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1 giugno 2018

 

Ritorna lo “schema Beneduce”?

di Pasquale Cicalese

 

In un celebre saggio degli anni 2000, Licenziare i padroni? Massimo Mucchetti, già editorialista del Corriere e Presidente della Commissione sulle Attività Produttive in quota Pd nelle passate legislature, racconta di un episodio tra Mussolini e Alberto Beneduce, Presidente dell’Iri. 

 

L’Iri in quegli anni aveva rilevato aziende decotte facendo un regalo ai confindustriali. Beneduce doveva risanarle e poi rivenderle, tipica politica economica classista che socializzava le perdite e privatizzava i profitti. Al che Mussolini e Beneduce si resero conto che gli industriali non si volevano accollare le imprese dell’Iri. Mussolini si rivolse all’antifascista e socialista Beneduce con queste parole: “lasci perdere Dottore, questi industriali sono dei coglioni, le aziende ce le teniamo noi”. Fu così che dalla socializzazione delle perdite si arrivò ai conglomerati pubblici, industriali e finanziari, che fecero la fortuna italiana nel dopoguerra. 

 

Il grande marxista Pietro Grifone, nel suo capolavoro Il capitale finanziario in Italia, scritto al confino, descrisse l’Iri come conseguenza del massacro sociale ed economico attuato dal fascismo dal 1924 al 1929 con “quota 90” e l’ancoraggio della lira ai cambi fissi, che provocò immani distruzioni economiche sociali, a tal punto che si socializzarono enormi asset in perdita. Lo scenario del cambio fisso e della deflazione salariale era simile a questi decenni in Italia.

 

E’ paradossale che a distanza di 80 anni si riproponga tale scenario. Il Corriere della sera il 27 maggio comunica che il “Piano B” di Paolo Savona prevede la nazionalizzazione della banca d’Italia, l’immissione di gran liquidità al sistema bancario per prevenirne il collasso e, guarda un po’, la riproposizione dell’Iri.

 

L’Italia esce da dieci anni di deflazione con le osse rotte, il 25% dell’apparato industriale perso, timidissimi segnali di ripresa che riguardano chi vive di export e che non coinvolgono più del 3% della popolazione. Lo scenario mondiale sta volgendo al peggio: sanzioni alla Russia, dazi di Trump, eurozona in rallentamento. 

 

Le imprese italiane cercano un’ancora. I piccoli e medi imprenditori, scassati dalla crisi, vogliono la riproposizione dello “schema Beneduce” che consiste in: banche pubbliche, grandi imprese pubbliche che danno appalti e lavori al sistema delle Piccole e Medie Imprese, ricostituzione del mercato interno per pararsi dal probabile rallentamento del commercio mondiale, centralizzazione del risparmio (nuova Cassa Depositi e Presititi?) e mobilitazione del risparmio italiano ai fini dell’infrastrutturazione materiale ed immateriale del Paese, per aumentare la produttività totale dei fattori produttivi. Inoltre, le rivendicazione nazionali hanno come scopo quello di fronteggiare il sovranismo tedesco e francese che, nel frattempo, tesse alleanze internazionali e fa affari, dalla Russia alla Cina, un gioco che l’Italia si è preclusa in questi anni per non dar fastidio ad Usa e Ue. Il programma prevede un’alleanza di ferro con gli Usa e possibilità di manovra con paesi terzi. Con Usa si arriverebbe ad una partnership strategica che svii i dazi.

 

Ognuno per sé. Sul piano interno lo “schema Beneduce” magistralmente descritto nei suoi saggi dal compianto economista Marcello de Cecco, provocherebbe un upgrade tecnologico con diffusione delle innovazioni al sistema delle PMI del nord; inoltre ci sarebbero presidi produttivi nel Mezzogiorno dove si ricreerebbe un mercato di sbocco per i produttori del nord. E per questo i gialloverdi guardano alla Via della Seta.

 

Ancora una volta, gli interessi di classe della piccola e media imprenditoria (attenzione, ci sono anche grandi imprese nel gioco…) portano quest’ultima a far assumere alla struttura pubblica un ruolo direzionale che spinga e trascini il loro sistema. 

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3 Gennaio 2013

 

Mucchetti, non era meglio provare davvero a licenziare i padroni?

di Lorenzo Dilena

 

Un grande giornalista finanziario. La critica coraggiosa a Tronchetti, Della Valle e Montezemolo. L’emarginazione nell’era Mieli. Il ritorno in auge con De Bortoli. Infine, un netto ammorbidimento su certe operazioni di sistema. Ora il parlamento col Pd. Bel colpo per Bersani. E per chi crede nel...Corriere della Sera Massimo Mucchetti ha dichiarato, in un’intervista al suo stesso giornale, che «la storia della politica è piena di giornalisti». Nel caso specifico, Mucchetti passa dalle stanze di via Solferino – da trent’anni l’ambito club privé dei salotti buoni del potere finanziario – a quelle di Montecitorio. Su designazione del segretario del Pd Pierluigi Bersani. «Il travaso – citiamo ancora l’intervista – può portare competenze ed esperienze. A patto che le élite vengano selezionate per merito e non per censo, per origini familiari o di consorteria».

 

Di meriti professionali Mucchetti ne ha accumulati parecchi in oltre quarant'anni di mestiere, da Brescia Oggi all’Espresso fino al Corriere. Il suo Licenziare i padroni?

(Feltrinelli, 2003) resta una pietra miliare sulla (in)capacità del capitalismo italiano e dei capitalisti di creare ricchezza.

 

Anche dopo l’approdo in via Solferino, impietosa è stata l’analisi, condotta nel Baco del Corriere (Feltrinelli, 2006), dei vari protagonisti del salotto buono riuniti nel patto di sindacato che controlla il giornale. Giuliano Ferrara lo descrisse come un libro scritto con “lo scopo di sputtanare un pezzo di patto di sindacato di Rcs a favore di un altro pezzo di patto”, cioè di Bazoli e di Prodi. Ma già allora, in verità, Mucchetti prendeva le distanze dal suo giornale e dai suoi azionisti di riferimento – direttore era all’epoca Paolo Mieli – che avevano issato il gonfalone della campagna contro i “furbetti” nell’estate calda delle scalate bancarie (Bpl/Antonveneta e Unipol/Bnl). Allora, Mucchetti distingueva fra i vari Fiorani, Ricucci & co. e Giovanni Consorte dell’Unipol. D’altra parte, non va dimenticato che almeno nella fase iniziale in quel di Piazzetta Cuccia fu pure accarezzata l’idea di assistere la compagnia bolognese. Così non fu. Tuttavia, Mucchetti non rinunciò a far notare che nel caso di Unipol non erano stati fatti valere quei garantismi di cui in altri frangenti avevano goduto i vertici di Capitalia, Banca Intesa, Telecom, Fiat o Tod’s. E ridicolizzò l’idea che Consorte prendesse ordini da Massimo D’Alema, con la cui fondazione Italianieuropei Mucchetti si è comunque trovato a collaborare in diverse occasioni.

Su questa idea Mucchetti è rimasto fermo ed è tornato a ribadirla quando, lo scorso giugno, la Corte d’Appello di Milano ha assolto tutti gli imputati della scalata di Unipol a Bnl, con l’eccezione di Consorte e Sacchetti. Peccato che qualche mese dopo la Cassazione ha annullato l’assoluzione, rinviando la questione a un nuovo appello: che non si terrà perché il 19 dicembre è scattata la prescrizione.

Ma qui siamo già a un altro Mucchetti, di transizione. Il nostro ha ragione nel demistificare il racconto condotto in prima linea dal Corriere di «un’Italia nuova, aperta al mercato, internazionale, rispettosa delle regole e perciò pronta a benedire un’Antonveneta olandese e una Bnl basca, giustapposta a un’Italia vecchia, chiusa, dirigista, pronta al reato pur di difendere il feticcio consunto del tricolore in banca (quella di Fiorani, Consorte, Fazio, ndr)». Ma non convince laddove sembra delineare un’attenuante per i furbetti e per Unipol in particolare. Per un giornalista che ha portato alle estreme conseguenze il giudizio sui capitalisti nostrani, fino a parlare di licenziamento dei padroni, e non ha lesinato critiche ben documentate alla Fiat di Marchionne, ritrovarsi alla fine nei territori del “ma lo facevano anche gli altri” («le scalate occulte, le operazioni in conflitto di interessi, i maneggi fiscali... erano diffusi da sempre nel campo dei buoni») è un pessimo punto di caduta. 

È lo stesso punto in cui Mucchetti finisce quando Unipol si riaffaccia sul palcoscenico a fine 2011, stavolta chiamata dall’arbitro dei salotti buoni, Mediobanca, per tentare una risposta al disastro che i Ligresti hanno combinato in Fondiaria Sai. Stavolta, il deputato pd in pectore non risparmia qualche buffetto ai vertici di Piazzetta Cuccia, per quel miliardo e passa erogato al gruppo Ligresti, anche se alla fine li assolve perché “avevano ereditato la posizione creditizia”. Soprattutto difende l’operazione “di sistema” e benedice l’intervento di Unipol e del mondo Coop (che per ora sta perdendo il 25% dell’investimento fatto a luglio nell’aumento di capitale della compagnia bolognese). Posizioni ben argomentate come sempre, certo, ma la logica di fondo è capovolta: da licenziare i padroni, a salvarli. 

La nuova filosofia, di cui oggi Mucchetti è il rispettabile alfiere dentro il Pd di Bersani, è quella delle “operazioni di sistema”. Al netto di tutti gli imbellettamenti (il bene comune, le ricadute positive sulla società...), si tratta di affari, privati o misto pubblico-privati, conclusi secondo logiche di relazione e di puro potere, mettendo in secondo piano ogni razionale economico. Operazioni che sistematicamente finiscono per produrre perdite, queste sì scaricate sulla società. Nel Mucchetti di oggi, le pur giustificate delusioni per i non pochi fallimenti del mercato – che spesso sono fallimenti delle autorità di controllo o della politica troppo porosa alle lobby – fanno da viatico alle operazioni di sistema, che saranno fonti di nuovi guai come già lo sono state in passato.

Forse non è un caso che la sua ultima fatica sia il Confiteor scritto a  quattro mani con Cesare Geronzi: l’immagine bifronte che campeggia in copertina, con i profili del banchiere e del giornalista-futuro deputato uniti in un’unica testa, è il cameo di un programma politico. Per esaurimento di credibilità, i banchieri di sistema cedono il passo ai giornalisti. Con una tale benedizione, Mucchetti potrà essere lo chaperon o lo sherpa di Bersani dentro “il sistema”. Che si tratti di Bazoli, di Mediobanca o di Palenzona, il segretario del Pd ha trovato il suo Letta per parlare – rispettato, temuto, conosciuto – ai padroni. 

Per Bersani è indubbiamente un bel colpo. Per noi un po’ meno. Perché ci piace pensare che chi ha una missione connaturata di indipendenza, e l’ha mostrata come pochi sul campo, indipendente resti per sempre. Avremmo insomma preferito leggere una nuova, arricchita versione di Licenziare i padroni. Avremmo preferito vederlo tornare alla durezza cristallina di quando portò l’analisi finanziaria indipendente sulle pagine paludate del Corriere. Avremmo preferito perfino accorgerci che avevamo criticato il “nuovo Mucchetti” senza sapere attendere un suo ritorno all’antico. E invece non capiterà, non ci eravamo sbagliati. E un po’ – da allievi di un vero maestro – un po’ ci dispiace.  

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