Fonte: SakerItalia

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03/06/2018

 

Ma non vedi il ferro e il fuoco a venire? Lettera all’europeo contemporaneo

di Alessandro Cavazza

 

Contemporaneo uomo europeo, pur leggendoti attraverso il limitato prisma della tua versione italiana, temo e credo di averti ben intuito in tutta la tua grigia tenebra. Ti parlo sapendo che non mi ascolti e se mi ascoltassi non mi intenderesti, e se tu mi intendessi mi derideresti. Nondimeno in quanto fratello  ti devo queste mie parole. E, come avversario, un avvertimento.

Non sei più arcaico perché t’hanno convinto che svender tutto e credere in nulla sia cifra sopraffina di modernità e progresso. Sky is the limit mi rispondi a conferma delle mie parole. Del resto sei persuaso che esista la modernità mentre sei testimone, al massimo, di una farsa eterna nella quale han solo confuso con più perizia le carte a tuo danno.

Servo senza gleba, proletario senza prole, addetto alle macchine ben meno importante di esse. La tua classe operaia è davvero andata in paradiso. Non c’è più. E la tua patria è un codice a barre protocollato negli uffici competenti su sfondo azzurro, con senso onnipotente germanico ma torace curvo di contabile.

La tua tenebra è mattina d’oro in bocca perché nient’altro può uscirti da li. Non l’alito vitale e ancor meno l’intelletto donatiti da Dio. E una tua parola mantenuta è oggi il tuo più vergognoso segreto, peccato capitale da non far sapere in giro perché tra un falso  cenno di stima e l’altro, sai per certo che tutti i sodali ti stan già dando del coglione.

Parli così solo di soldi, pensi solo di soldi, smani solo di soldi, tu impastato di fango e d’usura. E lo chiami progresso. L’oro ti imbriglia i pensieri, muove le tue mani in gesti ripetitivi al tuo meglio, scomposti in tutte le altre circostanze. Li, sull’estremo promontorio della storia mentre il vento del nuovo secolo s’alza impetuoso, ti guardi dentro alle tasche incurante dei lampi sempre più vicini. Al massimo fraintendendoli per curve di spread.

Sempre conteso tra l’ufficio protocolli e il tuo profilo social in cui fai atto di adorazione della vulgata condivisa che ti protegge dal conflitto, vera anima del mondo.

Dalla caserma al raro corteo dove pianifichi nel primo caso le vacanze estive e nel secondo la repressione del tuo stesso popolo quando non delle tue stesse idee.

Sei talmente addestrato a seguire che ormai anticipi le mosse del pastore. E lo stesso cane da guardia inizia a temerti. Li, immobile con la forza del tuo muto, prudente silenzio buono per ogni stagione o circostanza. Con la tua puntualizzazione politicamente corretta di chi si sottrae a discorsi difficili e viscerali.

Col tuo parlare da solo, a voce sempre più alta, in un coro di voci uguali e bianche da eunuco. Tu che, parafrasando Davila, puoi dire tutto ciò che ti pare, perché in fondo pensi allo stesso modo degli altri. Vantandoti dell’altrui opinione quasi fosse tua. E in vero lo è.

Tu ignavo tra gli ignavi “che non fur mai vivi”. Dante ti ha letto così bene, guardando chi gli stava attorno,  consegnandoti un monumento in lettere, ancorché troppo generoso. Il padre Dante ti ha ben compreso quando eri giovane come l’Europa attorno a te.

Oggi si che di strada ne hai fatta e sei diventato malattia mortale del nostro mondo non bastandoti il dominare la scena. Oggi, forse già ieri, hai preso d’assalto il palazzo d’inverno della nostra civiltà ed essa è tua, in vincoli. Prostrata, esangue assimilata alla tua assenza di energia vitale così necessaria in questo sfavillante secolo nuovo di ferro e di fuoco.

Tu, in piena tempesta, hai scelto il sonnellino pomeridiano e l’esaltzione del ruolo dell’oste dal volto rubizzo, almeno nella tua versione italiana. Ti sei consacrato al moderatismo della opinione prudente che più che altro non dice e nemmeno allude. Nemmeno il rischio di avere una idea che funga da media tra la testa di tutti e la pancia che è solo tua.

Tu, nuovo borghese senza Borghesia, sei riuscito sommare il peggio dei tre stati dell’ancienne regime:

Del terzo stato hai così l’ansia di distruzione di ciò che non è te, ma non hai le sostanze né tanto meno il talento. Non parliamo della cultura.

Del clero hai solo lo scaltro non pronunciarti se non sai d’esser l’unica voce o gli anatemi quando lo sei. Ma di fianco a te, Dio si sottrae.

Dei nobili  in compenso hai conservato, riarmate, l’arroganza e il disprezzo per il tuo stesso sangue. Ma rimani un plebeo. E non sarai mai elite.

Tu, tutto a modino o trasandato ad arte, sei in definitiva uguale all’uguale. Sei l’ombelico del mondo e come tale sei solo una cavità vuota, non di rado piena di sporcizia.

Sei la giornalista in tacco dodici, strenua pasionaria dei desiderata del direttore responsabile. Come lei sei padrone del campo della narrazione odierna, ma non illuderti che è campo già vuoto, come il ventre sterile del mondo che è l’unico in cui sai non vivere.

Tu europeo moderno votato all’assenza del limite e come non mai limitato, hai reso anche la guerra una procedura tecnica, l’amore svilito ad atto notarile, un figlio a risultante di costi e benefici, la canuta vecchiaia a voce in perdita.

Hai fatto del tuo esser mediocre una scienza prima ancora che una bandiera. Userei la parola arte se non stonasse sulla tua stempiatura, sui tuoi brutti piedi propagandati da fin troppo comodi sandali, se non fosse un sacrilegio associarla al sorrisetto di chi la sa lunga solo perché dalla sua ha la conferma del silenzio di ferro a cui è costretto chi ha altre verità e dissimili aspirazioni.

Sì parlo dei tuoi più fieri nemici che, quasi muti, con peso greve sul proprio spirito, costringi a camminare in un campo minato senza cartello “achtung minen” al suo ingresso.

Quelli che chiami illiberali perché, si, hanno una idea che li anima, che bolli come razzisti perché per loro nulla è inevitabile, nulla è irreversibile, che chiami omofobi per il loro sorriso fiero di padre e il ventre orgoglioso di madre. Son quelli che additi a comunisti o incontentabili  se vogliono un reddito e fascisti se cercan disperatamente di riconoscersi nei loro padri e nonni. E non ultimi quelli che tu irridi quali oscurantisti perché trovano insopportabile il silenzio ostinato di Dio che non riesce più a farsi strada nella coltre delle tue risate.

Ma sei tu in realtà il disperato che, nonostante l’ultimo navigatore digitale, vaga senza meta, inseguendo psicofarmaci e compulsioni come pollicino nella tenebra. E forse anche il sesso ti ha già tediato non sapendo, in fondo, che fartene.

Figlio imprevisto di padri che erano in qualsiasi altro posto quando tu e io avremmo avuto bisogno del loro esempio. Fossero essi operai dal frigo traboccante di cose inutili che non si sono mai risparmiati nulla lasciandoci solo macerie o borghesi di intima crudeltà che han misurato la vita a firme, querele e vanterie e che oggi si rigenerano padri e madri a distanza, ad abbonamento mensile detraibile dalle tasse, ben più pazienti e amorevoli col filippino che sottopagano che con l’italiano, fosse anche il loro primo genito.

Tu ed io siamo figli di quella generazione come noi per nulla autorevole ma che si crede ancora depositaria dell’unica verità che sono i pochi soldi in più che hanno rispetto a noi posteri. Perché tutte li oggi si misuran le generazioni. Tutta li la  autorevolezza, mica nell’esperienza e ancor meno nella saggezza che sembra non esistere in assenza del titolo barocco di professore d’ateneo. Siamo tutti e due i figli di chi non ha né saputo né potuto farsi da parte, incatenati al presente  loro malgrado. Mentre noi siam tornati come i nostri bisnonni a spigolare fagioli nelle crepe riarse del terreno della mancanza perpetua, e un fucile non sapremmo nemmeno come caricarlo.

Ma tu, europeo contemporaneo non te ne avvedi. No non te ne curi nella tua solitaria gara senza regole né percorso.

Non vedi seminarsi il vento né tanto meno intendi cavalcare i marosi della tempesta che già è qua. Sempre più circoscritto nella tua mal difesa ridotta. Sei questo uomo contemporaneo che, sopravvalutandolo, chiamerò borghese e che continua a bearsi di sé e dei suoi trastulli pagati.  Che  punta il dito ed elargisce sorrisetti saccenti al proprio stesso popolo non sapendo (né volendo del resto) guidarlo e bastandogli in definitiva sentirsi di poco superiore per reddito. Questa la tua unica ambizione e consolazione. Trasformar la sopravvivenza in vanto.

Ma il tuo campo si restringe, le tue certezze che non vuoi nemmeno avere si crepano e crollano, le colonne del tuo tempio sconsacrato son ridotte a ornamento, ogni angolo, ieri frainteso per marmo, si sta rivelando cartapesta sotto al paradigma del conflitto che è salito con un balzo a cavallo di questo secolo.

Fuori dal limes liquido, brigate sempre più numerose e agguerrite si stanno muovendo, dentro al limes brigate che ancora non si sono palesate, senza nome, stendardi né divise si stanno concentrando e riconoscendo a vicenda sia come amici che come nemici, i martelli tintinnano sul metallo doloroso delle sciabole di domani, consapevoli solo del taglio irrimediabile che esse produrranno con te.

Nel tuo Roccocò plebeo che chiami contemporaneità, tra libertà inutili, diritti dimenticati e doveri derisi,  ti commuovi d’orgoglio per il figlio grande praticante esule con benedizione Erasmus e quello più piccolo in alternanza scuola-lavoro (che rende liberi). E fuori la guerra che preme come un amante focoso. E tra di noi la peste.

Perchè sei la mediocrità al potere in ogni ganglo della nostra metastasi  che si  palesa come fosse conseguenza naturale dell’ordine immutabile delle cose. Eppure sei all’ultimo giro di minuetto tra un bacio rubato in hd  e le brioche lanciate al popolo, tra un commissariamento e una guerra per procura (per ora). Ma nella suburra divenuta immensa, questo secolo di ferro e di fuoco è già incominciato. Nuovi canti si stanno componendo, nuovi stendardi tessendo e con essi il mondo prossimo che si vendicherà di te costringendoti a guardare ben aldilà del tuo naso arcigno. Fino al cielo ove torneranno gli dei. Ed essi ci perdoneranno. E il loro dono sarà la grande, certo difficile prova di ritornare.

 

 

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