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16 ottobre 2018

 

È la Germania il vero malato d’Europa (e se diventa grave sono guai per tutti)

di Fulvio Scaglione

 

È l’economia che traina il Vecchio Continente, ma è sotto l’attacco dei dazi di Trump. È l’argine e lo spauracchio dei populisti, ma è minacciata dalla crescita di Alternative fur Deutschland: viaggio nelle crepe di un gigante d’argilla. E nei rischi che corriamo tutti se crolla

 

«Arriva sempre il momento in cui si raggiunge il limite e quel momento è adesso». Forse furono proprio le parole pronunciate con rabbia da Dieter Reiter, sindaco di Monaco, il 13 settembre del 2015, a certificare l’insediarsi di una nuova Angst (paura) nella grande nazione tedesca. Era domenica, e in un solo giorno oltre dodicimila rifugiati si erano ammassati nella stazione centrale della città bavarese, facendo collassare il sistema di accoglienza predisposto dallo Stato. Oppure, giusto un anno dopo, fu il risultato delle elezioni in Meclenburgo-Pomerania Anteriore a insinuare il dubbio nell’animo di Angela Merkel. Nella regione che dal 1990 elargisce alla supercancelliera, sempre candidata in un collegio di qui, preferenze trionfali, la sua Cdu arrivò solo terza (19,4% dei voti), dopo i socialdemocratici (30,4%) e soprattutto dopo l’ultradestra dell’Afd (21,4%), i cui portavoce beffardamente commentavano: «Il nostro successo è il risultato delle politiche disastrose della Merkel».

Un episodio vale l’altro, e non troveremo mai il momento esatto in cui il Paese leader dell’Unione Europea, nonché quarta potenza economica del mondo, si è scoperto di colpo fragile e confuso. Così è, però. E sarebbe ora di darsi un po’ più di pena per il malessere tedesco. Le svolte di Tsipras, il boom economico del Portogallo, persino l’avventura inglese al largo delle coste europee.Tutte belle cose. Ma se la Germania sternutisce, l’Europa intera prende il raffreddore. Immaginiamoci poi se a Berlino il termometro segna febbre da cavallo.

Il problema non è il destino personale di Angela Merkel, ovviamente. Regna dal 2005, più a lungo di lei hanno governato solo il mito Konrad Adenauer nel dopoguerra (1949-1963) e il gigante Helmut Kohl (1982-1998). Angela, in termini di carriera e contributo alla patria, può già andare in pensione tranquilla. È probabile, inoltre, che la sua vita politica abbia già imboccato un fisiologico e ragionevole declino. Ma chi potrebbe prendere il suo posto? In patria si parla di Jeans Spahn, 37, gay dichiarato, titolare del record di più giovane parlamentare nella storia di Germania e politico molto conservatore in economia e nelle politiche migratorie. Ma pare soprattutto il modo per non dire che in questi tredici anni di cancellierato e di segreteria politica della Cdu la Merkel si è ben guardata dall’indicare un successore e, anzi, ha fatto di tutto per non averne. E in Europa? Chi riuscirebbe a mettersi al centro del continente e a tenerlo più o meno in equilibrio come ha fatto lei? Macron? Un qualche polacco? Salvini?

Chiunque in Germania verrà dopo di lei, comunque, dovrà fare i conti con una crisi che non è solo una botta di spleen ma un serio, profondo e complesso dilemma esistenziale.L’economia (che da sola rappresenta il 29% di quella dell’Eurozona e il 21% di quella della Ue a 28 Paesi) va sempre come un treno. Certo, qualche rallentamento del Pil alle viste, ma i dati del 2017 fanno impressione: crescita del 2,2%, esportazioni da favola con il maggior avanzo di bilancio (36,6 miliardi) dalla riunificazione a oggi, quarto anno consecutivo di bilancio statale in attivo, disoccupazione al 3,6% e record degli occupati. Eppure. L’industria manifatturiera manda all’estero l’80% della produzione e il settore agro-alimentare più del 50% delle sue prelibatezze. Che sarà di tutto questo in un mondo in cui confini e dazi riprendono vigore di giorno in giorno? La Merkel tiene alto lo stendardo del libero mercato globale ma che accadrebbe se Donald Trump davvero decidesse di tassare le importazioni americane di auto tedesche? E che sarebbe di noi europei se la locomotiva tedesca frenasse di colpo? Si tenga presente, dopo tante geremiadi sul ruolo vampiresco della Germania, che il 70% dell’attivo commerciale tedesco matura con gli scambi fuori della Ue, che sono il 38% del totale; il 5% dell’attivo con gli scambi nell’Eurozona, che sono il 40% del totale; e il 25% dell’attivo commerciale viene infine dagli scambi con i Paesi Ue non euro, che sono il 22% del totale. Insomma, la Germania commercia tanto con il resto d’Europa ma guadagna soprattutto commerciando fuori dall’Europa. Se si fermasse lei, sarebbe una bastonata per tutti gli europei.

Ed è qui che s’innesta il tema dell’immigrazione. Un mondo con più muri, barriere e dogane sarebbe una maledizione per una simile economia. Non c’è da stupirsi, quindi, se la Merkel cordialmente detesta Trump e tutti i leader sovranisti e nazionalisti che le si moltiplicano intorno. Il colpo che l’ha messa all’angolo, però, non è stato quello. È stato scoprire che il nazionalismo e il sovranismo ce l’aveva in casa sotto forma di una destra sempre più rampante che continua a crescere, di Land in Land, di elezione in elezione.

Una contraddizione palese con le dinamiche economiche del Paese ma non con la sua storia. Per molti anni la parola d’ordine della politica tedesca è stata: “La Germania non è un Paese di immigrazione”. Si cominciò a dirlo negli anni Sessanta per i Gastarbeiter, i lavoratori (Arbeiter) stranieri che avrebbero dovuto rimanere Gast, ospiti, ovvero residenti temporanei. Quando arrivò la crisi economica a metà degli anni Settanta, il Governo agì per convincerli a tornare a casa. La maggior parte decise invece di restare e l’effetto paradossale fu un aumento degli stranieri residenti in Germania a causa dei ricongiungimenti familiari.

Poi si continuò a dirlo quando, tra il 1990 e il 1994, arrivò l’onda dei rifugiati dalle guerre della Jugoslavia, con un milione di richieste d’asilo. Mentre, più o meno negli stessi anni, un altro flusso si produceva da Est, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Tanto che nel 1993 il Governo federale strinse i cordoni della borsa rendendo assai più severe le norme sulla concessione dell’asilo e della protezione umanitaria. Dal 2000, anno in cui è stata modificata la legge sulla concessione della cittadinanza, prima molto severa, ogni anno circa 500 mila stranieri migrano in Germania, mentre un numero analogo di tedeschi emigra.

In altre parole: per decenni la Germania si è autorappresentata come un Paese dove l’immigrazione non era un fattore, mentre nella realtà lo era eccome. Quando la Merkel, nel 2015, preoccupata per il calo demografico (nei prossimi sedici anni la Germania, che oggi ha 82 milioni di abitanti, dovrebbe perdere 16 milioni di persone) e per l’invecchiamento della forza lavoro destinato a riflettersi sulla produttività del sistema, annunciò di voler accogliere un milione di siriani, mandò in pezzi lo specchio fatato in cui i tedeschi erano soliti rimirarsi.

Lei aveva ragione ma loro non avevano torto. Rotta l’illusione collettiva, lei cominciò a immalinconirsi, loro a votare sempre più per la nazione presunta in cui gli era stato detto di credere. E la spirale non si è più interrotta. Anche in quello, comunque, la Germania fa scuola all’Europa. Se c’è una soluzione, è facile che la trovi il Paese che spende 600 euro l’anno per ogni cittadino alla voce “famiglia e natalità”. Se non la trovano, avrà forse ragione la Bundesbank che, in mancanza di un freno deciso allo spopolamento via nascite o immigrazione, ipotizza un dimezzamento della crescita. Allora diventeremo tutti merkeliani. Ma sarà troppo tardi.

 

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