tra i due leader c’è un riferimento (seppur generico) al ruolo cruciale della denuclearizzazione nelle relazioni tra i due paesi e per la stabilità regionale: “Riconfermando la Dichiarazione di Panmunjom del 27 aprile 2018, la Corea del Nord si impegna a lavorare per una completa denuclearizzazione della penisola coreana”. Questo passaggio si rifà alla Dichiarazione di Panmunjom del 27 aprile scorso, la località al confine tra Corea del Sud e Corea del Nord dove i leader dei due paesi, incontrandosi per la prima volta, hanno espresso il comune obiettivo di lavorare alla realizzazione di una penisola “senza armi nucleari”. Sia Trump che Kim hanno, a più riprese nei mesi scorsi, enfatizzato l’importanza della denuclearizzazione. Il leader nordcoreano ha addirittura intrapreso azioni pratiche – e dal forte impatto mediatico – quali la distruzione del sito nucleare di Punggye-riCome evidenziato da Aidan Foster-Carter, il problema principale però permane: cosa significa davvero avviare un processo di denuclearizzazione per gli Stati Uniti e per la Corea del Nord?

Per gli Stati Uniti, ‘denuclearizzazione’ si traduce nel completo smantellamento dell’arsenale nucleare di Pyongyang. In altre parole, una “completa, verificata e irreversibile denuclearizzazione” (CVID) del paese. In diverse occasioni – tra conferme e smentite all’interno dell’amministrazione –, alti funzionari degli Stati Uniti, tra cui per esempio John Bolton, il nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, hanno menzionato la possibilità che il processo di denuclearizzazione della Corea del Nord potrebbe articolarsi secondo un modello già sperimentato, quello della Libia (di qui, l’espressione “Libya Model”). Proprio come accadde negli anni 2003-2011 con la Libia di Gheddafi, infatti, questo modello prevedrebbe lo smantellamento totale dell’arsenale nucleare, in cambio di aiuti economici e annullamento delle sanzioni.

Benché nel documento finale del summit di Singapore Kim Jong-un abbia “ribadito il suo impegno  fermo e incrollabile a completare la denuclearizzazione della penisola coreana”, è difficile immaginare che su questo tema le intenzioni del leader nordcoreano concordino pienamente con le aspettative statunitensi. Piuttosto, come sottolineano da anni molti analisti, l’interpretazione che del concetto di ‘denuclearizzazione’ dà Pyongyang, corrisponde più a una riduzione dell’arsenale nucleare che non il suo totale smantellamento. Infatti, come sottolineano diversi analisti, per la Corea del Nord le armi di distruzione di massa rappresentano infatti il principale deterrente contro possibili attacchi esterni contro il paese e la sua leadership, una sorta di “garanzia” per la sopravvivenza del regime autoritario di Pyongyang, già messo duramente alla prova dalle sanzioni che da anni soffocano l’economia del paese. Per Kim Jong-un, le armi nucleari (oltre a quelle convenzionali e agli armamenti chimici e batteriologici) diventano tanto più preziose nella prospettiva – a più riprese minacciata dallo stesso Trump prima della distensione dei rapporti – di un attacco militare volto a innescare un regime change in Corea del Nord.  L’offerta di un “Modello Libia”, alla luce della fine violenta di Mu’ammar Gheddafi e del suo regime nel 2011, non deve essere apparsa particolarmente convincente agli occhi del leader nordcoreano.

Il fatto che i due leader incontratisi a Singapore abbiano due letture fortemente divergenti della questione, pur centrale, della denuclearizzazione ha indubbiamente contribuito a far sì che – al di là della forte valenza simbolica del meeting – i propositi firmati nel documento finale non siano corredati da un progetto strutturato e dettagliato dei prossimi passi da compiere in direzione della denuclearizzazione della Corea del Nord. Resta ora da vedere se (e quando) al summit del 12 luglio seguiranno altri incontri negoziali finalizzati a rendere operativi gli intenti espressi nel documento congiunto.

QUALI CONSEGUENZE PER LA REGIONE?

Il summit appena concluso rimette al centro del dibattito anche le dinamiche regionali, soprattutto alla luce del fatto che gli altri grandi attori (Cina, Giappone e Corea del Sud) non hanno preso parte al summit di Singapore. In particolare, tra le questioni che richiederanno maggiore attenzione nei prossimi mesi e anni figurano il rapporto tra le due Coree e quello tra Pyongyang e Pechino. La potenziale normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e Corea del Nord faciliterebbe la politica estera del Presidente sudcoreano Moon Jae-in, sempre più incentrata su due aspetti: ripristinare i rapporti economici con la Corea del Nord e avviare un vasto programma infrastrutturale per aumentare gli scambi energetici e culturali tra i due paesi. Questa strategia potrebbe però mettere a rischio i rapporti tra la Corea del Sud e gli USA visto che una Corea del Nord denuclearizzata renderebbe la Corea del Sud meno dipendente dalla presenza militare statunitense, facendo sì che la ‘presenza legittima’ di quest’ultima nella regione e nella penisola diventi quasi superflua.

Una relazione altrettanto delicata riguarda i rapporti Washington-Tokyo. Il Giappone desiderava che il summit affrontasse più nel dettaglio le modalità della denuclearizzazione e il caso dei prigionieri giapponesi scomparsi, catturati dalla Corea del Nord e mai restituiti, nonostante il Giappone abbia negli anni offerto anche ricompense economiche in caso di collaborazione. Tokyo sembra essere l’attore regionale che ha beneficiato in assoluto di meno da questo summit, dato che questi due temi – centrali per l’agenda di Shinzo Abe – non hanno ottenuto l’attenzione che il Giappone sperava venisse loro dedicata. Di conseguenza, una possibile normalizzazione dei rapporti USA-Corea del Nord alimenta il timore di Tokyo di essere lasciata sola nel confronto regionale con Pyongyang, considerato che, nell’ultimo anno, il Giappone è lo Stato che ha più di tutti subito le provocazioni missilistiche nordcoreane, con il lancio di ben due missili balistici – tra agosto e settembre del 2017 – che hanno sorvolato l’intero territorio giapponese, prima di concludere la loro gittata nell’Oceano Pacifico.

Benché non abbia partecipato ufficialmente all’incontro di Singapore, l’altro attore cruciale è la Cina, secondo molti analisti la vera beneficiaria del summit. L’obiettivo di Pechino non è quello di ottenere la completa denuclearizzazione di Pyongyang, perché una Corea del Nord stabile ed armata rappresenta il requisito necessario per affossare la prospettiva di riunificazione dell’intera penisola coreana sotto l’egida della Corea del Sud, condizione che potrebbe portare pericolosamente quasi trentamila soldati americani presso il confine cinese. Per perorare la sua causa e per risolvere allo stesso tempo la crisi nucleare nella penisola, Pechino ha avanzato tempo fa la politica della “doppia sospensione” (shuang zanting), ossia sospensione dei test nucleari nordcoreani parallelamente alla sospensione delle esercitazioni militari congiunte USA-Corea del Sud. Le ultime dichiarazioni di Trump, a summit concluso, riguardo a un possibile stop delle esercitazioni militari con la Corea del Sud – al di là di soddisfare le richieste nordcoreane – vanno anche nella direzione perseguita dalla Cina: una stabile e armata Corea del Nord e una progressiva riduzione della presenza militare americana nella regione.

QUALE RUOLO HA AVUTO LA CINA?

La Cina ha svolto un ruolo fondamentale per la realizzazione del summit di Singapore, benché il 12 giugno non fosse direttamente coinvolta nell’incontro. Pechino e Pyongyang hanno sempre avuto un rapporto molto stretto, nonostante tra i due storici alleati non siano mancate frizioni nel corso degli anni. Non è un caso che l’aereo che ha trasportato Kim a Singapore era un Boeing 747 dell’Air China, un mezzo di trasporto governativo cinese. Per non parlare dell’annunciata disponibilità cinese, qualche giorno prima del summit, di scortare Kim nel suo viaggio verso Singapore con i propri caccia. A livello economico e politico, la centralità della Cina per la Corea del Nord è testimoniata dal fatto che per Pyongyang, Pechino è il più importante partner commerciale. Inoltre, proprio grazie al rapporto privilegiato con il vicino Comunista, la Corea del Nord è sempre riuscita a trovare espedienti e modi per non essere soffocata del tutto dalle sanzioni continuamente imposte negli ultimi decenni da parte delle Nazioni Unite. Tuttavia, la situazione è cambiata radicalmente a partire dal 2017, quando anche Pechino ha deciso di implementare le sanzioni ONU verso Pyongyang, questa volta particolarmente severe. Il cambio di passo dell’amministrazione cinese è stato ulteriormente sottolineato nella primavera del 2017, quando in un editoriale del Global Times (censurato dopo qualche ora) si faceva esplicito riferimento alla possibilità di utilizzare mezzi militari qualora i test nucleari nordcoreani fossero continuati. L’ulteriore pressione imposta alla Corea del Nord da parte della Cina durante tutto il 2017 ha notevolmente contribuito alla realizzazione dell’attuale condotta di politica estera nordcoreana. E’ in questo contesto che si spiega perché Kim abbia deciso di incontrare Xi per ben due volte prima di avviare i due storici summit con il suo omologo sudcoreano e successivamente con quello americano.

COSA SUCCEDE ORA?

Malgrado il forte impatto simbolico, secondo molti analisti il summit di Singapore si è dimostrato più debole del previsto sul piano dei risultati concreti. Andrei Lankov, direttore del Korea Risk Group e tra i massimi esperti mondiali di Corea del Nord si è espresso così: “ci aspettavamo che sarebbe stato un flop, ma il summit di oggi ha dimostrato di essere più fallimentare del previsto”. Il motivo principale sullo sfondo di questi giudizi è da ricercare nel fatto che dal summit sono emerse non solo dichiarazioni piuttosto generiche sul tema della denuclearizzazione – la questione dei diritti umani in Corea del Nord non è stata neanche affrontata – ma anche un documento breve e poco articolato, quello firmato dai due leader, che non sembra richiedere un impegno serio e temporalmente scandito da parte di Pyongyang.

Di fatto, Donald Trump non è riuscito a rendere vincolanti le istanze del CVID e Kim Jong-un si è limitato a dichiarare la sua disponibilità a creare una penisola denuclearizzata; come già spiegato, senza che l’interpretazione di questo concetto sia per il momento condivisa dai due leader. Entrambi sanno che, almeno per il momento, tra di loro non ci potrà essere un accordo reale sulla denuclearizzazione, perché la sua effettiva riuscita si tradurrebbe, almeno per il momento, in una vera e propria minaccia esistenziale per il regime di Pyongyang. Inoltre, come dimostrato dallo scienziato americano Siegfried Hecker, tra i principali esperti internazionali di energia nucleare, in Corea del Nord una denuclearizzazione “completa” (come quella a cui Kim si sarebbe impegnato nel documento di Singapore) richiederebbe decenni. Di fronte a questo quadro, per il momento la strada appare ancora in salita.

Infine, anche per quanto riguarda la firma di un vero e proprio trattato di pace – unico tema su cui si sperava si potesse raggiungere un accordo concreto – a Singapore i due leader non hanno avanzato alcuna proposta. Di conseguenza, alla luce dei contenuti del summit, è possibile ipotizzare che ci saranno altri incontri in cui i due leader proseguiranno sulla strada dei buoni auspici, senza prendere decisioni concrete e dirompenti. Inoltre, se e quando cominceranno a emergere i dettagli di potenziali accordi, allora la situazione potrebbe subire degli sviluppi reali: ma è probabile che questi siano più negativi che positivi, poiché dai dettagli e dalle scelte operative emergeranno nuove tensioni e contrapposizioni.

 

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