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23 December 2018

 

La Cina e la questione dell'egemonia

di Michele Nobile

 

L'articolo di Michele Nobile inizia una serie sulla politica estera della Repubblica popolare cinese, centrata sull’analisi della situazione nel Mar cinese meridionale. Di Nobile si veda anche «Sul “socialismo con caratteristiche cinesi“, ovvero del capitalismo realmente esistente in Cina», 10 settembre 2018

 

L'articolo di Michele Nobile inizia una serie sulla politica estera della Repubblica popolare cinese, centrata sull’analisi della situazione nel Mar cinese meridionale. Di Nobile si veda anche «Sul “socialismo con caratteristiche cinesi“, ovvero del capitalismo realmente esistente in Cina», 10 settembre 2018

 

Il problema dell’egemonia come combinazione di forza e consenso

Gli Stati Uniti come potenza un tempo egemone ma ora condannata al declino? E la Repubblica popolare cinese (Rpc o semplicemente Cina) come potenza in ascesa e nuovo Stato egemone, se non sul piano planetario almeno in Asia, nel quadro di un sistema internazionale multipolare?

Se l’egemonia è correttamenteintesa come combinazione di forza dell’egemone e di consenso al suo ruolo internazionale da parte delle classi dominanti degli altri Paesi e, almeno passivamente, anche di una parte consistente dei loro popoli, è nel Mar cinese che si mettono alla prova le rispettive capacità degli Stati Uniti e della Cina di mantenere l’egemonia o di costruirne una alternativa.

Più precisamente, è tra i Paesi litoranei della porzionemeridionaledel Mar cinese che meglio si può verificare la tesi di una transizione dell’egemonia dagli Stati Uniti alla Cina. È lì che si confrontano direttamente la «nuova via della seta» marittima di Xi Jinping e il pivotverso l’Asia, nelle forme molto diverse assunte durante le amministrazioni di Obama e di Trump; e anche oltre il problema di Taiwan, è in quell’area che con maggiore probabilità possono verificarsi incidenti o scontri diretti tra unità militari della Rpc e degli Stati Uniti.

Se ben messa a fuoco, la generica idea di un’eventuale transizione del potere suscita numerosi interrogativi circa i modi e la forma che essa potrebbe assumere. Ad esempio: gli Stati Uniti accetteranno di riscrivere le regole dell’ordine internazionale insieme alla Cina? O è possibile che rinuncino alla posizione di egemone per riformare l’ordine liberale mondiale insieme agli altri Paesi a capitalismo avanzato? Oppure, l’egemone in declino tenterà di riprendersi il primato con ultimo colpo di coda? È che genere di grande potenza è la Rpc: è da prendere sul serio la posizione ufficiale del «pacifico sviluppo»? O si tratta di una potenza revisionista? E se sì, allora mira a costruire una sua sfera d’influenza regionale o anche a modificare le regole del sistema globale? Il futuro prospetta una grande guerra costituente tra Stati Uniti e Cina, forse una nuova guerra mondiale? O l’alternativa è un sistema bipolare tra potenze antagonistiche, caratterizzato da una condizione che non è né di pace né di guerra, del genere della guerra fredda?1

E per quanto l’idea della transizione dell’egemonia sia alimentata dall’indubbio successo economico della Cina, occorre anche chiedersi se esista effettivamente una «grande strategia» dei dirigenti di Pechino e se i suoi diversi aspetti - diplomatici, militari, economici, ideologici - siano coerenti. La potenza economica e militare può essere un presupposto del potere strutturale nell’economia mondiale e nel sistema internazionale degli Stati, ma è sbagliato dedurre che la potenza diventi necessariamente egemonia.

Che io sappia, la versione più recente dello schema ascesa cinese-declino statunitense è la «trappola di Tucidide» - in effetti per nulla originale - secondo cui Cina e Stati Uniti sarebbero destinati a farsi guerra come Sparta e Atene, salvo poi salvare capra e cavoli elencando i motivi per cui la guerra non è inevitabile.

La questione cruciale è comprendere il funzionamento e l’evoluzione strutturale dell’economia mondiale e del sistema degli Stati con concetti adeguati al XXI secolo, non mutuati dal V secolo a. C. o dagli anni 40-50 del XX. È per questo motivo che lo schema della guerra fredda e della transizione del potere da un egemone in declino - gli Stati Uniti - a uno in ascesa - la Rpc - è analiticamente fuorviante quanto quello della pace democratica e della progressiva liberalizzazione politica della Rpc.

Fin dall’inizio delle riforme economiche, quarant’anni fa, Deng Xiaoping chiarì inequivocabilmente che l’apertura verso l’estero, lo sviluppo del mercato e l’importazione di tecnologia e tecniche economiche capitalistiche dovevano servire a rafforzare il «socialismo con caratteristiche cinesi», cioè il monopolio politico del Partito comunista cinese (Pcc)2. L’intento della dittatura monopartitica è ora il princìpio neoconfuciano di costruire un’armoniosa società nazionale (un obiettivo improbabile, considerando la polarizzazione sociale, gli squilibri regionali e le rivolte dei popoli non-han); nella politica internazionale ciò corrisponde al progetto di un «mondo armonioso di pace duratura e comune prosperità». Nonostante l’ostentazione di forza e sicurezza, una tale insistenza normativa sull’armonia, mentre il capitalismo si sviluppa in Cina e il Paese ascende nella gerarchia dell’economia mondiale capitalistica, può leggersi come il sintomo di una fondamentale insicurezza della dirigenza cinese ed è significativa del timore della possibile interazione tra instabilità sociale interna e dell’ambiente internazionale. Da questo anche le contraddizioni e le oscillazioni della prassi concreta della politica nazionale e internazionale dell’armonia «con caratteristiche cinesi» che, a sua volta, alimenta l’incertezza.

Dal punto di vista concettuale queste contraddizioni e oscillazioni possono ricondursi al fatto che la costruzione di un mondo armonioso - in questo non diversamente dalla teoria liberale della pace democratica - presuppone idealmente il superamento dell’interesse nazionale e dell’«anarchia» competitiva tra gli Stati. Tuttavia, dentro quella cornice ideologica la politica estera di Pechino è ben lungi dal rinunciare a quelli che ritiene gli interessi del capitalismo cinese, specialmente delle imprese statali, e della salvaguardia del potere della casta dirigente. E, messi da parte il comunismo e la lotta di classe; ripudiati i disordini della «rivoluzione culturale» e gli obblighi delle campagne d’indottrinamento di massa, sviluppato il capitalismo e ammessi i capitalisti «illuminati» nel partito in quanto esponenti delle forze produttive più avanzate, l’ideologia di legittimazione del Pcc si è ridotta a una forma di nazionalismo che oramai, non è più - e da molto tempo - il nazionalismo di un popolo oppresso dagli invasori e dagli imperialisti ma quello di una grande potenza che sembra orientata a definire una propria sfera d’influenza. Nei fatti l’armonia neoconfuciana presuppone relazioni basate sul rispetto della gerarchia e l’alternanza di generose concessioni per i comportamenti conformi alle aspettative e di punizioni per quelli che sono invece difformi. Da qui, ancora, l’ambiguità delle relazioni della Rpc con i Paesi del Mar cinese, motivate in realtà dal contrasto tra interdipendenza economica e ambizioni geopolitiche, cooperazione e nazionalismo e, quindi, un’ambiguità che non può essere colta con un approccio interpretativo basato sullo schema della guerra fredda.

Retorica dell’armonia a parte, il Libro bianco sulla difesa nazionale del 2002 definì così gli interessi nazionali fondamentali della Rpc: «salvaguardare la sovranità dello stato, l'unità, l'integrità territoriale e la sicurezza; sostenere lo sviluppo economico come compito centrale e aumentare incessantemente la forza nazionale complessiva; attenersi al sistema socialista e migliorarlo; mantenere e promuovere la stabilità sociale e l'armonia; battersi per un ambiente internazionale di pace duratura e per un clima favorevole nella periferia della Cina». Questi obiettivi sono mantenuti nella prospettiva del «pacifico sviluppo», secondo il quale «l'obiettivo centrale della diplomazia della Cina è quello di creare un ambiente internazionale per il suo sviluppo che sia pacifico e stabile. Nel frattempo, la Cina si sforza di dare il suo giusto contributo alla pace e allo sviluppo mondiale. Non s’impegna mai in aggressioni o nell'espansione, non cerca mai l'egemonia ed è una forza che sostiene con convinzione la pace e la stabilità a livello regionale e mondiale», per costruire «un mondo armonioso di pace duratura e prosperità comune».

Cruciale è cosa il governo della Rpc intenda per un ambiente internazionale propizio alla continuità del suo sviluppo e della modernizzazione, «che faccia il suo popolo ricco e la nazione forte». Oltre alle preoccupate osservazioni sul rafforzamento della presenza e delle alleanze militari degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico e sulla revisione della politica militare del Giappone, nel Libro bianco sulla strategia militaredel 2015 si legge che «sulle questioni riguardanti la sovranità territoriale e i diritti e gli interessi marittimi della Cina, alcuni dei suoi vicini marittimi intraprendono azioni provocatorie e rafforzano la loro presenza militare sugli atolli corallini e sulle isole cinesi che hanno occupato illegalmente... È quindi un compito di lunga durata della Cina salvaguardare i suoi diritti e interessi marittimi»3. Ebbene, la rivendicazione di questi presunti diritti e interessi marittimi è percepita dai pescatori e dai popoli del Mar cinese meridionale come nazionalismo, imperialismo e militarismo della Rpc, per quanto i governi possano esprimersi in termini più diplomatici, pur provvedendo a «bilanciare» la potenza cinese attraverso accordi di collaborazione militare con gli Stati Uniti, l’India, il Giappone. Il progetto di un mondo armonioso mira a ridimensionare i timori suscitati dall’ascesa della potenza economica e militare cinese, che sono però riprodotti dalla pratica coercitiva dell’interesse nazionale del capitalismo di Stato della Rpc. Si tratta di una contraddizione fondamentale della politica estera cinese, un ostacolo forse insuperabile sulla strada di un’eventuale egemonia regionale basata sulla sinergia di forza e consenso.

Che l’ascesa economica, politica e militare della Cina modifichi la scena mondiale è un dato di fatto ovvio: in questo senso la Rpc è obiettivamente una potenza «revisionista», con questo non volendo automaticamente intendere una politica estera aggressiva: il Giappone e la Germania sono diventate grandi potenze economiche ma questo non implica affatto l’intenzione o la possibilità di costruire una «sfera di co-prosperità» o una Grossraumwirtschaft come nei precedenti imperiali della prima metà del XX secolo.

Il problema reale non è attaccare un’etichetta ma comprendere le motivazioni della politica estera della Rpc, sia in campo politico e militare che economico; definire in modo preciso come in questa politica si combinino gli obiettivi ed i mezzi; individuare le contraddizioni e i limiti della potenza cinese, in particolare per quel che concerne la costruzione di «un mondo armonioso di pace duratura e prosperità comune», che può intendersi come la formula cinese dell’egemonia. Ad esempio: non esiste una contraddizione tra l’integrazione della Cina nell’economia mondiale e nei processi di lavoro transnazionali, da una parte, e lo statalismo nazionalista dall’altra? È possibile che un conflitto internazionale generi in Cina una grave crisi economica e contrasti negli apparati di potere del partito unico e tra questi e settori della borghesia interna (anche di Stato)? E una crisi del genere non potrebbe fare da detonatore per la generalizzazione e politicizzazione delle lotte dei lavoratori, così determinando una crisi del regime?

Il modo migliore per giungere a una valutazione complessiva bene argomentata è ricostruire la storia della politica estera della Rpc nel Mar cinese, in una situazione intrinsecamente ambigua che non si lascia racchiudere in una nozione come «guerra fredda», adatta ad altri contesti e ad altri tempi.

In questa prima parte delineo la scena, i problemi e i precedenti, operazione necessaria per rendersi conto della complessità delle questioni e delle relazioni tra locale e globale; nella seconda parte tratterò delle battaglie tra Cina e Vietnam nel Mar cinese meridionale, della crisi con le Filippine nel 1995 e della situazione nel Mar cinese meridionale fino al 2009; nella terza mi occuperò degli sviluppi più recenti fino al 2018; nella quarta parte tenterò una interpretazione più ampia della politica estera della Rpc, in rapporto al pivot to Asiastatunitense, evidenziandone le contraddizioni politiche e ideologiche.

 

Contese territoriali locali e flussi strategici nel Mar cinese meridionale

Il Mar cinese meridionale è una sorta di Mediterraneo aperto delimitato da molti Stati, continentali e insulari, che hanno tra loro intense relazioni economiche ma anche dispute sulla sovranità di isole, atolli corallini, rocce sommerse dall’alta marea e, conseguentemente, opposti interessi nella delimitazione delle zone economiche esclusive marittime (Eec secondo l’acronimo internazionale). La maggior parte delle formazioni geografiche del Mar cinese sono disabitate o comunque inadatte all’insediamento umano e a sostenere un’attività economica autonoma, la definizione giuridica di isola. Tanto che le isole Spratly al largo delle Filippine - che prendono il nome dal capitano Richard Spratly che le navigò nel 1843 - vennero denominate dall’Ammiragliato britannico dangerous ground, a segnalare quanto fossero pericolosi i numerosi scogli sommersi e semisommersi.

Tuttavia, dal Mar cinese meridionale passa metà del tonnellaggio e un terzo del valore del commercio mondiale4; dallo stretto di Malacca - principale accesso occidentale al Mar cinese, che può essere aggirato ma a un costo maggiore - passa l’energia indispensabile alla macroarea industriale più dinamica del pianeta: è al secondo posto dopo lo stretto di Hormuz per il transito del petrolio e di gas liquido; e dal Mar cinese meridionale passa anche il carbone proveniente dall’Australia e dall’Indonesia. Nel sottosuolo di questo mare esistono riserve di petrolio e gas, stimate in modo molto diverso, ma che comunque sono appetibili per l’enorme fabbisogno energetico della Cina e in grado di svolgere un ruolo anche più considerevole per l’economia dei Paesi meno avanzati come il Vietnam, che sull’industria petrolifera punta gran parte delle speranze di sviluppo economico5. Infine, la pesca è importantissima per l’alimentazione dei popoli e per l’economia della regione: Cina, Thailandia e Vietnam sono tra i primi esportatori di pesce nel mondo. Ovunque, sono i pescatori di tutte le nazionalità i primi a soffrire delle dispute marittime fra gli Stati.

In misura e in modi diversi, per tutti gli altri Stati della regione è necessario stabilire diritti de facto e de jure su ampie porzioni di mare. È per questo che isole e atolli in sé di assai scarso valore economico e che non hanno mai ospitato insediamenti umani stabili, e perfino scogli sommersi dall’alta marea, sono diventati motivo di contese diplomatiche, di retate di pescatori, di confronti tra unità militari e della guardia costiera di diversi Paesi e, in alcuni casi, di battaglie navali. D’altra parte, tra l’interesse strategico degli Stati Uniti e l’interesse locale degli Stati - anche formalmente alleati - non c’è coincidenza immediata. Anche perché le dispute sulla sovranità di isole e formazioni del Mar cinese non sono né un fatto nuovo né limitato a contrasti bilaterali tra la Rpc e gli altri Stati. Le isole Paracelso sono contese da decenni tra Rpc, Vietnam e Taiwan; l’arcipelago delle isole Spratly tra Rpc, Brunei, Filippine, Malesia, Taiwan e Vietnam6. Se si tracciano le zone esclusive dei diversi Paesi, l’alto mare del Mar cinese meridionale si riduce a una modesta fascia irregolare centrale; eventuali zone economiche esclusive intorno alle principali presunte isole delle Spratly semplicemente cancellerebbero quel che giuridicamente sarebbe mare libero da pretese statali.

Il valore strategico del Mar cinese non risiede solo nello stock delle sue risorse. La contesa su rocce emerse e sulle Eec può essere vista come un problema locale. Tuttavia, poiché il Mar cinese meridionale è uno spazio trafficatissimo, attraversato dai flussi vitali indispensabili per l’economia regionale, un conflitto locale potrebbe determinare un effetto domino globale e, al limite, i suoi esiti potrebbero prolungarsi oltre l’impatto congiunturale per consolidarsi in un’alterazione permanente della struttura dell’economia mondiale.

Dunque, se gli stock sono importanti per i pescatori, le popolazioni rivierasche e per i governi locali, per il sistema economico mondiale l’importanza del Mar cinese meridionale risiede nei flussi che lo attraversano. Il primo «bene pubblico» che uno Stato egemone deve assicurare negli Oceani è l’ordinato e sicuro fluire dei traffici commerciali.

La modernità e la superiorità dell’imperialismo statunitense risiede da sempre nella sua natura essenzialmente economica e informale, certamente ora sorretta da un’ineguagliabile rete di basi e alleanze militari e da quella che rimane di gran lunga la maggiore capacità di proiettare potenza aeronavale nel mondo. Fin dai tempi di George Washington e Thomas Jefferson la libertà di navigazione e la sicurezza dei flussi commerciali sono «interesse nazionale» degli Stati Uniti, ragione della quasi-guerra con la Francia, delle prolungate tensioni con la Gran Bretagna sfociate nella guerra del 1812, delle spedizioni nel Mediterraneo contro i pirati barbareschi, della politica della «porta aperta» in Cina a cavaliere dei secoli XIX e XX e oltre, fino ai nostri giorni.

Per questo motivo gli Stati Uniti non hanno alcun interesse per gli isolotti, gli atolli e gli scogli semisommersi degli arcipelaghi delle isole Paracelso e delle isole Spratly. Le pressioni della Rpc sulle compagnie petrolifere statunitensi affinché non collaborino con i governi delle Filippine, del Vietnam e di altri Paesi nell’esplorare ed estrarre energia dal mare sono assai sgradevoli ma, di per sé, non intaccano gli interessi strategici statunitensi nella regione.

Gli Stati Uniti sono neutrali a riguardo delle contese per la sovranità su isole e scogli e, perché queste non interferiscano con la sicurezza dei flussi, sostengono l’utilizzo di procedure legali e favoriscono lo status quo. Non sono invece per nulla indifferenti quando si tratta della libertà di navigazione. Per affermarla la marina degli Stati Uniti intraprende apposite operazioni che ignorano i limiti alla navigazione marittima ed aerea ritenuti in contrasto con le norme di diritto internazionale (freedom of navigation operations, Fon). Ad essere in gioco sono nello stesso tempo il mare come spazio di flussi economici, come campo di proiezione della potenza militare - all’occorrenza di contenimento della Rpc entro la prima catena di isole, dal Giappone all’Indonesia - e anche il princìpio in sé, da far valere per tutti i mari e gli Oceani senza eccezioni. È in questo modo che gli Stati Uniti mantengono l’egemonia regionale: presentandosi come imparziali fornitori del «bene pubblico» della sicurezza e della stabilità.

 

Uno spazio strutturato su più livelli e l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico(Asean)

È gravemente fuorviante mettere a fuoco esclusivamente le relazioni complessive o globali tra Cina e Stati Uniti trascurando la dimensione regionale: questo significa annullare la questione dell’egemonia politica per privilegiare il confronto degli apparati militari tra le potenze maggiori. E in definitiva risulta falsato anche il disegno dei possibili scenari militari.

La definizione politica della regione trascende la geografia fisica ed è essa stessa parte della posta in gioco. Nel Mar cinese orientale sono presenti un gigante economico come il Giappone e uno Stato come la Corea del Nord, il cui programma nucleare gli attribuisce un notevole potenziale di ricatto politico, non commensurato alla sua insignificanza per l’economia mondiale. L’Indonesia, gigante demografico ed economia «emergente», fa da ponte - o potenzialmente da sbarramento - tra l’Oceano Indiano e il Mar cinese meridionale e, oltre questo, l’ancor più gigantesca India è direttamente interessata agli sviluppi politici del sud-est asiatico. Con la Cina e il Pakistan l’India ha ultradecennali e non risolti conflitti sulla frontiera terrestre, sfociati in guerre (con la Cina nel 1962 e con il Pakistan nel 1947, 1965, 1971) e infiniti incidenti e scaramucce fino ad oggi. I contrasti tra Cina e India riguardano il Tibet sud-occidentale, che fu occupato dai cinesi (il resto del Tibet era stato già invaso e poi annesso dalla Rpc) mentre al capo opposto della frontiera la Rpc rivendica l’intero Stato indiano Arunachal Pradesh. Il triangolo dei confini tra India, Cina e Pakistan è l’area del mondo dove è più probabile l’uso dell’arma nucleare. Stante l’alleanza di fatto tra Rpc e Pakistan (e il contributo della prima al programma nucleare del secondo), si comprende perché il governo indiano percepisca la minaccia di una sorta di accerchiamento che con lo sviluppo della forza navale cinese - in particolare dei sottomarini - si profila ora anche come marittimo. È per questo che è il governo indiano è sensibile agli sviluppi nel Mar cinese meridionale e ha stretto relazioni, anche di collaborazione militare, con gli Stati Uniti, il Giappone, le Filippine e il Vietnam.

La regione è un campo di contrasti e di forze che creano vincoli e possibilità per l’azione delle potenze maggiori. Se la composizione di forum di discussione, accordi, alleanze e negoziati economici definisce i governi e gli interessi che scrivono le regole della regione, allora anche cosa sia interno o esterno ad essa è oggetto di lotta e molto fluidi sono i suoi confini. E se l’egemonia è una combinazione di forza e di consenso allora diventa indispensabile considerare gli Stati «minori» della regione non come soggetti passivi o marionette ma come attori a tutti gli effetti, con i loro particolari interessi, capaci di prendere iniziative che influenzano il quadro complessivo e il comportamento delle grandi potenze. Metodologicamente, gli Stati non vanno neanche considerati come un blocco monolitico. Esistono interessi diversi anche all’interno delle élites politiche ed economiche: ad esempio, i governi deboli e autoritari tendono a sviluppare le relazioni economiche con la Cina e ad accomodarne le rivendicazioni marittime; i flussi commerciali e finanziari con la Rpc sono importanti ma possono anche creare gravi problemi al capitale interno, agli artigiani e ai piccoli commercianti sottoposti alla concorrenza cinese. E occorre considerare i rapporti tra conflitto sociale, politica interna e politica internazionale, tra la politica dei governi e il nazionalismo popolare: se e come si costruisce un blocco egemonico interno e come questo si rapporta all’egemone regionale. Quindi, la questione dei rapporti di forza tra Cina e Stati Uniti comprende il confronto tra tonnellaggio e modernità delle flotte, dimensioni del prodotto interno lordo e tassi di crescita dell’economia, ma non si riduce affatto a questo. La crescita della potenza economica e militare crea certamente delle possibilità ma tra queste e la costruzione dell’egemonia politica non c’è un nesso lineare e automatico.

La complessità della scena consegue dal fatto che essa si presenta strutturata su più livelli.

Il primo livello è quello dei rapporti bilaterali tra i singoli Stati, compresi quelli di ciascuno con la Cina e con gli Stati Uniti; il secondo livello è costituito dalle relazioni multilaterali tra gli Stati, rappresentato dall’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), l’Apec, vari forum e negoziati per trattati multilaterali come il Regional comprehensive economic partnership (Rcep) e il Trans-Pacific partnership (Tpp, ora Cptpp, per il momento senza gli Stati Uniti e la Cina); il terzo livello è quello delle relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti. Ciascun livello ha la sua specificità ma tutti sono interdipendenti. E tutti i livelli sono trasversalmente attraversati da relazioni e interessi economici e politici che non muovono spontaneamente nella stessa direzione.

Tuttavia, per quanto concettualizzata questa è ancora una descrizione statica. La spiegazione richiede che si mettano a fuoco i cambiamenti sociali sottostanti le relazioni internazionali.

L’Asean è l’istituzione multilaterale più importante della regione e quella che meglio rappresenta il secondo livello, senza affatto esaurirlo. Costituita durante la guerra fredda (nel 1967) da Filippine, Singapore, Thailandia, Indonesia e Malesia, si allargò al Brunei e nella seconda metà degli anni ’90 a Vietnam, Myanmar (Birmania), Laos e Cambogia. L’ultimo ampliamento è significativo della fine delle divisioni della guerra fredda. È il risultato dell’avvio di una transizione sociale in Vietnam, dallo pseudosocialismo al capitalismo, in questo emulo dell’esempio cinese, e dell’apertura alle società transnazionali. Inoltre, l’ammissione nell’Asean di Paesi molto poveri ed economicamente dipendenti dalla Rpc come Myanmar, Laos e Cambogia ha rafforzato il gruppo filo-cinese nell’associazione. D’altra parte, dopo la fine delle dittature, l’indirizzo della politica estera di Myanmare Cambogia non è più da darsi per scontato. Tuttavia, nel luglio 2018 il governo cambogiano ha messo fuori legge il principale partito d’opposizione (che nel 2013 aveva il 45% dei seggi nell’Assemblea nazionale), il cui Presidente era stato arrestato l’anno precedente per cospirazione con gli Stati Uniti. E in Myanmarsi è recentemente molto aggravata, fino ad accuse di genocidio, la persecuzione del popolo Rohingya: quando le diplomazie «occidentali» e l’opinione pubblica internazionale attaccano un governo per massicce violazioni dei diritti umani questo, in genere, cerca l’appoggio della Rpc e della Russia.

I Paesi dell’Asean sono l’obiettivo della lotta per l’egemonia nel Mar cinese meridionale e alcuni di essi sono direttamente coinvolti nelle dispute locali con la Rpc. Il che conferisce all’Asean alcune caratteristiche particolari. Quindi, se l’evoluzione delle relazioni tra Cina e Stati Uniti dipende molto dal primo livello, in particolare dalle controversie marittime che la Rpc ha con diversi Stati della regione, il livello intermedio e multilaterale è nello stesso tempo un’arena di mediazione e di conflitto tra modi diversi d’intendere e regolare lo spazio regionale.

Quanto lo spazio politico regionale sia fluido e controverso si comprende considerando la composizione di diversi organismi in cui si struttura il confronto tra i governi. Nel 1996 la Malesia propose la formazione di un gruppo costituito dai Paesi membri dell’Asean più la Corea del Sud, il Giappone e la Cina (Asean plus 3): idea accolta con entusiasmo dalla Rpc perché tagliava fuori gli Stati Uniti e si basava sui «valori asiatici», benché Corea del Sud e Giappone fossero e siano alleati degli Stati Uniti. Ma in un secondo momento il gruppo venne allargato ad Australia, India e Nuova Zelanda: un ponte verso gli oceani Pacifico e Indiano ma che nello stesso tempo indeboliva la posizione della Rpc, aggiungendo un altro Stato alleato degli Stati Uniti e uno che con la Cina ha gravi problemi territoriali e strategici. L’intento della Rpc di mettere a punto uno spazio di discussione politica esclusivamente asiatico - tenendo fuori gli Stati Uniti - venne definitivamente battuto con la costituzione nel 2005 dello East Asian summit: nel 2011 questo è arrivato a comprendere 18 Stati, tra cui la Russia e gli Stati Uniti7.

Nei confronti della Cina gli Stati membri dell’Asean hanno due e contraddittorie esigenze: di mantenere con essa buoni rapporti politici, motivati dall’inferiorità militare e da forti interessi economici; ma, nello stesso tempo, desiderano tenerne a bada le ambizioni geopolitiche e, specialmente nel caso del Vietnam, ridurre la dipendenza dal commercio col vicino e invadente gigante. Questo implica che in quanto associazione l’Asean possa mantenersi equidistante dalle potenze maggiori - Rpc e Stati Uniti - proponendosi come un ambito di dialogo e di promozione di iniziative multilaterali a «geometria variabile»: la sua virtù consiste nella relazionalità, non nei vincoli, nel fungere da ponte e da ammortizzatore. Il problema specifico di questa associazione è che, se tutti i Paesi del sud-est asiatico condividono le due contraddittorie esigenze di cui prima, in ciascuno esse si combinano in modi diversi - e variabili nel tempo - originando differenti relazioni bilaterali dei singoli membri dell’Asean con la Rpc e gli Stati Uniti (e l’Unione europea, il Giappone e l’Australia). La contraddizione rimane latente o è temperata in periodi tranquilli, ma altrimenti si manifesta, sia a livello dell’associazione regionale che dei singoli Paesi.

Ad esempio, nonostante il vertice dell’Asean del 2012 a Phnom Penh venisse poco dopo il grave confronto tra Filippine e Rpc a Scarborough Shoal (nelle isole Spratly), per impedire la condanna della Rpc richiesta dalle Filippine la presidenza cambogiana dell’incontro riuscì a farlo concludere senza un comunicato comune, per la prima volta nella storia dell’associazione. Anche nel 2013 e nel 2014 le presidenze del Brunei e della Cambogia fecero in modo d’impedire che l’associazione si pronunciasse sull’aggravarsi della tensione di Filippine e Vietnam con la Cina.

I princìpi cardinali della politica estera vietnamita sono: nessuna alleanza militare, nessuna base militare straniera, non confidare nell'aiuto dall’estero. Terminata la lunga guerra di liberazione nazionale, per oltre trent’anni condotta, in ordine, contro la Francia, il Giappone, gli Stati Uniti (con truppe anche degli alleati Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda), dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso il principale problema geopolitico del Vietnam è la Cina, con cui il Vietnam ha fatto una guerra (nel 1979), una battaglia navale nelle isole Spratly (1988) e ha avuto innumerevoli gravi incidenti marittimi fino a questi giorni. Col tempo il Vietnam ha normalizzato le relazioni diplomatiche economiche con la Rpc ma le rivendicazioni di Pechino sono anche un ostacolo potente alla strategia di sviluppo economico di Hanoi. Si tratta di una situazione contraddittoria non insolita per i Paesi del sud-est asiatico e in urto sia con i progetti «sviluppisti» dell’élite politica che con il nazionalismo popolare vietnamita, tanto forte che a volte sfugge al controllo del governo, come nel caso delle sommosse anticinesi nel 2014, che costrinsero all’evacuazione alcune migliaia di cittadini della Rpc e distrussero decine di proprietà cinesi o considerate erroneamente tali. Quindi, pur senza stringere formalmente un’alleanza, il Vietnam ha stabilito importanti forme di collaborazione militare con gli Stati Uniti, oltre che col Giappone, l’India e le Filippine, chiaramente per rafforzarsi politicamente e militarmente contro la Rpc. L’equilibrismo tra i sorrisi della politica di buon vicinato e lo sviluppo delle capacità deterrenti nei confronti della Cina è per il Vietnam tanto importante quanto assai problematico.

A loro volta, Filippine e Vietnam hanno contrastanti rivendicazioni sull’arcipelago delle isole Spratly, tuttavia sono anche gli Stati che più hanno subito gravi azioni coercitive da parte della Rpc e che, sotto questo aspetto, hanno fatto fronte comune per contrastarne le pretese. Nell’ambito multilaterale sono al polo opposto della Cambogia; la Malesia è in posizione intermedia, ma l’Indonesia - poco toccata dalle dispute per la sovranità - muove da una posizione simile a quella malese a una assai preoccupata dalle manovre della Rpc.

 

Il ritardo degli Stati Uniti nel ridefinire i termini dell’egemonia e le rivendicazioni territoriali della Cina

La pletora d’organismi politici e di accordi e negoziati economici nell’Asia del sud-est è indicativa di due fenomeni.

Il primo è l’integrazione della Rpc nell’economia mondiale e la crescita della sua potenza economica e politica. L’altro è il relativo disinteresse che gli Stati Uniti hanno a lungo avuto per la riorganizzazione dei rapporti diplomatici ed economici nel sud-est asiatico, privilegiando le relazioni con la Cina durante le amministrazioni Clinton e le questioni della sicurezza e della lotta al terrorismo durante le amministrazioni di Bush figlio.

Durante la guerra fredda il ruolo politico-militare degli Stati Uniti nella regione era chiarissimo: di contenimento dell’influenza sovietica e anche di quella cinese fino all’alleanza di fatto stabilita da Mao e Nixon, e di rollbackdella sovversione nella regione. Pur preferendo regimi liberali e moderatamente anticolonialisti - nei confronti delle vecchie potenze coloniali - anche in questa parte del mondo era di fatto difficilissimo impedire che i primi non aprissero spazi ai partiti comunisti e al conflitto sociale e che nel nazionalismo non si esprimessero anche più radicali aspettative di cambiamento sociale, che spaventavano innanzitutto le éliteslocali. Stante la fragilità dei nuovi Stati postcoloniali, il ruolo di garante contro la sovversione imponeva agli Stati Uniti di accordarsi con gli apparati militari e il potere economico e politico locale, sostenendo regimi autoritari e dittatoriali - dal Vietnam del Sud alla Corea del Sud, passando dalle Filippine - e di accettare e collaborare a sanguinosi colpi di Stato come quello in Indonesia nel 1965. Nel sud-est asiatico non è mai esistita un’organizzazione politico-militare come la Nato. Proposte in quella direzione furono avanzate dagli Stati Uniti al tempo delle guerre franco-vietnamita e di Corea ma vennero bloccate dalla Francia e dal Regno Unito; e dopo l’accordo di Ginevra sulla divisione del Vietnam gli Stati Uniti preferirono trattati d’alleanza bilaterali8. L’alleanza militare Seato, attivata nel 1955, non aveva un comando centralizzato e tra i Paesi dell’Asia comprendeva soltanto Filippine, Pakistan e Thailandia. In pratica, funse da copertura per l’intervento statunitense in Vietnam e terminò con esso.

Se l’integrazione politico-militare della regione era centrata su una serie di trattati e accordi bilaterali al cui centro erano gli Stati Uniti, la sua integrazione economica è stata invece un processo molto più complesso, articolato sui developmental States (o Stati «sviluppisti») di Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e sullo sviluppo della divisione internazionale del lavoro tra questi e le altre economie regionali: un processo il cui motore è stato il capitalismo giapponese. Gli Stati Uniti agevolarono lo sviluppo dei developmental States tollerando cambi sottovalutati, restrizioni alle importazioni e agli investimenti diretti, pratiche chiaramente neomercantiliste, mentre aiuti e spese militari per la guerra in Vietnam contribuirono alla crescita economica di Filippine e Thailandia. Ma il boom e la vera integrazione economica nella regione del Mar cinese è conseguenza del processo noto come flying geese, che combina il modello del ciclo del prodotto con l’investimento diretto all’estero: col maturare della struttura industriale e dello spostarsi della composizione delle esportazioni delle economie più avanzate della regione verso prodotti più sofisticati, le produzioni a più alta intensità di lavoro vengono portate in Paesi in cui il costo della forza lavoro è inferiore. Il modello reale implica la formazione di una gerarchia del potere economico e la riproduzione dello sviluppo ineguale e combinato su scala regionale. Tuttavia, il successo dei developmental States e delle economie del sud-est asiatico, basato su un alto tasso d’accumulazione, sugli investimenti esteri, la divisione internazionale del lavoro e le esportazioni, può essere integrato nell’ortodossia economica e senza dubbio è una delle più notevoli trasformazioni strutturali dell’economia mondiale, parte fondamentale di quel che si evoca col termine globalizzazione.

Tutto ciò non avvenne senza contraddizioni. Prima della Cina, lo Stato «sviluppista» di maggior successo è stato il Giappone: è da ricordarsi che negli anni ’80 del secolo scorso molti si aspettavano che proprio dal Giappone sarebbe venuta la sfida agli Stati Uniti per l’egemonia regionale, se non mondiale. Evidentemente così non è stato, anzi, il Giappone resta il più importante alleato degli Stati Uniti in Asia e un baluardo della sua egemonia nel Mar cinese. Una delle ragioni per cui il Giappone non poteva sostituire l’egemonia statunitense nella regione è che, nonostante l’integrazione economica - o proprio per la dipendenza dal Giappone che questa comportava - gli altri Stati della regione non erano affatto propensi a inimicarsi gli Stati Uniti: un problema che per la Cina è ora molto più forte. Un’altra ragione è che dall’esplosione della bolla finanziaria nei primi anni ’90 - un sintomo interno del cambiamento del regime d’accumulazione - si è esaurito il lungo periodo d’alti tassi di crescita del capitalismo giapponese: altra tendenza con cui ora anche la Cina deve fare i conti. Il terzo motivo è che, a differenza di molti intellettuali intrappolati da Tucidide, non pare proprio che i politici giapponesi abbiano mai pensato di sfidare strategicamente gli Stati Uniti. Un quarto motivo dell’impossibile sfida egemonica del Giappone è stato proprio l’ascesa economica e politica della Cina come grande potenza regionale negli anni ’90.

La trasformazione della Rpc da pseudosocialismo totalitario a developmental State capitalistico di successo è il cambiamento sociale fondamentale della regione. Il problema che pone l’odierna Rpc a diversi Stati del Mar cinese meridionale non è certo quello della «sovversione comunista» ma semmai di un nuovo imperialismo che intende riscrivere le regole della regione a suo modo, facendo anche ricorso alla coercizione.

Nonostante temporanee e innocue polemiche (come il breve embargo dopo il massacro di piazza Tienanmen), le amministrazioni statunitensi hanno privilegiato le questioni economiche con il Giappone, da una parte, l’integrazione della Cina nell’economia mondiale e la sua collaborazione nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, dall’altra. Invece per quasi trent’anni, fino alla svolta verso l’Asia di Obama, per non turbare le relazioni con la Rpc e per priorità emergenti in altri teatri geopolitici - la transizione della Russia, l’allargamento della Nato, le guerre nei Balcani, poi la «guerra al terrorismo» - gli Stati Uniti ebbero un atteggiamento reattivo più che propositivo nei confronti dei problemi che intanto sorgevano nel Mar cinese meridionale, in sostanza mantenendo il tipo di relazioni che si era formato molto prima, nell’epoca tramontata della guerra fredda. Il pivot to Asia dell’amministrazione Obama fu un tentativo di aggiornare l’egemonia statunitense nella regione. Criticato dai «falchi» statunitensi come debole sul piano militare, in effetti fu un successo dal punto di vista politico nella regione (anche per la prudenza nel dispiego della forza). Il punto è che in preda allo pseudopopulismo l’amministrazione Trump ha, per il momento, tirato fuori gli Stati Uniti dalla proposta centrale di Obama per definire regole e meccanismo istituzionale nel Pacifico: il Trans-Pacific partnership. Tuttavia, le amministrazioni vanno e vengono mentre persistono i problemi strutturali: per i governi della regione non è l’egemonia statunitense ad essere in discussione ma l’aggiornamento dei suoi modi in un contesto completamente diverso da quello dell’inizio della transizione al capitalismo della Cina e precedente la crescita delle sue ambizioni geopolitiche. È paradossale, ma ora sembra che le misure più convenienti alla conservazione dell’egemonia statunitense nella regione siano prese non dall’amministrazione Trump ma dai paesi alleati, si tratti della gestione della questione nucleare in Corea o della continuazione del Tpp.

Dall’altra parte, il lancio nel 2014 della Banca asiatica per l’investimento nelle infrastrutture e la proposta della nuova «via della seta» terrestre e marittima da parte del presidente cinese Xi Jinping svolge diverse funzioni. Innanzitutto, può fungere da sbocco per la sovraccumulazione di capitale e la sovrapproduzione industriale della Rpc, il cui ritmo di crescita è ora ufficialmente destinato a rallentare; in secondo luogo, costituisce un canale d’influenza politico alternativo a istituzioni come il Fondo monetario internazionale, nei cui vertici la Rpc è stata cooptata ma che non può utilizzare per i propri interessi; in terzo luogo, costituì una reazione difensiva alla «svolta» verso l’Asia dell’amministrazione Obama, volta a istituzionalizzare e consolidare le regole di funzionamento dell’economia regionale.

Tutto ciò deve però fare i conti con le conseguenze delle rivendicazioni marittime della Rpc, questione è piena d’ambiguità. Non si pone affatto in modo lineare ma come primo approccio si possono considerare gli argomenti esposti nel documento pubblicato dal Ministero degli affari estericinese9nel 2016, in risposta al giudizio emesso del tribunale internazionale d’arbitrato su istanza delle Filippine tre anni prima.

Secondo questo documento «le attività del popolo cinese nel Mar Cinese Meridionale risalgono a oltre 2000 anni fa», fatto che si vorrebbe provare indicando una serie di titoli della letteratura cinese a partire dall’epoca Han (206 a.C.-9 d.C. per gli Han anteriori e 25-220 d.C. per gli Han posteriori). Da ciò si vorrebbe derivare come «diritto storico» la sovranità cinese sugli arcipelaghi delle isole Paracelso e Spratly. Insieme a una mappa ufficialmente presentata alle Nazioni Unite nel 2009, che con nove trattini circoscrive un’area equivalente all’80% o al 90% del Mar cinese meridionale, ciò induce a pensare che la Rpc intenda controllare questo spazio marittimo.

Citazioni letterarie, attività dei pescatori nelle isole e mappe non sono prove dell’esercizio di sovranità statale, men che mai effettiva. Non significano neanche che si avesse chiara nozione degli arcipelaghi né che essi non fossero conosciuti e utilizzati anche da altri popoli, tutt’altro. Ad esempio, nel caso delle isole Paracelso esiste anche la letteratura del Vietnam ed essa indica che l’arcipelago fosse parte dell’amministrazione vietnamita nei primi anni della dinastia Nguyen (inizio del XIX secolo); e nelle Filippine è stata preparata un’interessante esposizione di 60 carte geografiche, dal 1136 durante l’impero Song fino al 1933, che smentiscono le rivendicazioni della Rpc10. E a prescindere da citazioni letterarie e da antiche mappe, è storiograficamente assodato che tra i grandi imperi quello cinese fu sempre il più continentale e che dopo le grandi spedizioni dell’ammiraglio Zheng He (prima metà del XV secolo) non mostrò alcun interesse per l’Oceano oltre la navigazione costiera né esercitò alcuna reale giurisdizione o sovranità sulle isole Paracelso o sulle isole Spratly. E men che mai questo sarebbe stato possibile a partire dal XVI secolo, quando l’Oceano Pacifico iniziò ad essere un «lago spagnolo» ma conteso tra portoghesi, olandesi, britannici e francesi, e pirati e corsari11. Scherzando, si possono immaginare Sandokan e i suoi tigrotti della Malesia solcare le acque delle Spratly alla ricerca dell’odiato raja bianco James Brooke - tra l’altro, realmente esistito - o sfuggire a una fregata britannica, ma è più difficile che questi avvistassero una giunca imperiale cinese.

Scherzi a parte, le attuali contese nel Mar cinese meridionale sono il prodotto della nascita di Stati indipendenti in seguito alle lotte contro gli imperialismi e alla fine degli imperi coloniali dopo la Seconda guerra mondiale: non appare sensato accampare remoti «diritti storici», per di più d’antica derivazione imperiale.

Benché la Cina rivendichi la sovranità sulle Xisha qundaoe le Nansha qundao (i nomi cinesi rispettivamente delle isole Paracelso e Spratly) in virtù di «diritti storici» fatti risalire addirittura a epoche remote, la verità è che essa è letteralmente l’ultima arrivata nella recente corsa all’insediarsi nell’altrimenti disabitato arcipelago delle Spratly, i cui inospitali rilievi sono molto più vicini alle coste delle Filippine, della Malesia e del Vietnam che a quelle cinesi.

Le rivendicazioni territorial-imperiali della Cina svolgono una doppia funzione: di legittimazione interna, utilizzando il nazionalismo e l’idea della «riscossa» cinese dopo un lungo «secolo delle umiliazioni»; e di mezzo di pressione sugli Stati del Mar cinese ai quali il «legittimo proprietario» può concedere iniziative di «sviluppo congiunto» delle risorse marine. Il punto da tener bene a mente è che lo «sviluppo congiunto» come inteso dalla Rpc ha due gravi implicazioni: la prima è la legittimazione di fatto delle rivendicazioni della Rpc sulle acque delle zone economiche esclusive degli altri Stati del Mar cinese meridionale; la seconda è che si definisce in modo bilaterale e comunque escludendo il ricorso a procedure d’arbitrato e alle norme della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del mare (Unclos), di cui avanti. In altri termini, lo «sviluppo congiunto» instaurerebbe una relazione squilibrata a favore della Rpc. Per cui, nonostante la ricchezza delle casse del governo cinese sia formidabile, questa linea ha riscosso successi assai limitati e precari, generando corruzione e contro-reazioni nazionaliste di notevole forza specialmente nelle Filippine e in Vietnam. Dato l’ovvia differenza quanto a potenza militare e alla squilibrata interdipendenza economica con la Cina queste reazioni sono tanto più significative.

 

L’importanza della politica interna degli Stati «minori»: i casi delle Filippine, Malesia e Sri Lanka

La questione dell’egemonia si fa ancor più complessa quando si consideri la politica interna di un Paese in cui si tengono regolari elezioni come le Filippine. In questo caso, dopo la caduta della dittatura di Ferdinand Marcos il nazionalismo democratico giocò contro gli Stati Uniti, che dovettero abbandonare la base aerea di Clark e quella navale di Subic bay nel 1992, per molti decenni le più grandi basi militari statunitensi fuori del territorio nazionale e un perno delle operazioni durante le guerre di Corea e del Vietnam. Ma dopo l’incidente del Mischief Reef tra Filippine e Cina nell’arcipelago delle Spratly, tre anni dopo i militari statunitensi tornarono nelle Filippine, fino a quando non venne messa in dubbio la costituzionalità della loro presenza in supporto della campagna dell’esercito nazionale contro i gruppi terroristi islamici; inoltre, quando un lavoratore filippino fu rapito in Iraq, il governo fu costretto a ritirare il proprio contingente dalla coalizione di «volenterosi» nel Paese mediorientale. La presidente allora in carica, Gloria Macapagal-Arroyo (2001-2010), era stata la vice di Joseph Estrada, caduto tra le proteste popolari, messo sotto accusa e condannato all’ergastolo per corruzione ma da lei graziato. Fino a quel momento le Filippine erano tra i «volenterosi» nella guerra al terrorismo ma, una congiuntura di fattori spinse la Presidente a giocare la «carta cinese». Da una parte, l’amministrazione Bush minacciò di ridurre gli aiuti statunitensi; e all’interno del Paese l’amministrazione Macapagal-Arroyo era politicamente indebolita da alcuni scandali. Alla Presidente era indispensabile l’appoggio di Jose de Venecia, presidente della Camera ed ex capo di quel che era il più importante partito filippino ma questi e Eduardo Ma?alac, il presidente della società petrolifera statale filippina, avevano da molto tempo rapporti d’interesse con la Cina. Aggirando i ministeri degli esteri e della difesa - titolari della questione delle Spratly - de Venecia e Ma?alac orientarono Macapagal-Arroyo verso un accordo bilaterale con la Cina per l’esplorazione petrolifera anche nelle acque della zona economica esclusiva delle Filippine (Joint marine seismic undertaking, Jmsu); nello stesso periodo aumentarono moltissimo gli aiuti dalla Rpc, vennero stipulati accordi per quasi 900 milioni di dollari con la Zhongxing telecommunication equipment company (Zte) e per le rinnovare le ferrovie nel nord del Paese. Il Vietnam, che protestava per essere stato tagliato fuori dall’operazione, venne poi incluso nell’accordo, firmato nel marzo 2005 dalla filippina Pnoc-Ec, da China national offshore oil corp. (Cnooc) e da PetroVietnam; ai cinesi spettava la raccolta dei dati marini, ai vietnamiti la loro elaborazione e ai filippini l’interpretazione. La Presidente terminò però il mandato tra l’impopolarità generale e le proteste per la corruzione legata agli investimenti cinesi, cancellati o non rinnovati; la Camera destituì de Venecia dalla carica di presidente; terminato nel 2008, l’accordo Jmsu non venne rinnovato. Macapagal-Arroyo fu accusata di tradimento dell’interesse nazionale a favore della Rpc e di aver violato la Costituzione filippina, secondo cui «l'esplorazione, lo sviluppo e l'utilizzo delle risorse naturali devono essere sotto il pieno controllo dello Stato» e «lo Stato proteggerà il patrimonio marino della nazione nelle sue acque arcipelagiche, sul mare territoriale e nella zona economica esclusiva e riserverà il suo uso e godimento esclusivamente ai cittadini filippini (art. 12, comma due)12.In effetti, il Jmsu era un accordo preliminare a quel tipo di «sviluppo congiunto» che avrebbe sottratto alle Filippine il pieno controllo di risorse nazionali. Tutt’altra linea tenne Benigno Aquino III, eletto sull’onda dell’indignazione popolare, la cui presidenza (2010-2016) coincise con la crescita della tensione con la Rpc nel Mar cinese meridionale. Inizialmente l’amministrazione Aquino fu alquanto cordiale nelle relazioni con la Rpc: boicottò la cerimonia per il premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo ed estradò 14 taiwanesi responsabili di frodi elettroniche nei confronti di cittadini della Rpc; Aquino fece anche una visita a Pechino, dove non mancarono le promesse di risolvere pacificamente le dispute marittime e di raddoppiare gli scambi commerciali tra Cina e Filippine. Tuttavia, nel febbraio 2011 una fregata della Rpc sparò alcuni colpi d’avvertimento all’indirizzo di un peschereccio filippino nelle vicinanze del Jackson atoll nelle Spratly; e il mese successivo due vascelli della Rpc molestarono una nave filippina che conduceva esplorazioni petrolifere ben dentro la zona economica esclusiva. Alla protesta diplomatica venne risposto che, data la sovranità della Rpc sulle isole Nansha (le Spratly) le Filippine dovevano chiedere permesso prima di condurre simili operazioni. D’allora l’amministrazione Aquino fu tra i più convinti sostenitori della «svolta» di Obama verso l’Asia e una spina nel fianco della politica cinese nella regione.

Tuttavia, che dire degli effetti sulla politica estera e militare delle più recenti elezioni nelle Filippine e in Malesia? In prima approssimazione, sembrerebbe che i due Paesi si siano scambiati i ruoli.

Nonostante i non disprezzabili risultati socioeconomici di Aquino, nel giugno 2016 Rodrigo Duterte è riuscito a farsi eleggere Presidente delle Filippine descrivendo un Paese che ha assolutamente bisogno di un salvatore, ovviamente lui, una mistura di linguaggio pseudopopulista talmente volgare da far impallidire Trump, le promesse di eliminare la delinquenza entro sei mesi e di provvedere al misero stato dei trasporti. Poteva vantare la sua opera di sindaco di Davao, dove erano stati fisicamente eliminate alcune centinaia di delinquenti. In campagna elettorale e all’inizio del mandato Duterte modificò più volte la posizione circa i rapporti con la Cina e gli Stati Uniti, ma dopo le critiche statunitensi alla sua campagna di eliminazione fisica degli spacciatori si è decisamente orientato verso la Rpc, addirittura lasciando cadere l’importante vittoria legale contro la Rpc appena conseguita col giudizio dell’arbitrato internazionale. Duterte intende beneficiare di importanti investimenti cinesi, specialmente nei trasporti e nella sua isola natale di Mindanao. Tuttavia, è assai improbabile un allineamento di Duterte alla Rpc di stile cambogiano. Questo massacratore di piccoli trafficanti di droga rientra bene nei parametri della politica estera cinese, indifferente ai regimi politici interni e al «formalismo borghese» dei diritti umani; ma proprio per questo potrebbero migliorare le relazioni con l’amministrazione Trump. Il demagogo filippino deve fare anche i conti col nazionalismo popolare e con l’apparato militare: ragion per cui nelle dichiarazioni sue e del Ministro della difesa si alternano l’idea che contro la Cina non c’è niente da fare, non proprio una formula d’amore, il rafforzamento delle difese delle isole, la promessa di cambiare linea qualora la Cina dovesse sfruttare le risorse filippine13. Duterte ha molto ridimensionato le relazioni militari con gli Stati Uniti ma le ha rafforzate col Giappone, ricevendo aiuti militari da un alleato degli Stati Uniti che ha un contenzioso territoriale di non poco conto con la Rpc. Infine, tra maggio e ottobre del 2017 un gruppo affiliato all’Isis occupò la città di Marawi in Mindanao: la lunga battaglia dimostrò i limiti dell’esercito filippino e l’importanza dell’appoggio delle forze speciali statunitensi. Per formazione, collaborazione, armamento i militari filippini sono molto legati a quelli statunitensi.

Le forti oscillazioni della politica estera filippina mostrano apertamente le contraddittorie tensioni a cui sono sottoposti tutti i Paesi della regione nei confronti della Rpc e l’importanza della politica e dei conflitti interni nella definizione delle relazioni triangolari con la Rpc e gli Stati Uniti; e forse Rodrigo Duterte riuscirà a esprimerle in un’unica presidenza.

Quanto alla Malesia, per molto tempo questo è stato uno dei Paesi più ben disposti verso la Cina, svolgendo un ruolo di mediazione e conciliazione tra essa e l’Asean, specialmente durante gli oltre vent’anni (1981-2003) in cui fu primo ministro Mahathir Mohamad: sostenitore della specificità dei «valori asiatici» e critico del neoliberismo, Mahathir è famoso per aver introdotto misure di controllo dei movimenti di capitale durante la crisi finanziaria del 1997-1998. Tuttavia, tornato al potere nel maggio 2018 Mahathir ha dimostrato d’aver completamente cambiato prospettiva: il suo predecessore è stato arrestato ed è sotto inchiesta per corruzione a favore degli investitori cinesi mentre, per non aggravare il debito estero, il nuovo governo ha cancellato o sospeso investimenti dalla Cina per quasi 20 miliardi di dollari14. La politica di Mahathir muove dunque in senso contrario alla Rpc.

Una considerazione più ampia è che in Asia l’imperialismo economico cinese sembra affiancarsi o addirittura prendere il posto di quello statunitense nel dare origine a proteste popolari, principalmente dovute all’impatto ambientale dei grandi progetti, all’esproprio di terre e a reazioni nazionaliste. La risposta ufficiale cinese e dei complottisti del mondo è pronta: tutta opera della Central intelligence agency, di Soros ecc. Ma il fatto si spiega meglio con il volume e la novità degli investimenti diretti dalla Cina, la corruzione delle élite politiche locali che li accompagna, l’indifferenza o l’assai scarsa attenzione nei confronti delle comunità interessate da progetti d’investimento di grande impatto ambientale, il loro costo che contribuisce all’indebitamento internazionale, l’importazione di forza lavoro cinese. La «trappola del debito» non è più esclusiva delle banche occidentali. Ad esempio, per il progetto del porto di Hambantota lo Sri Lanka ha ottenuto 301 milioni di dollari in prestito dalla Cina a un tasso d’interesse del 6,3% contro lo 0,25-3% della Banca mondiale e della Asian development bank (istituita nel 1966 è la storica banca multilaterale per finanziare lo sviluppo in Asia, controllata dal Giappone). Incapace di ripagare il debito, il governo dello Sri Lanka ha stipulato un accordo per cedere l’80% della proprietà del porto alla China merchants port holdings (società statale): fatto che ha causato forti proteste. Il balzo del debito internazionale dello Sri Lanka dal 36% del Pil nel 2010 al 90% del Pil nel 2015 è in gran parte imputabile al debito contratto con le società del capitalismo di Stato cinese per grandi progetti d’investimento.

La politica interna degli «altri» Paesi del sud-est asiatico conta molto anche per la pianificazione delle possibili operazioni militari. La crescita della flotta e delle capacità d’interdizione d’area (A2/Ad nel gergo) della Rpc modificano il quadro militare nel Mar cinese, ma alla forza statunitense già presente si deve aggiungere lo sviluppo delle capacità A2/Ad degli Stati della regione, rivolte alla deterrenza nei confronti della Rpc. Un processo che in caso di conflitto potrebbe trasformare gran parte del Mar cinese in un mare di nessuno, col risultato però di confinare le relazioni della Cina alla massa terrestre, negandole del tutto la via marittima che invece continuerebbe a essere praticabile per gli altri Paesi, aggirando il Mar cinese a costi di trasporto maggiori.

Dall’interazione tra i molti attori regionali, tra le molteplici poste e i differenti tavoli su cui si svolge il gioco, tra interessi più o meno calcolabili ed effetti non voluti, decisioni dei governi e reazioni popolari, scaturiscono contraddizioni e paradossi, vincoli e possibilità che non rientrano in uno schema ispirato dalla guerra fredda, rigidamente dicotomico e centrato solo sugli Stati, per di più concepiti monoliticamente, e sulle potenze maggiori.

In definitiva è impossibile districare l’acquisizione geopolitica di isolette e formazioni geografiche, l’utilizzo delle risorse marine, il controllo sullo spazio marittimo e aereo, gli interessi locali e quelli strategici, ma per le ragioni precedenti ritengo opportuno muovere da una visione dal basso, cioè delle relazioni e dei contrasti locali per poi definire come questi influenzino e siano influenzati dalle questioni strategiche.

 

La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del mare (Unclos)

Nei termini del diritto internazionale le dispute tra i Paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale e orientale ruotano intorno all’interpretazione e all’applicazione delle norme sostanziali e della procedura d’arbitrato della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del mare (Unclos) o Convenzione di Montego bay. Dopo nove anni di negoziati il trattato venne concluso nel 1982 ed entrò in vigore nel 1994: è bene tenere a mente questa periodizzazione perché utile per comprendere processi ed eventi accaduti nel Mar cinese meridionale in quell’arco di tempo e anche alcuni sviluppi più recenti. La convenzione è stata firmata da 168 Stati e ratificata da 157, tra cui la Rpc e tutti gli altri Stati del Mar cinese; non può essere firmata da Taiwan in quanto non è più membro dell’Onu. Gli Stati Uniti si attengono alla Unclos, ma non l’hanno ratificata, inizialmente per le riserve sulla parte XI, relativa al sottosuolo marino; caduto il problema nel 1994, è uno dei tanti trattati alla cui ratifica manca la necessaria maggioranza dei 2/3 del Senato, principalmente a causa della resistenza della destra repubblicana.

Di questa complessa «costituzione del mare» interessa qui sapere che essa definisce una zona di acque territoriali di 12 miglia nautiche, una zona contigua non superiore alle 24 miglia, e una zona economica esclusiva (Eez) di 200 miglia nautiche (circa 370 chilometri), che attribuisce a uno Stato l’esclusività dello sfruttamento delle risorse naturali, incluso fondo e il sottosuolo dei mari e degli oceani15. In forza della Convenzione una Eez si estende non solo lungo la costa di uno Stato ma anche intorno alle isole sulle quali ha sovranità. Su scala planetaria questo significa che per effetto di possedimenti coloniali antichi e recenti sparsi tra gli oceani, alcuni Stati dispongono di lontane Eez più ampie di quelle conseguenti dalle loro linee costiere. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno Eez per 12236 km2, 80% oltremare (includendo l’Alaska e le Hawaii); la Francia per 11035 km2, 97% oltremare; la Russia 6696 km2, 83% oltremare (in rapporto alla Russia europea); il Regno Unito 6031 km2, 89% oltremare; l’Australia 2611 km2, in questo caso solo il 29% oltremare16. La Cina, ha una Eez indiscussa di 900km2.

Pe comprendere le motivazioni del tribunale d’arbitrato internazionale del 2016 è molto importante prendere nota che per la Unclos «un'isola è una distesa naturale di terra circondata dalle acque, che rimane al di sopra del livello del mare ad alta marea» (art. 121-1); e poiché «gli scogli che non si prestano all'insediamento umano né hanno una vita economica autonoma non possono possedere né la zona economica esclusiva né la piattaforma continentale» (art. 121-2) si può ritenere che i requisiti di un’isola siano d’essere naturale, abitabile, economicamente vitale. S’intende quanto sia importante definire isola una certa formazione naturale e determinarne la sovranità.

Altre questioni delicate e oggetto di controversia sono la precisa determinazione dei diritti associati a una Eez, il «passaggio inoffensivo» delle unità militari straniere (previsto dalla Unclos) e, fondamentale per la linea della Rpc nei confronti delle controversie nel Mar cinese, il fatto che per la pacifica risoluzione delle controversie si accetti o meno il ricorso ad arbitrato presso Corte competente. Questi sono i motivi per cui affioramenti altrimenti insignificanti sono oggetto di controversie diplomatiche, di prove di forza e scontri fisici, ragione di proteste popolari e alimento per il nazionalismo.

 

Cina, Giappone, Corea e Taiwan: la specificità del Mar cinese orientale e la relazione col teatro marittimo meridionale

L’arcipelago delle isole Senkaku (in giapponese) o Dyaoyu (in cinese) nel Mar cinese orientale è conteso tra la Rpc, Taiwan e il Giappone: quest’ultimo le strappò all’impero cinese nella guerra del 1894-1895 e ne detiene la sovranità, dopo l’intermezzo dell’occupazione statunitense.

Il nazionalismo popolare cinese è giustamente molto più sensibile alla memoria storica del «secolo dell’umiliazione» (wuwang guochiin cinese)e delle aggressioni subite dal potente vicino giapponese che alle diatribe territoriali nel Mar cinese meridionale. E questo nazionalismo trova alimento nella «revisione storiografica» nazionalista in corso in Giappone, che ricorda nello scopo lo historikerstreitin Germania negli anni ’80: la liberazione della presente e delle future generazioni dal senso di colpa l’imperialismo e per gli eccidi della Seconda guerra mondiale.

Tuttavia, dopo il massacro di piazza Tienanmen il Partito comunista cinese lanciò una grande campagna «per l’educazione patriottica» centrata sul «non dimenticare il secolo dell’umiliazione» (wuwang guochiin cinese) che è del tutto strumentale alla legittimazione interna del regime attraverso l’affermazione dello status di grande potenza. Come la mitizzazione della «grande guerra patriottica» in Russia, la storiografia è in questo caso posta al servizio di obiettivi politici contemporanei.

Per motivi costituzionali e politici la dottrina e l’apparato militare giapponese sono difensivi, ma dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso si sono progressivamente spostati dalla difesa del territorio nazionale alla difesa più avanzata e mobile, processo acceleratosi dopo la fine della guerra fredda e ancor più dal 2010. Specialmente il primo ministro Shinz? Abe - nuovamente in carica dal 2012 - muove verso il superamento dei limiti costituzionali all’impiego delle forze d’autodifesa e della vendita di armi. La nuova interpretazione dell’articolo nove della Costituzione ammette ora nell’autodifesa anche l’attacco a un Paese con cui il Giappone abbia strette relazioni; e il Giappone ha fornito dieci motovedette alle Filippine (raddoppiandone la flotta) e sei al Vietnam, Stati con cui ha stabilito accordi di cooperazione nel campo della difesa. Anche più notevoli sono gli accordi di questo tipo con l’Australia nel 2007 e con l’India l’anno seguente, gli unici che il Giappone abbia oltre l’alleanza con gli Stati Uniti.

Si dice che questo nuovo indirizzo della politica estera giapponese nel XXI secolo - che precede il secondo governo Abe ma da questi è stato decisamente rafforzato - sia l’equivalente nipponico del pivot to Asiadell’amministrazione Obama. Lo stesso potrebbe dirsi della politica verso oriente del governo nazionalista indù di Modi.

Ovviamente l’incorporazione di Taiwan è il più importante obiettivo geopolitico della Rpc, tanto che la cessazione delle ufficiali relazioni diplomatiche tra uno Stato e Taipei è condizione per investimenti dalla Cina. Tuttavia, il conseguimento di questo obiettivo pare lontanissimo. Dalla fine della dittatura del Kuomintang nel 1991 si è rafforzata una distinta identità nazionale taiwanese, la cui espressione sono i risultati elettorali del Partito progressista democratico (Ppd), il cui candidato vinse per la prima volta le elezioni presidenziali nel 2000, mentre la coalizione «blu» intorno al Kuomintang mantiene una posizione che può dirsi pancinese e più accomodante con Pechino. Addirittura, per accrescere le possibilità di vittoria del Kuomintang nelle vicine elezioni presidenziali, per la prima volta nella storia dei due Stati nel novembre 2015 Xi Jinping incontrò a Singapore il presidente di Taiwan Ma Ying-jeou, già a capo del Kuomintang. Ciò però non impedì che due mesi dopo fosse eletta Presidente la candidata del Ppd,Tsai Ing-wen (con una differenza di 25 punti di percentuale sui votanti relativamente al candidato del Kuomintang), e che questo partito conquistasse anche per la prima volta la maggioranza parlamentare.

Né pare possibile tentare la conquista militare di Taiwan, non solo per il serio rischio di guerra con gli Stati Uniti che questa comporterebbe ma anche perché Taiwan pare essere in grado di respingere da sola una forza d’invasione anfibia della Rpc. Perché un’invasione abbia successo l’isola dovrebbe essere preventivamente sottoposta a massicci bombardamenti.

Infine, la divisione della Corea in Sud e Nord e il fatto che da un quarto di secolo la Corea del Nord giochi periodicamente la carta del programma nucleare per poi giungere a un accordo, puntualmente disatteso da nuovi test nucleari e missilistici per ricominciare il ciclo, è altro fattore strutturale dell’alleanza della Corea del Sud e del Giappone con gli Stati Uniti; per la Rpc, invece, i dirigenti nordcoreani sono delle pesti indisciplinate ma che non si possono far cadere.

Giappone, Corea del Sud e Taiwan sono i più sicuri e potenti alleati degli Stati Uniti nella regione, dragoni ben prima dell’ascesa della Rpc. Un fatto che da solo è sufficiente a far dubitare delle possibilità di successo di un’egemonia politica della Rpc nella regione.

Qui non mi soffermo ulteriormente sulla situazione nel Mar cinese orientale, perché questa è più chiara di quella nel Mare cinese meridionale, dove si svolge la partita politica più complessa e piena di ambiguità; inoltre, le questioni della Corea e di Taiwan hanno una propria specificità. I due teatri sono però connessi: Taiwan è in una posizione di cerniera tra Mar cinese orientale e Meridionale.

 

Note

1 Si veda ad es. Christopher Layne, «The waning of US hegemony. Myth or reality? A review essay», in International security, vol. 34, n.1, 2009.

2 Selected works of Deng Xiaoping, tre volumi pubblicati da Foreign languages press, Pechino, sono disponibili in rete all’indirizzo https://dengxiaopingworks.wordpress.com. Di particolare interesse per il nesso tra riforme economiche, continuità della dittatura e politica estera è il terzo volume, che comprende gli scritti 1982-1992.

3 White paper on China's national defense in 2002, PRC Information office of State council, 9 dicembre 2002, People’s daily on line(Renmnin ribao), quotidiano del Partito comunista cinese, http://en.people.cn/features/ndpaper2002/nd.html; la seconda citazione è da China’speaceful development, Information office of State council,The People’s Republic of China, Pechino, settembre 2011, http://english.gov.cn/archive/white_paper/2014/09/09/content_281474986284646.htm.

White paper on military strategy, Information office of State council,The People’s Republic of China, Pechino, maggio, 2015, http://eng.mod.gov.cn/Press/2015-05/26/content_4586805.htm. Per la trappola di Tucidide: Graham Allison, Destined for war. Can America and China escape the Thucydides trap?, Houghton Mifflin, New York 2017, trad. ital. Destinati alla guerra. Possono l'America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi, Roma 2018.

4 Una sintesi della questione: «How much trade transits the South China sea?», https://chinapower.csis.org/much-trade-transits-south-china-sea/#easy-footnote-bottom-1-3073

5 Per la Energy information administration degli Stati Uniti le stime delle riserve provate e probabili di petrolio e di gas nel Mar cinese meridionale sono circa dieci volte inferiori a quelle della China national offshore oil corporation, il braccio del capitalismo di Stato cinese nel settore. Stando alla stima statunitense si tratta di quantità equivalenti a 1/30 delle riserve provate di petrolio del Venezuela o a metà o 1/3 delle riserve provate di petrolio e di gas del Mar Caspio. Tabella on-line delle stime: http://www.jpolrisk.com/chinas-60-trillion-estimate-of-oil-and-gas-in-the-south-china-sea-the-strategic-implications/)

6 Per una bella serie di carte tematiche del Mar cinese meridionale, si veda http://www.southchinasea.org/maps/territorial-claims-maps/

7 Sulla diplomazia e la questione dell’egemonia nell’area: Evelyn Goh, The struggle for order. Hegemony, hierarchy, and transition in post-cold war East Asia, Oxford University Press, Oxford 2013 e a cura della stessa Rising China’s influence in developing Asia, Oxford University Press, 2016; Bill Hayton, South China sea. The struggle for power in Asia, Yale University Press, New Haven e Londra 2014; Enrico Fels-Vu Truong-Minh (a cura di), Power politics in Asia’s contested waters. Territorial disputes in the South China Sea, Springer International, 2016; Tom Miller, Chinas Asian dream. Empire building along the new Silk road, Zed Books, Londra 2017; Gilbert Rozman-Joseph Chinyong Liow (a cura di),International relations and Asia’s Southern tier. Asean, Australia, and India, Springer, Singapore 2018; B. R. Deepak (a cura di), China's global rebalancing and the new silk road, Springer, Singapore 2018; Huang, Jing-Billo, Andrew (a cura di), Territorial disputes in the South China Sea. Navigating rough waters, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2015. Per la documentazione dei congressisti statunitensi: Ronald O'Rourke, Maritime territorial and exclusive economic zone (Eez) disputes involving China. Issues for the Congress; China naval modernization. Implications for U.S. navy capabilities. Background and issues for Congress, per il Congressional research service, 2018 e altri precedenti rapporti dello stesso autore.

8 KaiHe-HuiyunFeng, «Why is there no NATO in Asia revisited. Prospect theory, balance of threat, and US alliance strategies», European Journal of International Relations, vol. 18, n. 2, 2012.

9 Ministero degli affari esteri della Repubblica popolare cinese, China adheres to the position of settling through negotiation the relevant disputes between China and the Philippines in the South China Sea, 7 luglio 2016, https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/t1380615.shtml

10 Istituto per gli affari marittimi e degli oceani e Associazione di diritto marittimo delle Filippine, Historical truths and lies. Scarborough Shoal in ancient maps, giugno 2014. Le mappe si possono visionare all’indirizzo http://www.imoa.ph/imoawebexhibit/

11 Bill Hayton, South China sea. The struggle for power in Asia, Yale University Press, New Haven e Londra 2014. Per una storia più ampia, si veda la storia del pacifico di Oskar H. K. Spate, il cui primo volume è appunto Il lago spagnolo, Einaudi, Torino 1987.

12 Per la Costituzione della Repubblica delle Filippine: http://www.wipo.int/wipolex/es/text.jsp?file_id=224964;le informazioni dal punto di vista filippino da «The domestic mediations of China’s influence in the Philippines» di Aileen S. P. Baviera, in Rising China’s influence in developing Asia, a cura di Evelyn Goh, Oxford University Press, 2016, che tratta i rapporti tra Rpc e gli Myanmar, Sri Lanka, Filippine, Vietnam, Corea del Nord.

13 Richard Javad Heydarian,The rise of Duterte. A populist revolt against elite democracy, Palgrave Macmillan, Singapore 2018; «China rebuffs Philippines president’s South China sea rebuke»,Reuters, 16 agosto 2018, http://cnnphilippines.com/news/2017/03/20/justice-antonio-carpio-china-build-scarborough-shoal.html

14 Jason Tan-Pei-Hua Yu, «Mahathir says China-backed projects “canceled for now”: Malaysian media», in Caixin globus, 21 agosto 2018, https://www.caixinglobal.com/2018-08-21/mahathir-says-china-backed-projects-canceled-for-now-malaysian-101317371.html; «Malaysia's Mahathir cancels China-backed rail, pipeline projects», Reuters21 agosto 2018, https://www.reuters.com/article/us-china-malaysia/malaysias-mahathir-cancels-china-backed-rail-pipeline-projects-idUSKCN1L60DQ; Richard Javad Heydarian, «Malaysia as a new vortex of regional resistance against China», in Asia maritime transparency initiative, 17 settembre 2018,https://amti.csis.org/malaysia-new-vortex-regional-resistance-china/

15 Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del mare http://www.ibneditore.it/wp-content/uploads/_mat_online/DirittoMarittimo/Convenzione_Diritti1982.pdf

16 Peter Nolan, «Imperial archipelagos. China, Western colonialism and the Law of thesea», in New left review, II/80, 2013, tabella p. 80.

 

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