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11.12.2018

 

Le piccole brioches di Macron nel grande crollo dell’Ue

di Nicola Berti

 

Ieri Macron ha parlato alla nazione, nel tentativo di arginare la protesta dei gilet gialli. Un altro passo verso l’implosione dell’Europa tecnocratica

 

Ieri sera era difficile scegliere fra il disperato tentativo del Emmanuel Macron di salvare la sua presidenza nella Francia caotica dei gilets jaunes o quello di Theresa May di restare premier in una Londra che sembra decisa a correre il rischio-caos di una hard Brexit. E stavolta a destabilizzare Borse e cancellerie (e ormai anche le capacità di racconto e giudizio dei media) non sono state la Grecia o l’Italia. Sono i Paesi che si contendono il primato storico di aver portato la storia nella modernità delle libertà politiche ed economiche. I formali vincitori europei della “Seconda guerra dei trent’anni”, iniziata nel 1914 e conclusasi nel 1945.

Eppure su entrambi i lati della Manica, ieri, è andato in scena un eguale dramma politico-istituzionale: fra l’altro esteso al Belgio (il paese che ospita la sede della Ue). Qui il governo è andato in crisi perché i nazionalisti fiamminghi hanno voluto impedire al premier di andare all’Onu a votare il Global compact. In Germania, intanto, sono ben pochi a festeggiare la “piccola vittoria” (51 a 49) della delfina di Angela Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer nella corsa per la leadership della Cdu. E in Svezia, cento giorni dopo il voto, non c’è ancora un esecutivo: il seggio di Stoccolma potrebbe restare vuoto al vertice Ue di fine settimana, conclusivo dell’anno e del semestre di presidenza austriaca.

 

Il male oscuro della Ue è veramente il debito italiano — o il suo governo — oppure sta emergendo in tutta la sua gravità l’implosione del “contratto sociale” nei Paesi del Nord? E’ più a rischio di “illiberalità” una democrazia neo-populista o una vetero-tecnocratica? Domani il premier italiano Conte sarà in ogni caso chiamato alla sbarra, in una Bruxelles sempre più surreale. Sabato i gilets hanno cominciato a sconfinare anche attorno a Palais Charlemagne, dove il presidente della Commissione uscente, Jean-Claude Juncker, ha dovuto nel frattempo ricevere in emergenza la May.

 

La premier britannica è stata ricacciata indietro dalla Camera dei Comuni con le 600 pagine di accordo Brexit redatto secondo i parametri cari agli eurocrati. Due anni dopo il referendum, i parlamentari britannici sanno che il loro elettorato continua a detestare l’Europa di Bruxelles e a non tollerare il fatto stesso di dover negoziare un esito democratico. E in filigrana si continua a scorgere una rabbia ribellistica contro il marito della May e i suo colleghi banchieri della City di Londra (anche Macron, peraltro, è passato da Rothschild e sembrava pronto a raccogliere i frutti di Brexit con il massiccio trasferimento della banche a Parigi).   

 

Conte, dal canto suo, dovrà rispondere delle accuse di sforamento grave delle regole finanziarie di Maastricht a un commissario francese designato alla Ue da un ex presidente socialista sconfitto da Macron e oggi simpatizzante dei gilets. La manovra italiana sarà sotto esame da Pierre Moscovici — sotto minaccia di procedura d’infrazione — dopo che il presidente francese in carica ha appena dichiarato un affannoso “stato d’emergenza economica e sociale”, alzando il salario minimo di legge a spese del fisco (già in deficit del 2,7%) e di un probabile riflesso inflazionistico; e senza ripensamenti sul taglio delle tasse “trumpiano” deciso l’anno scorso dall’Eliseo sui grandi patrimoni. Brioches apparentemente piccole — e prive di qualsiasi valenza politica — in un Paese che nell’ultimo fine settimana, fra blindati e arresti di liceali, assomigliava al Cile del 1973. 

 

Chissà se Nanni Moretti non avrebbe fatto meglio a girare in presa diretta appena di là delle Alpi. In fondo nel 1977 furono proprio i nouveaux philosophes francesi i testimoni-reporter d’eccezione della primavera di Bologna: i carri armati di Francesco Cossiga contro i sogni di primavera di Radio Alice. Macron era appena nato, quindi non poté leggere cosa scrivevano Libération nella Parigi post-gollista di Giscard D’Estaing: “La Francia s’annoia, i lavoratori lavorano, gli studenti studiano, Parigi è triste e grigia. L’Italia invece, mai così animata dalla politica, ribolle di passioni”. 

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