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27 novembre 2018

 

“Per me il gilet giallo vuol dire che per una volta si guarda a chi sta in basso”: cronaca di un sabato di blocco al traforo del Monte Bianco

 

È metà mattina di sabato 24 novembre quando avvistiamo per la prima volta i “Gilets Jaunes” all’inizio del viadotto che s’inerpica verso Chamonix fino al Tunnel del Monte Bianco. Gilet nello zaino, siamo voluti andare a vedere cosa avevano da dire e da dirci i partecipanti a questo movimento che sta sconquassando gli equilibri istituzionali francesi mettendo definitivamente fine all’idea che lo scollamento tra le élite europee e popolazione possa essere riassorbita dall’ipotesi Macron. Ne è uscito questo piccolo reportage in cui abbiamo provato a sintetizzare una dozzina d’interviste fatte al blocco, le nostre sensazioni e qualche considerazione sul movimento.

 

La mobilitazione dei gilets jaunes nasce dalla petizione on-line lanciata da una giovane donna, Priscilla Ludosky, abitante di Savigny-le-Temple, nella seconda cintura parigina, nella quale chiede un abbassamento del prezzo del carburante. Al centro della protesta c’è il generale aumento del pieno e l’equiparazione del prezzo del diesel a quello della benzina, recentemente approvato dal governo francese che dice così di voler favorire la transizione energetica oltre i combustili fossili. A partire dalla petizione di questa venditrice in proprio di prodotti cosmetici di origini martinicane sono nati centinaia di gruppi Facebook contro l’aumento del prezzo del carburante e l’impatto importante che sta avendo sull’economia di molte famiglie precarie. Grazie ai gruppi social sono stati organizzati migliaia di blocchi stradali per chiedere il ritiro dell’aumento del carburante, protestare contro il carovita e chiedere le dimissioni del presidente Macron. Distribuiti capillarmente, i gruppi social e poi i blocchi si sono soprattutto concentrati nelle zone peri-urbane, disegnando una geografia della crisi nella quale i focolai sono rappresentati dai territori scarsamente connessi dal trasporto pubblico, dove l’uso della macchina è quasi indispensabile e il diesel ha rappresentato fino a oggi un investimento per provare a non buttare un salario sempre più magro nelle spese di trasporto.

 

11:35

Passato il traforo, scendendo in direzione della Francia notiamo un traffico particolarmente calmo dall’altro lato della corsia. Forse non c’è nessun blocco? Difficile reperire informazioni, molti gruppi Facebook sono stati cancellati dopo le proteste di sabato scorso quando quasi trecentomila persone hanno inscenato oltre duemila blocchi paralizzando completamente la Francia. Arrivando a Passy, paesino di diecimila abitanti alle pendici del Bianco, scorgiamo però prima una lunga fila di camion, poi il blocco. Dall’alto il colpo d’occhio è impressionante. Qualche automobile avanza a singhiozzo verso il tunnel mentre decine di tir sono incolonnati per chilometri. Altrettanti sono fermi nell’area di sosta adiacente dove, dopo aver fatto inversione, ci parcheggiamo. Infiliamo i nostri gilet e iniziamo a camminare sull’autostrada accanto alle auto ferme fino al primo manifestante che incontriamo nella giornata, una signora sulla sessantina, capelli iper-ossigenati e labbra rosse fuoco che ci apostrofa immediatamente chiedendo di attendere il suo segnale per spostare dei coni segnaletici e far passare un autobus intrappolato tra i camion.

 

Qui la scelta è di lasciar passare, al rallentatore, le persone mentre le merci devono stare ferme. Questo però lo scopriremo dopo. Immediatamente, invece, intuiamo la funziona primaria del gilet. Permette subito di riconoscere i nostri. Prima di essere un simbolo sembra un segno di complicità in una pratica, il blocco, in cui veniamo immediatamente arruolati. Questo si dipana con una sua gradualità per diverse centinaia di metri, dopo la signora c’è chi volantina, altri che si intrattengono con gli automobilisti incolonnati fino a che non si arriva al punto di arresto vero e proprio, là dove la piccola strada provinciale di Passy s’infrange sulla base del viadotto degli Egratz, parte dell’autostrada che sale fino al Monte Bianco. C’è una tenda con cibo e caffè, la testa della colonna dei camion fermi e una piccola gimcana fatta con i coni dove passano le macchine che pagano pedaggio con un colpo di clacson di solidarietà, richiesto a gran voce ad ogni automobilista che passa tra le ali di folla e accolto ogni volta con urla e applausi.

 

Grazie al blocco ci accorgiamo immediatamente di una contraddizione, latente in questa valle alpina, che si condensa proprio nel punto di blocco dei gilet, in quello scontro tra la direttrice veloce che unisce la Francia all’Italia con le sue merci e la strada provinciale di Passy con i suoi abitanti. Una regione al contempo depressa e ricchissima che ha anche il primato di essere la valle più inquinata di tutta la Francia come ci segnala la presenza della zona industriale accanto al viadotto. Il punto di blocco è come una miniatura delle profonde ristrutturazioni capitalistiche che hanno investito questo territorio tra gli anni 70 e 90, la deindustrializzazione ha ridotto l’effettivo della fabbrica chimica di Pechney, che si trova ai piedi del viadotto, dai 1'000 ai 200 operai e quella che era una roccaforte operaia è stata smantellata pietra per pietra. La sorte di questo stabilimento avrà accompagnato tutte le evoluzioni produttive dell’Alta Savoia. Prima vi si produceva del clorato di potassio, poi esplosivi durante la prima guerra mondiale (la “cheddite”, dal nome del sobborgo di Ched, nella parte nord di Passy), poi alluminio e infine, oggi, grafite. La città-fabbrica negli anni si è frantumata in mille pezzi e nuovi operai si sono disseminati nel territorio intorno a Chamonix, città faro degli sport invernali dove si può lavorare ma non si può vivere o sciare. In questo contesto la benzina è la condizione per accedere al lavoro ma, a differenza dell’epoca in cui il paternalismo padronale offriva agli operai la legna per scaldarsi in inverno, questa voce di spesa oggi è tutta a carico dei lavoratori.

 

“Siamo qui contro l'aumento di carburante, questa è la frase facile, bisogna andare scavare più a fondo. Hanno tagliato l'educazione, abbiamo sempre meno risorse per i nostri figli, non ce la facciamo più, siamo obbligati a vivere a credito, ogni fine del mese, anche privandosi di tante cose, lo scoperto sul conto è obbligato. Grattano il fondo del barile ma non capiamo neanche perché, prendono e non si capisce cosa ci torna indietro. Qui non c'è neanche più il neurologo all'ospedale, dobbiamo fare 100 chilometri per vedere degli specialisti. Io sono qui per la salute, per l’educazione, per il futuro dei miei figli” ci dice Valérie, madre separata, auricolare all’orecchio, due bambini, lavoratrice nel settore alberghiero. Fa la spola tra il presidio e l’inizio del blocco da dove le telefona il cugino dicendole che la polizia è nervosa e vuole far riprendere la circolazione. “C'è anche gente per cui il blocco rappresenta l'attività del weekend, non c'è niente da fare, qui è tutto ultra-caro, una giornata di sci sono 200 euro, quando sei del posto come fai?”. Poco lontano, appoggiato sul guard-rail, incontriamo Georges che ci racconta del violento sgombero che c’è stato sabato scorso, quando i CRS hanno deciso di liberare l’autostrada con manganelli e gas che sono arrivati su bambini e anziani. Anche lui di anni sul groppone ne ha qualcuno, è pensionato e non è la sua prima mobilitazione. Veniamo così a scoprire che qui i camion sono già stati bloccati negli anni scorsi, seppur parzialmente, durante le manifestazioni contro l’inquinamento che sta asfissiando la regione. Paradossalmente, la sola eredità della passata gloria industriale di Passy è la contaminazione delle falde lasciata dalla fabbrica Pechiney in un secolo di attività. Per anni i rifiuti, tra cui il pericolosissimo perclorato di ammonio, erano semplicemente gettati in una discarica presso il fiume Arve, inquinando le nappe freatiche fino a Ginevra. Accanto alla fabbrica e alla discarica, un inceneritore di rifiuti da cui si leva in continuazione uno spesso filo di fumo, visibile direttamente dal punto di blocco dei gilet.

 

“Io alle manifestazioni in genere non ci vado perché ci sono partiti politici. Qui quello che mi piace è che parla il popolo, non ci inquadra nessuno, esprimiamo la nostra collera. Non ci sono sindacati, non ci sono leader. Quindi non c’è nessuno a cui si può lasciare qualche briciola per spegnere il movimento. C'è la questione delle tasse, della benzina ma poi qui in valle c'è soprattutto la questione dell'inquinamento”. A parlare è Bernard, sulla quarantina, lavora come metalmeccanico col salario minimo. Ha la figlia quattordicenne accanto, ci dice che ci teneva a portarla oggi al blocco per “mostrarle la realtà, non è tutto bello né facile”. Quando gli chiediamo di Macron ci dice che per lui rappresenta solo un ricco che non sa come si vive nel mondo, anzi non rappresenta nulla: “io non l’ho mai votato”. Evidentemente su di lui gli appelli a salvare la Repubblica da Marine Le Pen votando per Macron al secondo turno non hanno avuto effetto. Sulle critiche fatte ai gilet di non rispettare l’ambiente ha le idee chiare. “Lo Stato ha fatto delle analisi e dice che l'aria va bene. Ci sono collettivi che si sono organizzati per fare analisi indipendenti che dicono il contrario. Raccogliamo i funghi e ci sono i metalli pesanti dentro. È una catastrofe. E lo Stato non lo vuole riconoscere. Anzi ci dice che siamo noi gli inquinatori, chi inquina è sempre il popolo, non i camion e le fabbriche. Quelle cose lì non vanno toccate. Lo stato se ne frega dell’inquinamento, vuole i soldi. Fanno un’ecologia punitiva. L’ecologia di oggi significa colpire le persone”.

Ci sono due valli che vivono letteralmente una sopra all’altra. Sulle vette le ricche stazioni sciistiche con i loro altrettanto ricchi sciatori che vengono in gran parte dalla Svizzera, dal Regno Unito e dalla Germania, facendo salire i prezzi nei negozi e il costo degli affitti. Per quelli che sono in alto l’aria è sempre pulita. Quando il sole riscalda l’atmosfera in altitudine, però, le polveri sottili vengono bloccate giù lasciando quelli in basso a respirare veleno e fare i conti con un salario eroso dal carovita.

 

13:45

Al punto di fermo iniziano ad arrivare sugli smartphone le immagini dell’assalto dei gilet gialli agli Champs Elysées e gli animi si infiammano: “a Parigi è buono, è quello che serve, un bel 68!” (non sarà il solo riferimento al Maggio francese che ci faranno i nostri interlocutori durante le nostre chiacchierate). A urlare è un operaio di 32 anni della fabbrica Pecheney, Daniel, padre separato con due figli, dice che non riesce più a vivere. “Ho bisogno della macchina per spostarmi, qui non siamo a Parigi in cui sono i trasporti pubblici” ci dice. È andato soltanto a un altro corteo prima del blocco, contro Jean-Marie Le Pen. Più che la tasse per lui è la questione del governo. “Non ce ne torniamo certo a casa se ci sono 20 centesimi di meno sulla pompa di benzina, è Macron, deve cadere è uno nato avec une cuillère d’argent dans la bouche [con un cucchiaio d’argento in bocca, ricchissimo]” dice tra l’approvazione degli amici. Sono arrabbiati perché “c’è un infiltrato… un padrone che vuole mettersi in mostra”. Sembra che il proprietario di alcuni grandi magazzini di abiti si è messo a mediare con la polizia perché il blocco fosse solo parziale, col passaggio di 8 tir ogni 15 minuti.

 

Ci dice che tutte è nato su Facebook “come le primavere arabe proprio per questo provano a censurare” ed è incazzato per come si sono comportati i CRS sabato scorso. Gli usi tradizionali di internet vengono ribaltati durante la mobilitazione. Il primo appuntamento per il blocco è circolato in un locale gruppo whatsapp di compravendita di oggetti usati, utilizzato quindi in maggioranza da persone con un budget familiare limitato. Dal blocco del viadotto sono anche stati diffusi tantissimi facebooklive, filmati con lo smartphone con l’obiettivo assicurarsi da sé che le informazioni necessarie alla lotta circolino, senza mediazione. Non c’è bisogno di chiamare i giornali locali, la questione non si pone nemmeno quando il video dello sgombero della settimana scorsa è stato visualizzato più di un milione di volte. Non va sottovalutato l’impatto delle competenze acquisite con questo uso popolare di internet in cui si condividono codici, un particolare uso dell’audiovisivo e luoghi virtuali di incontro. È su questa ossatura che si costruisce l’organizzazione della lotta dei gilets jaunes che sembra funzionare come un coordinamento invisibile di pratiche, discorsi ed obiettivi. Al punto che non siamo riusciti a incontrare una sola persona che fosse andato anche solo a vedere gli altri blocchi che ci sono ad appena qualche decina di chilometri dal viadotto.

 

Quando chiediamo a Daniel chi partecipa al presidio ci dice che “c’è un po’ di tutto, siamo tutti gente che lavora o che cerca lavoro”. Una cosa ci salta subito all’occhio. Nelle parole di questo ragazzo e in quello di altri manifestanti c’è la visione della questione fiscale, dell’aumento della benzina ma non solo, come facente direttamente parte del salario. Un costo della riproduzione scaricato sulla “gente che lavora o che cerca lavoro” e che bisogna cercare di diminuire (“io sai ne ho fatte di cazzate, due bambine, due divorzi, devo pagare gli alimenti”). Il mondo si divide in quelli che ce la fanno a pagare e quelli che non ce la fanno. Quando chiediamo a lui e all’amico che ha accanto perché non fanno sciopero ci rispondono all’unisono “perché non possiamo”. Il blocco invece è direttamente raggiungibile. Chi ha più disponibilità di tempo si alterna in settimana (c’è chi si è messo in malattia, sicuramente opzione meno pericolosa dello sciopero di questi tempi) e nel weekend il picchetto autostradale si anima di centinaia di persone. Dalla fabbrica chimica sono circa in cinquanta ad alternarsi al picchetto. Un gilet o una tuta blu? Molti hanno impressi i loghi dell’azienda in cui lavorano. Ci sono un paio di car rent, alcuni giubotti col logo del tunnel del monte bianco, altri di parcheggi sotterranei. E poi in tanti che decorano i propri gilet personalizzandoli con slogan e altre frasi.

 

Passano pochi minuti e la situazione precipita. Un uomo di una cinquantina d’anni prende parola: “non serve a nulla quello che facciamo. All’Eliseo si staranno facendo una grassa risata. Io dico: NON PASSA PIU NESSUN CAMION”. Con un altro si prendono a braccetto e si mettono davanti al camion che aspettava di partire, seguiti da qualche decina di compagni. Un cono della segnaletica funge da megafono per lanciare la Marsigliese e lo slogan più in voga « Macron si t'es pas con, présente, présente, ta démission » [Macron se non sei scemo presenta le dimissioni].

 

I gendarmi, sempre presenti ai lati e in mezzo ai manifestanti cominciano a mettere pressione sulle prime linee, provano a convincere di far passare almeno otto camion. C’è incertezza, alcuni si tolgono, stanno quasi per cedere quando una donna sulla trentina (scopriremo dopo essere Debora, lavora in un negozio di vestiti) grida in faccia al commissario “non è natale che vi dobbiamo fare regali: I CAMION RESTANO QUI!”. In testa alla lunga coda c’è un camionista con targa bulgara che prova ad avanzare azionando il clacson ed esasperando gli animi. Un giovane camionista che partecipa al blocco punta il dito contro il dumping salariale e dice che è anche perché nella zona è pieno di camionisti dell’Est che i salari sono così bassi. La polizia tenta allora di liberare la via spintonando i manifestanti, alcuni giovani, tra cui quelli con cui abbiamo parlato prima, nel frattempo hanno tirato fuori maschere da sci e fazzoletti imbevuti di limone, memori di quanto successo la settimana prima. Alle prime spinte delle forze dell’ordine la gente reagisce, i gendarmi non manganellano e finiscono schiacciati tra i camion e la folla. Un po’ storditi, si ritirano pochi minuti dopo tra gli applausi dei gilet e lo slogan “les gendarmes avec nous!”. L’attitudine verso la polizia è ambivalente, con i gendarmi del posto è di discussione franca, con i CRS venuti da fuori, invece, di ostilità. Tutti sono un assai combattuti tra il denunciare l’ingiustizia subita e il voler vedere la polizia “dalla parte del popolo”. 

 

Abbordiamo Debora, la commessa avvelenata contro la polizia: “si vede che la Francia è diventata una dittatura quando vediamo i CRS che lanciano i lacrimogeni sui gilet jaunes”. Non ha mai fatto una manifestazione in vita sua ma è determinata a restare fino a quando servirà. “Mi batto per i miei due figli, è come un ammortizzatore, prendi scossoni, prendi scossoni e alla fine il meccanismo si rompe”. Nel frattempo alcuni gilet stanno smontando il guard-rail che separa l’autostrada dalla strada provinciale di Passy per facilitare la costruzione di una grossa barricata fatta di pallet. Il legno viene accatastato un po’ da tutti mentre vengono messi sulla strada anche i bidoni con il fuoco per scaldarsi, prima lasciati sulla provinciale.

 

16:04

Il traffico merci verso l’Italia è completamente bloccato da diverse ore quando un giovane con gli abiti da lavoro sotto il gilet ci dice che hanno deciso di “bloccare qui perché qui è un punto strategico, ogni camion sono 300 euro di pedaggio che facciamo perdere allo Stato”. Colpire il nemico al portafogli è un discorso che si rincorre di bocca in bocca (“tanto conta solo quello”). Ci raccontano di un centro di riscossione che è stato bloccato poco lontano da qui per tutta la settimana appena trascorsa, mentre numerosi autovelox sono stati sabotati per ridurre i ricavi fatti con le multe (ne vedremo alcuni risalendo verso il tunnel).

 

Di giovanissimi ne vediamo piuttosto pochi, da segnalare solo un paio di scene memorabili, una di un’adolescente a volto coperto che rincorre la madre che stava andando a casa per chiederle di venirla a prendere più tardi e una di tre amici che si fanno selfie con gilet jaune spongebob. Un liceale ci dice che di gente della sua scuola ne vede abbastanza poca mentre ci sono molto più studenti dagli istituti tecnici e professionali “ma c’è una mia professoressa, mi ha aiutato a mettere il maalox nel fazzoletto se gasavano”. Un altro liceale che incrociamo è uno studente appartenente a Lutte Ouvrière, un partito trotskysta (“sono l’unico militante della zona”). Ci dice che il primo giorno è arrivato in uomo sandwich con i giornali del partito con tanto di falce e martello ma è stato costretto dagli altri gilet a levarli. Ora è qui a sostenere il movimento perché “è da qui che passa l’emancipazione della classe operaia”. Dice che per ora si sente solo la Marsigliese ma che spera presto che al blocco si canti anche l’Internazionale.

 

Il rifiuto di ogni appartenenza politica e sindacale, la voglia di non aver capi è un elemento costante in tutti discorsi. È come se a partire dal tempo sospeso del blocco cominciasse un anno zero “non ci sono partiti è il popolo che si esprime” ci dice Aurélie, una professoressa col casco da sci in testa che ci rivela a mezza voce essere simpatizzante della France insoumise, il partito di Melenchon: “ma qui non l’ho mai detto, serve sensibilità per essere in questo contesto, i militanti devono stare al proprio posto”. Le chiediamo se vede un qualche tipo di continuità o di filiazione con le mobilitazioni contro la Loi travail e ci dice che la gente in piazza è completamente diversa. Ci parla delle discussioni negli ambienti dell’associazionismo locale (lei fa parte di una ONG ecologista) che non vogliono unirsi al movimento. Ha anche litigato coi suoi colleghi a scuola, solo uno partecipa al blocco. “Non capiscono assolutamente perché siamo qui. Per loro è una protesta disprezzabile perché dicono che la gente è qui solo per pensare al proprio portafogli. Sono persone che si sentono al di sopra di tutto questo. Ho l’impressione che ci sia veramente un grossa frattura tra l’élite pensante e la gente che è qui, non si capiscono, non si parlano” conclude.

 

18:23

A Debora chiediamo cosa rappresenta per loro il gilet giallo. Nelle sue parole la visibilità che permette questo accessorio ormai obbligatorio in ogni automobile diventa visibilità politica che marca una differenza. Ci risponde dicendo “ci riconosciamo, almeno ci vediamo tra di noi”. È stata la sola a sottolineare l’importanza del passaparola e del fatto che tanti di quelli che vede nei blocchi li conosce “nella vera vita” anche se, aggiunge, “qui è diverso”. Accanto a lei c’è Sara, lavoratrice nel settore delle pulizia: “per me il gilet giallo vuol dire che per una volta si guarda a chi sta in basso”.

Sul tetto di un capannone vicino sono saliti alcuni gilet che sparano musica dance a tutto volume. Si fa sera e i visi cominciano a rilassarsi. Si sparge la voce che la polizia non ha abbastanza plotoni per eseguire uno sgombero di forza. Nel frattempo ci dicono che il padrone del negozio di vestiti è stato cacciato (“forse è qui da qualche parte, ma non può più parlare”). Ci si prepara a passare una notte sulle barricate, mentre alcuni giovani cominciano a coprirsi il volto altri corrono sul viadotto, finalmente liberato dai camion. Prima di ripartire prendiamo un caffè alla stazione di servizio, la radio annuncia in francese e in inglese che tutti i collegamenti merci tra Francia e Italia sono sospesi fino a nuovo ordine e raccomanda ai camionisti di fermarsi sulla prima area di sosta disponibile. Mentre mettiamo in moto dal presidio parte Narcotic dei Liquido: “So you face it with a smile, There is no need to cry…”.

 

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