http://lepersoneeladignita.corriere.it/

http://www.agoravox.it/

martedì 26 giugno 2018

 

Dopo 29 mesi la verità non c’è ancora: "Di privato nella storia di Giulio non c’è nulla"

di Riccardo Noury

 

Ventinove mesi fa Giulio Regeni veniva visto per l’ultima volta nelle strade del Cairo, prima che venisse inghiottito nel sistema repressivo dello stato egiziano. Quel giorno nel lunghissimo elenco di scomparsi, torturati e assassinati dell’era al-Sisi, compariva il nome di un cittadino italiano.

 

Nei due anni e cinque mesi successivi, le autorità egiziane hanno depistato, preso tempo, ritardato. Hanno fatto muro, trincerandosi dietro l’omertà e l’impunitàtipiche di quei regimi in cui basta un’ammissione perché crolli tutta la catena di comando e vengano fuori i nomi.

 

Basti pensare che ci sono voluti 28 mesi per ricevere una minuscola porzione delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza del Cairo. Chissà mai cosa potrà esserci rimasto impresso, dopo così tanto tempo.

 

Se lo stato che deve fornire la verità collabora poco, è altrettanto poco quanto ha fatto in tutto questo periodo lo stato che quella verità dovrebbe pretenderla.

 

Dei due ultimi governi, ricorderemo un solo gesto “inimichevole” nei confronti dell’Egitto: il ritiro provvisorio dell’ambasciatore al Cairo, deciso nell’aprile 2016 e annullato “a furor di politica” il 14 agosto 2017, col conseguente ripristino delle normali relazioni diplomatiche lo stesso giorno del mese successivo.

 

Le autorità egiziane e la stampa governativa (aggettivo superfluo, dato che di quella indipendente – tra arresti di giornalisti e chiusure di portali – è rimasto ben poco) hanno festeggiato alla grande, interpretando il ritorno dell’ambasciatore come un segnale di resa nei confronti di un paese “partner ineludibile” guidato da “un interlocutore appassionato nella ricerca della verità” (entrambe le citazioni sono dell’ex ministro degli Esteri Angelino Alfano).

 

Con non minore soddisfazione sono state accolte al Cairo le parole del vicepremier e ministro degli Interni dell’attuale governo, Matteo Salvini, per il quale quello che sotto Renzi e Gentiloni era il “caso Regeni”, è diventato il “problema Regeni”.

 

Un “problema” privato, una questione di famiglia che deve cedere il passo di fronte all’esigenza di avere “buoni rapporti” con l’Egitto.

 

Sono bastate poche settimane per capire che l’espressione “Prima gli italiani” è seguita da un asterisco che rimanda a una lunga, sempre più lunga serie di eccezioni. Tra le eccezioni c’è Giulio Regeni. Vittima di una delle numerosissime violazioni dei diritti umani in Egitto che, in nome dei buoni rapporti bilaterali, può essere derubricata a un dramma privato.

Di privato non c’è proprio nulla nella storia di Giulio. Ci sono le responsabilità di funzionari dello stato egiziano (alle generalità dei quali è giunta la procura di Roma nel corso delle indagini). C’è l’attenzione di un po’ di parlamentari europei, di qualche senatore e deputato italiano e del presidente della Camera Roberto Fico).

 

Ci sono gli 250 comuni italiani che espongono lo striscione “Verità per Giulio Regeni” (le ultime due adesioni sono arrivate il 22 giugno dai comuni di Lucca e Capannori), le decine di migliaia di persone che ogni giorno sui social media seguono e rilanciano le notizie provenienti dall’Egitto, le centinaia e centinaia di aderenti allo sciopero della fame a staffetta promosso per chiedere la scarcerazione di Amal Fathy – moglie del dirigente della principale Ong egiziana per i diritti umani – dall’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, e dai genitori di Giulio. Soprattutto ci solo loro, Paola e Claudio Regeni.

 

“Noi di sicuro non molliamo”, ha detto Claudio Regeni pochi giorni fa al congresso nazionale dell’Usigrai.

Noi, nemmeno.

 

top