Sono i cittadini monitoranti la risposta alla corruzione nelle grandi opere?

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martedì 2 ottobre 2018

 

1963-2011, come nasce il "Partito del Cemento" italiano

di Andrea Intonti 

3 metri2 di terreno al secondo, 30 ettari al giorno: è, secondo i dati del rapporto Ispra 2018[1], il consumo di suolo in Italia nel 2017, quasi invariato rispetto al 2016. Altri dati, del Sistema nazionale per la protezione dell'ambiente, evidenziano come l'Italia sia passata dal 2,7% di suolo consumato negli anni Cinquanta al 7,64% (+184%) di oggi, un'area «irrimediabilmente compromessa» grande quanto Campania, Liguria e Molise insieme. Tra il 1950 e il 2000 l'Italia ha «mangiato» 5 milioni di ettari di suolo agricolo. Un problema che la crisi economica del 2008 – quando l'urbanizzazione viaggiava ad 8 metri2 al secondo – ha rallentato ma non fermato. Perché la natura del consumo di suolo risponde a logiche politico-affaristiche completamente slegate dalle reali necessità costruttive del Paese. Una scelta che costa agli italiani tra i 600 e i 900 milioni di euro l'anno.

 

Per approfondire:

Il cemento che mangia la terra, gli ambientalisti in pressing per una legge - Giovanna Maria Fagnani, Corriere della Sera, 13 febbraio 2018

Siamo il Paese in cui uno dei più importanti eventi sportivi – il Giro d'Italia – viene ridotto nella sua tappa di Roma per l'eccessivo numero di buche sull'asfalto (una ogni 15 metri secondo il Codacons) e che multa chi prova a segnalarne la pericolosità; siamo il Paese in cui chi prova a chiedere “Basta cemento” e “Acqua e aria sane” viene accusato di «attentato al decoro pubblico» per aver esposto due striscioni dalla finestra – come avviene a Gabriele Fedrigo, cittadino di Negar – ma soprattutto siamo il Paese in cui 90.000 persone muoiono, ogni anno, per «polveri sottili e ossido di azoto»[2] soprattutto in Pianura Padana, l'area più inquinata d'Italia dove è previsto il maggior investimento per trasporto su gomma.

 

Tav Torino-Lione, quando lo Stato si schiera contro se stesso

Oltre mille poliziotti, carabinieri antisommossa e finanzieri lanciati contro la gente comune[...]i sindaci in prima linea, rappresentanti dei cittadini regolarmente eletti, presi a sberle dai carabinieri, con frasi tipo: “Lei chi si crede di rappresentare con quella fascia tricolore?”. Altri presi a cazzotti e buttati a terra, gente con le mani alzate e disarmata, che ribadiva la protesta PACIFICA [maiuscolo nell'originale, nda], spostata di peso dai prati espropriati

È il 31 ottobre 2005 e a raccontare quanto appena avvenuto sul monte Rocciamelone (850 metri d'altezza al confine tra la Val di Susa e la Valle di Viù, Torino) è Luca Mercalli, meteorologo, volto noto della Rai e abitante di una valle da cui passa il 30% delle merci che valicano le Alpi. Dal 1996 su quello stesso monte campeggia la scritta “No Tav”: un “no” che viene da un'area in cui già si trovano il traforo del Frejus (autostrada e ferrovia); due strade statali; due elettrodotti e dove dal 1990 Italia e Francia – che dal 2017 ha «messo in pausa» il progetto – vogliono far passare l'Alta Velocità Torino-Lione, 235 km di un Corridoio paneuropeo Lisbona-Kiev mai realizzato. Uno dei punti cruciali del tracciato è il monte Musinè: “bucarlo” significa liberare amianto in un'area già nota per l'alta incidenza di morti per tumore.

Per rendere meglio l'idea di questo «Stato contro Stato», che in Val di Susa ha creato il «cantiere più difeso del mondo in tempo di pace», basti considerare che nel 2011 due sindaci No Tav – Simona Pognant (Borgone) e Mauro Russo (Chianocco) – vengono processati per lesioni a due agenti di polizia nella stessa aula-bunker del carcere di Torino dove negli anni '80 si processano le Brigate Rosse. Il progetto Torino-Lione, oggi in discussione tra le forze di governo – e già bocciato dallo specifico Osservatorio della Presidenza del Consiglio dei ministri – è il più noto dei “white elephants” italiani, infrastrutture cioè dai costi eccessivi e dai benefici scarsi, su cui spesso gravano sovrapprezzi legati a quella corruzione che, evidenziano Corte dei Conti ed Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac), fa lievitare i costi delle opere pubbliche italiane del 40%.

 

Per approfondire:

Tav in Val di Susa: progresso e fregatura ad alta velocità - Paolo Ermani, ilCambiamento.it, 30 marzo 2018

Chi vince tra grande opera e democrazia?

Le “grandi opere” sono indice particolarmente interessante per valutare il grado di democrazia di un Paese: dall'ideazione alla progettazione esse investono i rapporti eletti-elettori e quelli tra maggioranza e opposizione – nazionali e locali – tanto quanto la repressione dei diritti civili, il rapporto tra economia, politica e corruzione e quello tra economia legale e illegale.

 

È, di nuovo, 99% contro 1%: da un lato i movimenti contro la brutalizzazione del territorio, dall'altra la speculazione fondiaria e finanziaria. Una frattura in cui la politica è spesso strumento di repressione – anche militare – del dissenso. Una frattura che pone una domanda fondamentale per il futuro sanitario, ambientale, politico ed economico dell'Italia: come si decide l'utilità di una grande opera?

La formula matematica della corruzione

Un metodo molto usato in Italia, come dimostrano varie inchieste giudiziarie, è riassumibile con una la “formula Klitgaard”:

C=M+D-A

Corruzione è uguale a monopolio più discrezionalità (o segretezza) meno “accountability”, cioè il grado di responsabilizzazione dei decisori, a cui va aggiunta l'opacità del processo decisionale: è la formula matematica della corruzione, ideata da Robert Klitgaard, tra i massimi esperti mondiali del fenomeno. Più alti sono monopolio e segretezza maggiore è il livello di corruzione di un'opera, grande o piccola che sia.

Monopolio da intendersi come rapporto economico e, soprattutto, come rapporto politico tra imprenditoria e decisore pubblico: monopolistica è l'appropriazione di risorse economiche, politiche e ambientali, lecita o illecita che sia; monopolistiche – o autoritarie, in senso più politico – sono le decisioni sulle grandi opere, nella maggior parte imposte alla cittadinanza scavalcando le istituzioni locali contro cui, come avviene per i “sindaci No Tav”, viene spesso schierata la repressione militare.

Un processo in cui si ricorre sempre più al “business dell'emergenza”, dove vigono scarsa trasparenza e ampia discrezionalità sul chi, dove e come realizzare l'opera e dove gli organi di controllo indipendente sono spesso presentati allo Stato dalle società vincitrici dell'appalto. Un processo in cui il monitoraggio civico è bloccato dal Segreto di Stato – come nel caso delle concessioni autostradali – e in cui a dettare le regole è, di fatto, la società monopolista, che può falsare i parametri pur di portare avanti l'affare: è, tra i tanti, il caso dei livelli occupazionali del Ponte sullo Stretto di Messina (fissati nel 2015 in 100.000 unità) forniti direttamente dal reparto lobbistico di Salini-Impregilo[3],

 

Blocchi di cemento e blocchi di potere

Si delinea così un vero e proprio «blocco politico-industriale-finanziario» che trae potere e denari dal consumo di suolo e che opera «al riparo da un vero controllo democratico»[4]. Un “Partito del Cemento” che usa i media per criminalizzare chi denuncia o si oppone ad una politica che in Italia come in Europa, America Latina e Africa risponde ad obiettivi che

brutalizzano il territorio, arricchiscono i grandi operatori economici e finanziari, generano rapporti perversi tra politica e imprese, e stringono le comunità locali nella morsa securitaria della gestione dei lavori[5]

Un “blocco” che si forma nel 1963 in opposizione alla legge urbanistica proposta da Fiorentino Sullo, all'allora ministro dei Lavori Pubblici per la Democrazia Cristiana. La legge mira ad abbassare il costo degli alloggi attraverso l'espropriazione generalizzata dei suoli edificabili necessari, da cedere a prezzi più bassi rispetto al libero mercato. Una legge che, insieme a politici fascisti e liberali – e relativa stampa di riferimento – vedrà l'opposizione della stessa Democrazia Cristiana, che abbandona legge e ministro in vista delle elezioni politiche del 28 aprile, con le quali nascerà il cosiddetto Centrosinistra. Quella legge, evidenzia oggi Tomaso Montanari, «avrebbe lasciato un'Italia diversa».

 

Per approfondire:

  1. Fiorentino Sullo e la rendita immobiliare. che cosa è cambiato - Edoardo Salzano, Eddyburg.it, 27 ottobre 2013;

"Nella città dolente" di Vezio De Lucia. Ovvero come l'urbanistica è stata al cento del riformismo italiano e come potrebbe tornare ad esserlo - Andrea Declich, Eddyburg.it, 15 maggio 2013;

Tre anni dopo, mentre i Comuni varano i primi piani regolatori a tutela del paesaggio ambientale, archeologico e monumentale e le richieste per licenza edilizia triplicano rispetto al decennio precedente (per 8,5 milioni di vani residenziali in più nel solo 1968[6]) arriva la prima accusa di «saccheggio urbanistico»: a muoverla è Michele Martuscielli, Direttore Generale all'urbanista del Ministero dei lavori Pubblici che il ministro Giacomo Mancini (Psi) mette a capo della Commissione d'inchiesta sulla frana di Agrigento (19 luglio 1966). Sono gli anni in cui, come evidenzia l'ex sindaco di Torino Diego Novelli (1975-1985), il quotidiano “La Stampa” si schiera «a sostegno dei costruttori della speculazione più rozza», in linea di continuità con l'appoggio alla costruzione dell'Alta Velocità Torino-Lione di questi anni.

Ma sono anche gli anni in cui nascono i pilastri del “blocco”: il gruppo Benetton viene creato nel 1965, mentre pochi anni prima Pietro e “Marcellino” Gavio prendono le redini dell'omonimo gruppo, che dal commercio di cereali passa al petrolio e – grazie all'amicizia con Enrico Cuccia e Mediobanca – alle autostrade, di cui oggi i Gavio controllano 1.400 chilometri. Cuccia e Mediobancasono inoltre amicizie fondamentali anche per la nascita del controverso impero di Salvatore Ligresti – che nell'era di “Mani Pulite” viene arrestato prima per lo scandalo delle “aree d'oro” (1986) e poi per le tangenti sulla metropolitana milanese (1992). Gruppi che si aggiungono a nomi storici del settore come il Consorzio Muratori&aCementisti (Cmc) e il Consorzio Cooperative Costruzioni (Ccc), principali membri delle cosiddette “Coop rosse”.

 

Per approfondire:

  1. Ponte Morandi, i tre padroni delle autostrade: al casello paghiamo i mega debiti e i dividendi - Fabio Pavesi, il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2018;
  2. Anas, governo perde quasi mezzo miliardo per favorire Carlo Toto - Daniele Chicca, Wall Street Italia, 29 maggio 2017;
  3. Maniere forti e colate di cemento. Ligresti si è preso un pezzo di città - Stefano Rossi, la Repubblica ed. Milano, 1 agosto 2008;

Cmc di Ravenna, la Coop che collezione inchieste e commesse in cui lavora il fratello di Maria Elena Boschi - Nino Sunseri, Libero, 20 settembre 2017;

Negli anni '60 inizia anche la storia del terzo grande player autostradale Carlo Toto, che entra nella società di famiglia (Toto Costruzioni Generali) per trasformarla negli anni in una Holding attiva anche nei trasporti e nelle energie rinnovabili, grazie anche all'amicizia con tutti i partiti dell'arco parlamentare e l'elezione del nipote Daniele a deputato (Pdl e Fli tra 2008-2013). In quello stesso decennio nascono inoltre Impregilo – che fusa dal 2014 con Salini rappresenta oggi la prima impresa italiana all'estero – e il gruppo Caltagirone, uscito formalmente dal blocco nel settembre 2017 con la vendita di Cementir al gruppo tedesco Hedelbergcement, che nel 2015 rileva Italcementi dalla famiglia Pesenti. Nel 2017 l'Antitrust multa una serie di società – tra cui Cementir e Italcementi – per aver creato un cartello volto a definire «identici aumenti nominali del prezzo del cemento».

Approfondire sul sistema di potere che ruota intorno a cemento e grandi opere meriterebbe un libro per ogni membro di un sistema di relazioni che ingloba grandi imprese, politici, tecnici di varia specializzazione, banche e, in molti casi, clan criminali; un libro che spesso viene scritto, non a caso, dalle sentenze di un tribunale.

Grandi opere, grandi tangenti, grandi...pentiti

Uno dei nodi principali di questa rete è, oggi, la figura del “General contractor” (“Contraente generale”, in italiano), istituita nel 1991 dall'allora amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci proprio per il progetto Tav Torino-Lione e ripreso dalla Legge obiettivo del 2001, che ha dato formale avvio alla "bulimia di grande opera" registrata in questi ultimi decenni: 418 opere in lista al 2016, anno della sua abrogazione. Funziona così:

lo Stato delega tutto a un consorzio di imprese private, che gestiscono direttamente i soldi pubblici: in cambio, dovrebbero assumersi tutti i rischi, tecnici e finanziari, e consegnare l'opera finita, “chiavi in mano”, al prezzo fissato. In realtà non c'è mai un progetto chiavi in mano. […]La legge prevede un'alta sorveglianza sui general contractor, che spetta all'Anas per le autostrade e all'Italferr-Rfi per la Tav, che dovrebbero controllare e approvare tutte le varianti che aumentano i costi. Ma tutta l'alta sorveglianza è finta. […]Il progetto è fatto male in partenza, così poi si devono fare le modifiche, le varianti, che portano soldi in più alle imprese[...]Se il progetto cambia, dovrebbero pagare le imprese private. Invece paga sempre la parte pubblica.

È questo il sistema che sceglie calcestruzzo di scarsa qualità (terremoti L'Aquila 2009 e Amatrice 2016) o cemento depotenziato per la costruzione di strade, ospedali, scuole e aeroporti. È questo il sistema con cui un'opera che all'estero costa 1 miliardo in Italia arriva a costarne tra i 4 e i 6 miliardi. È questo il sistema denunciato da Giampiero De Michelis, “direttore dei lavori” in molte grandi opere italiane, cioè «primo e decisivo controllore pubblico delle imprese private». Arrestato nel 2017 insieme a dirigenti di Salini-Impregilo e Condotte d'Acqua, diventa il “superpentito” dei grandi appalti pubblici per le procure di Roma e Genova, che sulle sue dichiarazioni imbastiscono l'inchiesta “Amalgama”[7] sulle tangenti per la linea ferroviaria Milano-Genova (“Terzo valico”). Nel filone genovese dell'inchiesta sono arrestati l'ex capo Struttura tecnica del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti Ettore Incalza - “l'uomo che collega”, come lo definisce Paolo Colonnello su La Stampa nel 2015 – e Andrea Monorchio, ex Ragioniere generale dello Stato ed ex presidente di Infrastrutture Spa, società a partecipazione pubblica creata per il finanziamento delle grandi opere.

 

Per approfondire:

Così la corruzione uccide: parla il primo pentito delle grandi opere - Paolo Biondani e Giovanni Tizian, l'Espresso, 16 marzo 2017

È questo, evidenzia De Michelis ai magistrati, il sistema che grazie all'affidamento per chiamata diretta e senza gara pubblica permette di affidare i lavori ad imprese “fedelissime”, che «ripagano» affidando parti del lavoro in subappalti, consulenze o partecipazione di altre imprese nei lavori. Un sistema che dal 2001 e fino al Codice appalti del 2016 ha permesso alle stesse imprese di nominare il direttore dei lavori, cioè il loro controllore. Riporta inoltre il sito AppaltiLeaks.it

 

… cosa ancor più grave – che solo le recenti (e future) inchieste della magistratura potranno (se vorranno) disvelare in tutta la gravità – è rappresentata dal fatto che per anni il “mercato” della direzione lavori dei general contractors si è incredibilmente concentrato, sotto lo sguardo tollerante e complice del committente, nelle mani di pochissimi (e sempre più ricchi) studi di ingegneria senza che i relativi incarichi fossero attribuiti sulla base della benché minima procedura ad evidenza pubblica. […] si comprende bene come sia stato possibile che pochissimi “direttori dei lavori” potessero avere così tanti incarichi contestualmente ...

 

Questo sistema – riporta Alberto Vannucci in “Grandi opere contro democrazia”[8] – può contare sulla «discrezionalità dei processi di selezione dei contraenti» e sulla «strutturale inefficienza delle strutture tecniche pubbliche che dovrebbero sovrintenderne la regolarità [dell'aggiudicazione degli appalti, nda] e l'imparzialità» oltre che sulla scarsa trasparenza che rende impossibile il monitoraggio civico.

Una scarsa trasparenza che permette il sempre maggior ricorso ad una “emergenza” - o “urgenza” nelle parole del governo Conte – ormai prassi consolidata di una politica corruttibile, senza una visione sul lungo periodo e che non tiene conto delle necessità né della logica di sviluppo urbano. È così che in Italia è stato possibile costruire un albergo sotto un canalone di sfogo per frane e valanghe – l'hotel Rigopiano a Farindola, Pescara, 29 vittime di frana nel gennaio 2017 – o un palazzo che a Genova, prima di essere abbattuto nel 2013, faceva da diga al fiume Chiaravagna, aumentando il rischio di una esondazione puntualmente avvenuta nel 1992 e nel 2010. Lo stesso ponte Morandi (2018) ha visto la riduzione dei controlli – da 1.400 a 850 tra il 2011 e il 2015 – per effetto dei tagli agli stipendi dei tecnici della Direzione generale per la vigilanza, nel 2011 passati dall'Anas al Ministero delle Infrastrutture. Controlli che, riporta Fabrizio Gatti su l'Espresso, sono stati realizzati con un metodo – Sonreb-Win – noto per avere un margine d'errore dell'80%. Dove sono, in tutto questo, le «cause naturali» che giustificherebbero il crollo del ponte Morandi e delle altre grandi opere italiane?

 

[1 - Continua]

 

Note:

“Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” - Rapporto Ispra 2018, p.14;

“Grandi opere contro democrazia” - Roberto Cuda (a cura di), Edizioni Ambiente, Milano 2017, p.13;

”La storia infinita del ponte sullo Stretto”, Stefano Lenzi, in R.Cuda, op.cit., p.83;

R. Cuda, op.cit., p.11;

R. Cuda, op.cit., p.5;

Vezio De Lucia, Nella città dolente, Castelvecchi, 2017, Kindle Edition;

Il nome dell'indagine della Procura di Roma deriva da un'intercettazione di Domenico Gallo, imprenditore in affari con De Michelis e accusato di connivenze mafiose: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l'amalgama». In “Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti” - l'Espresso, 29 novembre 2016;

“Grande opera, grande corruzione?” Alberto Vannucci, R. Cuda, op.cit., pp.17-22;

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venerdì 5 ottobre 2018

 

Quanto sono democratiche le grandi opere italiane?

di Andrea Intonti 

 

Il rapporto tra politica e cemento non nasce con la Legge obiettivo del 2001: già nel 1963, mentre viene bloccata la legge urbanistica del ministro Sullo, il regista Francesco Rosi ne fa il centro della sua denuncia sulla (odierna) speculazione edilizia passata sotto il titolo di “Le mani sulla città”.

 

Autostrade ad personam

Un rapporto che ha da sempre al centro le autostrade, dove peraltro l'Italia ha bruciato 1,9 miliardi di denaro pubblico per tre progetti (BreBeMi, Tangenziale esterna e Pedemontana Lombarda) che non hanno raggiunto i livello di traffico prestabiliti: prima dei Benetton – che entrano «a costo zero» nel settore grazie alle privatizzazioni del 1999 – la storia della Repubblica ricorda:

- la “Curva Fanfani” prima del casello di Arezzo, che per volontà dell'ex ministro democristiano porta l'Autostrada del Sole nella sua città natale (e feudo elettorale) allontanandola da una Siena all'epoca guidata dal Pci;

- la “PiRuBi”, l'autostrada A31 tra Trento, Vicenza e Rovigo il cui tracciato viene deciso dagli allora ministri Dc Flaminio Piccoli, Mariano Rumor e Antonio Bisaglia;

- la strada statale Cassia Veientana – oggi strada provinciale – che, pare, servisse per comodità dell'ex Presidente della Repubblica Giovanni Leone;

- il passaggio da Avellino e non da Benevento dell'autostrada A16 per volontà del ministro Sullo;

- il finanziamento da un milione di euro (2008) per l'aeroporto di Albenga, soprattutto per - il volo Albenga-Roma Fiumicino spesso suato dall'allora ministro Claudio Scaiola, cittadino della vicina Imperia.

La lista potrebbe allungarsi con i prossimi esecutivi, ma è certo come dalle Alpi alla Sicilia le grandi opere non tengano contro degli impatti ambientali, sanitari né della semplice volontà popolare, che siano fatte pro domo di qualche ministro o meno. È così che si sviluppano le “tragedie” dei ponti, delle scuole o dei palazzi che crollano senza motivo apparente.

 

La legge come “camera di compensazione”

“Tragedie” evitabili se l'Italia non avesse avuto per 15 anni una legge sulle grandi opere «criminogena»[1]: la Legge obiettivo 443/2001, voluta dall'allora governo Berlusconi per semplificare l'iter di progettazione, autorizzazione e realizzazione delle opere pubbliche e che prevede la figura del “general contractor” o una procedura semplificata per la Valutazione di Impatto Ambientale. Fino alla sua cancellazione (2015) la legge è diventata un contenitore di opere tanto grandi quanto non finanziabili: 418 opere – di cui realizzato solo il 4% tra 2001 e 2011 – per un costo totale di 362 miliardi di euro, da raccogliere in ampia parte coinvolgendo imprese private. Per il finanziamento pubblico, denuncia il professor Mauro Cappello l'Italia ha rinunciato a 20 miliardi di euro di fondi europei per il periodo 2014-2020, di cui 9 miliardi di fondi 2007-2013 mai impiegati.

Negli anni la Legge obiettivo è diventata una “camera di compensazione” tra politica e grandi imprese del cemento: quel “blocco politico-industriale-finanziario” i cui riflessi e interessi oltrepassano i confini nazionali, ne sono esempio le controverse dighe Gibe in Etiopia (Salini-Impregilo) o la diga di Mosul in Iraq (gruppo Trevi) addirittura difesa da un contingente militare italiano. Ma la Legge obiettivo ha anche permesso di presentare progetti senza piani economico-finanziari (Autostrada Tirrenica) né analisi costi-benefici (Autostrada Tirreno-Brennero, TiBre). Grazie all'introduzione del “project financing”, inoltre, la legge ha permesso di scaricare il rischio d'impresa sui contribuenti, come sempre più dimostrano le indagini giudiziarie.

 

I conti sballati con il project financing

Istituita con la legge Merloni-ter (n.415/1998), la "finanza di progetto" ("project financing", in inglese) prevede l'assegnazione dei lavori di realizzazione di un opera pubblica ad un'impresa – o, dati i costi, un consorzio di imprese – che si accolla le spese in cambio di entrate economiche future (affitto dell'infrastruttura, svolgimento di servizi accessori come la pulizia, etc.) affidati di solito con la formula dell'"evidenza pubblica". È un modo di procedere che incide pesantemente sulle casse dello Stato ma che, nel tempo, ha permesso la costruzione di ospedali (Padova, Bologna), tribunali (Rovigo) e sedi comunali (Bologna). Riprendendo da un articolo del 2015 di Giorgio Meletti per il Fatto Quotidiano:

costruzione dell'ospedale di Nuoro: investimento da 45 milioni di euro ripagato ai privati – tra affitto e costi accessori – 800 milioni;

centrale tecnologica dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna: costo 30 milioni, di cui 6 coperti da fondi pubblici, ripagato ai privati con un contratto finale dal valore di 400 milioni;

nuova sede del Comune di Bologna: costo ufficiale 70 milioni di euro, ripagato ai privati con 250 milioni.

«Trattandosi di contratti per la fornitura dei servizi», evidenzia Meletti, «non risultano né tra gli investimenti né tra i debiti. Praticamente non lasciano traccia nei bilanci pubblici».

 

Un sistema che comporta un indebitamento implicito, sotterraneo o nascosto di circa 200 miliardi di euro. Si tratterebbe del 10 per cento in più rispetto al dato ufficiale del debito italiano

 

Project bond: dai subprime tossici alle “grandi opere tossiche”?

Dal 2012, con il Regolamento 670/2012 l'Unione Europea ha introdotto anche i “project bond”: obbligazioni di scopo emesse da un'impresa per finanziare la realizzazione di infrastrutture o servizi di pubblica utilità e destinati ad investitori finanziari come fondi sovrani o pensionistici. L'obbligazione – di fatto una raccolta di risparmio a lungo termine – prevede la definizione di una garanzia (swap, in gergo finanziario), mentre il rimborso dipende esclusivamente dai flussi di cassa che il progetto stesso è in grado di assicurare. Il debito generato è diviso in tranches in base al livello di rischiosità – aumentando il rendimento del bond e diminuendone il costo. La parte più rischiosa dell'investimento rimane a carico della Banca Europea per gli Investimenti (Bei) attraverso la “2020 Project Bond Initiative”, mentre agenzie di rating come Fitch lanciano l'allarme sulla scarsa qualità di questi prodotti finanziari. Il progetto Castor in Spagna, ad oggi l'unico realizzato tramite project bond, si è rivelato un flop, e oggi pesa sui cittadini spagnoli per 1,3 miliardi di euro. La domanda è d'obbligo: cosa accadrà quando, come nel caso dei mutui subprime che hanno generato la crisi finanziaria del 2008, si inizierà davvero a speculare con questi titoli? Si passerà dai “titoli tossici” alle “grandi opere tossiche”?

 

Per approfondire:

  • Project Bond. Le infrastrutture sono montagne di carte - Luigi Sturniolo, TerreLibere.org, 7 giugno 2012;
  • La «chance» dei project bond per far ripartire grandi opere e infrastrutture - Paola Dezza, Casa24.ilSole24Ore.it, 10 dicembre 2014

Operatività dei Project bond - Aspetti pratici e principali novità - Gennaro Mazzuoccolo, Arturo Sferruzza, Norton Rose Fulbright;

Le grandi opere sono antidemocratiche?

Nonostante l'abrogazione, il governo Renzi ha comunque mantenuto una parte sostanziale della Legge obiettivo nel decreto “Sblocca Italia”:

su 45 articoli, ben 11 disposizioni, un quarto delle norme contenute nel decreto, vanno verso l'indebolimento delle tutele e le valutazioni ambientali e a dare una mano libera agli interessi speculativi sui beni comuni. Tutto con il rischio che ai danni ambientali si aggiungano, come segnalato dal presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, i rischi relativi ad un aumento dell'illegalità

Riporta una specifica analisi del WWF a cui fa eco una sentenza del Tribunale per i diritti dei popoli sulla Tav nella quale i giudici denunciano come con tale decreto

[si] formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio

Wwf ed Anac denunciano concessioni senza gara, deroghe alla pianificazione urbanistica o alle valutazioni ambientali ed economiche in favore della speculazione edilizia, di riciclaggio di denaro – e autoriciclaggio – o deroghe al codice dei contratti, ricorso al “business” dell'emergenza. «Rischi» che significano militarizzare un territorio, sul quale costruire grandi opere imposte senza il ricorso alla consultazione pubblica – né dei cittadini, né delle amministrazioni locali – o ascoltando il parere dei «soli comuni interessati alla realizzazione dell'opera», come nel caso della Tav, in piena violazione della Convenzione di Aahrus; «rischi» che significano imporre certe opere a discapito del diritto alla salute, alla libertà di circolazione, riunione ed espressione del pensiero, opere che spesso sono approvate per mero calcolo corruttivo. «Rischi» che portano i governi «al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, nazionali e sovranazionali e delle loro istituzioni»[2] e dunque incostituzionali. «Rischi» che, in ultima analisi, significano una sola cosa: chiudere spazi all'esercizio della democrazia e, di conseguenza, contro la Costituzione,

 

L'interesse “antispeculazione” del Nimby

Libertà, diritti, democrazia. Tutto racchiuso in un rapporto di (dis)equilibrio tra interessi: quello speculativo in cui si muovono politica, imprenditoria, criminalità, repressione e in molti casi propaganda contro l'interesse generale, per dirla con il diritto, a cui si appellano le comunità monitoranti, i comitati del “no” spesso tacciati di bloccare l'economia del Paese (secondo la teoria “Nimby”, in inglese) ma spesso uniche sentinelle a difesa del vero interesse generale: quello cioè che tutela la salute dei cittadini e l'ambiente a discapito della speculazione e di quell'”interesse strategico nazionale” che permette l'apposizione del Segreto di Stato, un procedimento che, almeno per quanto riguarda le autostrade, senza il crollo del ponte Morandi a Genova (14 agosto 2018) probabilmente non sarebbe mai entrato nell'interesse del sistema mediatico.

Fino al gennaio 2018, infatti, i contratti di concessione – compresi dati tecnici come la remunerazione del capitale, i piani economico-finanziari o la descrizione delle opere da realizzare – sono segretati e dunque non accessibili all'opinione pubblica e detenuti dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit).

È però una “full disclosure” a metà: il governo Renzi decide infatti di non rendere accessibili informazioni come gli aspetti tecnici e finanziari di una grande opera, rendendo di fatto impossibile capirne realmente l'utilità “anti-speculativa” per la cittadinanza.

 

La “moneta” delle grandi opere

Chi decide, e in base a quali parametri, l'utilità di una grande opera? Il governo Renzi – attraverso il ministro Delrio – ha definito la necessità di opere «snelle, utili e condivise», passando dalle 418 opere della Legge obiettivo 2001 (costi stimati: 362 miliardi di euro) alle 25 opere “prioritarie”, dal costo stimato di 90 miliardi, cui si aggiungono altri 50 miliardi per i contratti già firmati. I progetti sono contenuti in un vero e proprio “documento strategico” che definisce le infrastrutture da costruire fino al 2030: strade, ferrovie, porti, interventi in città e aree urbane contenute nell'Allegato Infrastrutture del Documento di economia e finanza 2017 (Def 2017) e che tra 2015 e 2016 hanno registrato un +8% di investimenti, per una media annua di 12,8 miliardi di euro. Bisognerà capire se il trend rimarrà positivo anche sotto il governo Conte e, soprattutto, con l'introduzione della flat tax che toglierà alle casse dello stato circa 70 di entrate all'anno.

Cosa succede, però, se un ministro decide di usare una di quelle opere per minacciare la tenuta del governo? È quello che succede già nel 2008, quando Antonio Di Pietro, all'epoca a capo del Mit, minaccia di far cadere il governo Prodi perché contrario alla soppressione della Stretto di Messina Spa (SDM Spa), oggi in liquidazione, a cui vengono affidati i lavori per l'omonimo e mai realizzato ponte.

 

Le troppe poltrone dei direttori

Secondo l'ex magistrato questa decisione porterebbe l'Italia a pagare una penale di 600 milioni di euro, che sale a circa un miliardo quando con il governo Renzi, Salini-Impregilo – principale appaltatrice del Ponte nel consorzio Eurolink, general contractor dell'opera – pretende l'apertura dei cantieri per costruire il Ponte sullo Stretto di Messina, archetipo delle grandi opere inutili. La vicenda – da più parti definita come vero e proprio «ricatto» ed emblematica di un certo tipo di rapporto politica-grandi gruppi economici, sia nazionali che internazionali – è interessante anche perché permette di fare luce sulla figura di Pietro Ciucci, nel 2009 presidente Anas, delegato della Stretto di Messina Spa e commissario governativo per la realizzazoine del ponte.

Una situazione identica a quella che, per la Brescia-Bergamo-Milano – BreBeMi, nota per essere non solo inutile ma anche destinataria di rifiuti tossici – vede Francesco Bettoni presidente del progetto e nello stesso tempo consigliere della finanziatrice Banco di Brescia. E ancora: Roberto Ferrazza, chiamato a capo della Commissione d'inchiesta sul crollo del ponte Morandi dal ministro Toninelli nonostante nello scorso febbraio sia stato firmatario – da presidente del comitato tecnico amministrativo – di un progetto per il rinforzo del ponte che, evidenzia Fabrizio Gatti, è pieno di «incongruenze» e non prevede riduzioni di traffico nonostante sia stato presentato come «metodologicamente ineccepibile». Ancora più interessante è Barbara Marinali, direttrice generale (2009-2013) della Direzione generale per le Infrastrutture stradali, che nel 2009 una «manina della Presidenza del Consiglio» trasforma da dipendente dell'Autorità Garante della concorrenza in dirigente della stessa Autorità. Una carica che le varrà, senza averne titoli, il passaggio nella DGIA e poi nell'Autorità dei trasporti[3].

 

Penali (fasulle)&Propaganda

Ma le penali – quella pubblicizzata da Di Pietro tanto quanto quella sulla revoca delle concessioni autostradali – non esistono: servono come mera propaganda per continuare a drenare soldi pubblici verso i privati tanto nel settore delle grandi opere quanto, ad esempio, in quello dei “grandi sprechi militari”: esempio classico è l'acquisto dei caccia F-35 nascosto dietro la propaganda antimigrante, per i quali il governo Conte continuerà a pagare 150 milioni di euro a velivolo. Denaro che, evidenzia PeaceLink, viene sottratto «alla bonifica di tutte le città vittime dell'inqinamento».

Lo stesso governo Renzi, fautore della politica di opere «snelle, utili e condivise» - e di conseguenza volute anche dalle comunità locali – attraverso il Dpr 146/2016 ha però definito che, in caso l'iter burocratico sull'opera superi i 45 giorni, la decisione spetti in via esclusiva al presidente del Consiglio e, di conseguenza, alla sua “sensibilità” all'attività lobbistica delle grandi imprese, dei clan mafiosi o delle tangenti. Una decisione che il governo Conte – nella sua componente M5S eletto anche grazie ai voti di quei movimenti del no che ora rinnega – non sembra affatto voler cambiare.

 

[2 - Continua]

 

Note:

La definizione è del presidente dell'Associazione Nazionale Anticorruzione (Anac) Raffaele Cantone, ma che la Legge obiettivo 443/2001 sia «criminogena» lo conferma l'attività investigative di varie procure italiane;

“Grandi opere e democrazia: il caso del Tav Torino-Lione” - Alessandra Algostino, in "Grandi opere contro democrazia" - Roberto Cuda (a cura di), Edizioni Ambiente, Milano, 2017, p.39;

“Chi sapeva ha taciuto” - Fabrizio Gatti, l'Espresso, 26 agosto 2018

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