I partigiani sono nelle piazze. Uno speciale di Zic.it

 

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23 febbraio 2018

 

Quando ai fascisti si vietavano le piazze e i panini

 

Da Bologna a Cantagallo, da Ferrara a Rimini: quando ai fascisti si vietavano le piazze e i baristi nemmeno li facevano mangiare.

 

Quello del 16 febbraio è l’ultimo dei tanti episodi che hanno visto gli antifascisti contrapporsi alla presenza dei fascisti nelle strade. Una carrellata storica dai primi anni del dopoguerra ai nostri giorni.

 

Dicono che con la memoria corta non si vada da nessuna parte, se poi a far uso della memoria non si è mai stati abituati, ecco spiegato come certi soggetti che si ritengono politici, editorialisti o titolisti di punta possano dare aria alla laringe o arrabattarsi coi caratteri di stampa.

 

Sulla straordinaria giornata antifascista di venerdì 16 febbraio si sono sentite e lette delle cose che verrebbe da dire: se proprio non ce la fate a abbozzare un ragionamento sensato, almeno guardate le fotografie e, forse, riuscirete a farvi qualche domanda su quello che è successo.

 

Cominciamo con il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, in visita a Bologna: “E’ veramente inaccettabile che poche decine di persone usino l’antifascismo come alibi per aggredire le forze dell’ordine”. Ma che film ha visto? Certo che, se i conti dello Stato, li redige con lo stesso criterio con cui ha calcolato i manifestanti c’è da stare freschi.

 

Continuiamo con i “Gianni & Pinotto” del PD bolognese, il duo “litigo/faccio la pace”, alias “Merola/De Maria”. Il deputato ha accusato i collettivi di “aver fatto un favore a Forza Nuova”, il sindaco ha stigmatizzato “l’uso dei bastoni all’intervento della polizia… in democrazia non si fa così”. Chissà dove gli ha visti i bastoni Merola? Forse su “Scherzi a parte”… Venerdì, a roteare e ad abbattersi sulla testa delle persone, prima in piazza Galvani, poi in via Farini, sono stati solo i manganelli degli uomini in divisa.

 

Anche sull’opportunità di concedere la piazza a Forza Nuova, il primo cittadino ha voluto esternare una delle sue non rare “perle di saggezza”: “Non direi che è stato un errore, ma è una una domanda viziata chiedersi se è giusto autorizzare una manifestazione di Forza Nuova in piazza. Sono le nostre regole elettorali che permettono a chi è in campagna elettorale di organizzare iniziative pubbliche”.

 

Merola forse non lo sa, ma, se per tanti anni, piazza Maggiore rimase inibita ai fascisti fu perché, nel 1969, all’annuncio di un comizio dell’ex fucilatore di partigiani Giorgio Almirante, segretario dell’MSI, la piazza grande della città si riempì di migliaia di studenti, operai ed ex partigiani. Gli antifascisti si spazientirono presto delle provocazioni del caporione missino. Dai gradini di San Petronio e dal Sacrario ai caduti della libertà di piazza Nettuno ci fu un assalto di massa al palco fascista. L’ingiuria alla Resistenza venne impedita con una vera e propria battaglia campale che si allargò a tutte le strade del centro storico, dove, per ore, gli antifascisti resistettero alle cariche della Polizia. Il giorno successivo l’allora sindaco Guido Fanti convocò d’urgenza un consiglio comunale straordinario dove venne approvato un ordine del giorno che vietava la concessione di piazza Maggiore al Movimento Sociale e alle organizzazioni di ispirazione fascista. Questa deliberazione rimase in vigore fino al 1987, poi altri amministratori dissero che “i tempi ormai erano cambiati”.

 

Tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, ogni volta che ce n’era bisogno, è successo quello che si è verificato la mattina del 16 febbraio in piazza Galvani: se i fascisti prenotavano una piazza per farci un’iniziativa, qualche ora prima il tam tam antifascista arrivava nelle fabbriche e, in poco tempo, tanti operai lasciavano il lavoro per occupare la piazza, inibendola al fascista di turno.

 

Anche per i banchetti della propaganda fascista non c’era certo vita facile. Di scontri, nel corso di decenni, ve ne furono moltissimi. Quello che venne ricordato per più tempo si verificò nelle vicinanze del Cinema Modernissimo, all’incrocio tra via Rizzoli e piazza Re Enzo, nel pezzo di portico conosciuto come “l’angolo dei cretini”.

 

Erano gli anni in cui l’MSI non era ancora attivo e lo spazio politico dei nostalgici del duce e del re era coperto dal Fronte dell’Uomo Qualunque. Quando i seguaci del movimento qualunquista si presentarono per diffondere il proprio giornale, ex partigiani e antifascisti fecero saltare il banco. Volarono “smatafloni”a volontà e i tonfi dei calci in culo si sentirono distintamente, in diversi fecero le spese della pesantezza delle callose mano operaie.

 

Del resto, la decisione del Comune di Bologna di vietare piazza Maggiore ai fascisti, negli anni successivi, fece proseliti in altre amministrazioni della regione. Nell’aprile del 1971, la giunta comunale di Rimini fece una “formale richiesta affinché le autorità competenti proibiscano, per ragioni di ordine pubblico, qualsiasi raduno di aderenti ad organizzazioni

di estrema destra, compreso il Msi”.

 

A Ferrara, la prefettura decise di far rinviare un raduno che, tradizionalmente, si teneva tutti gli anni. Si trattava del “cosiddetto rancio sociale riservato agli iscritti e ai simpatizzanti del MSI e agli ex combattenti Repubblica sociale italiana”. Le ragioni del provvedimento stavano nelle proteste del consiglio comunale cittadino, dei partiti, delle associazioni partigiane e dei sindacati. Secondo la prefettura questi soggetti “ritenevano provocatoria l’effettuazione di tale raduno in un locale nei pressi del quale trovansi lapidi relative episodi guerra partigiana”. Inoltre, per il prefetto, era paventata la possibilità di una protesta da parte di “una moltitudine di operai delle fabbriche e di lavoratori in genere”, con l’intento di “impedire la riunione in argomento, unendosi ai gruppi della sinistra extraparlamentare che hanno manifestato in termini accesi il proposito di bloccare e disturbare il suddetto raduno”.

 

Perciò, ai fascisti, non solo venivano negate le piazze, anche il cibo veniva messo in discussione.

 

L’episodio più eclatante si verificò ai primi di giugno del 1971 al Cantagallo, nelle vicinanze di Casalecchio di Reno, nell’area di sosta dell’Autostrada del Sole Bologna-Firenze. Un barista dell’autostazione si vide davanti il caporione missino Giorgio Almirante che, con il suo codazzo di camerati, si era avvicinato al banco dell’Autogrill per mangiare. L’addetto ai panini lanciò l’allarme a tutti i lavoratori, dai baristi ai benzinai, che, immediatamente, incrociarono le braccia, scendendo in sciopero: “Né un panino né una goccia di benzina al fucilatore di Partigiani”, fu il passaparola. Forse, Almirante e i suoi non avevano considerato che il Cantagallo distava pochi chilometri da Marzabotto, il paese martire per la strage nazista del 1944, l’orrore e il ricordo della complicità dei fascisti non si erano ancora cancellati. Se ne dovettero andare senza nemmeno un panino e, anche, per il pieno di benzina la stazione di servizio si rese indisponibile.

 

 

I sedici lavoratori protagonisti dello sciopero furono denunciati e mandati a processo.

Alcuni giorni dopo il boicottaggio antifascista, una squadraccia di missini, guidata dal federale Cerullo, fece un blitz al Cantagallo, per vendicare il loro capo. Due lavoratori addetti alla sicurezza e due camerieri furono aggrediti con pugni e bastoni.

 

La scorribanda fascista, provocò una risposta di sciopero generalizzato. Incrociarono le braccia tutti i 175 dipendenti dell’Autogrill, il 90% dei metalmeccanici della provincia di Bologna, grandi adesioni ci furono anche in tutte le altre categorie.

 

Alla fine, dopo due anni di processi, i sedici del Cantagallo vennero assolti. La giornalista Miriam Mafai scrisse: “Il fatto non era un reato (e ci mancherebbe altro). Contestare un personaggio pubblico dovrebbe essere un diritto assoluto che rientra nel diritto di espressione dei cittadini. E tanto più radicali e violente sono queste idee politiche tanto più forti dovrebbero essere le contestazioni”.

 

Il 9 maggio 1974, il divieto di piazza Maggiore ai fascisti venne aggirato con una decisione del prefetto che autorizzò un comizio del MSI per le ore 18. A partire dalle 13 un migliaio tra poliziotti e carabinieri occuparono militarmente la piazza. Alle 17 cominciano ad affluire operai, studenti e antifascisti. La FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) aveva invitato a una presenza di massa al Sacrario dei Caduti indicendo uno sciopero di mezz’ora con uscita anticipata dal lavoro.

 

Già dalle 15 alcune migliaia di persone avevano cominciato a confluire in piazza, nel giro di due ore il crescentone era stracolmo di antifascisti. Erano venuti in quarantamila per protestare contro i fascisti: agenti e militari vennero letteralmente sommersi e si portarono ai margini della piazza.

 

Di fronte a quella situazione, i missini non si fecero vedere. In un loro comunicato giustificarono la scelta, scrivendo che non intendevano farsi “riempire di insulti da decine di migliaia di cialtroni e di attivisti extraparlamentari riuniti in piazza Maggiore”. L’incauto prefetto non poté che prendere atto della situazione e fu costretto a ritirare l’autorizzazione al comizio.

 

Negli anni successivi, durante il ’77 e nel decennio che ne seguì, di fascisti nelle piazze se ne videro molto pochi. Furono invece gli anni delle bombe sui treni e delle stragi, piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), il treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974), fino alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980.

 

Nella prima metà degli anni Settanta la galassia di sigle e di movimenti dell’estrema destra (parlamentare ed extraparlamentare) si divideva essenzialmente in tre tronconi. Uno era quello di coloro che si riferivano direttamente all’esperienza del fascismo del Ventennio e della Repubblica Sociale e aspiravano a soluzioni golpiste come era avvenuto in Grecia (Msi e Ordine Nuovo). Poi c’erano i gruppi di ispirazione evoliana, legati alla mistica neonazista e a spiccata tensione terroristica, fra i quali si distinguevano Ordine nero e Avanguardia nazionale. Il terzo troncone era quello formato dai “gruppi di contro-mobilitazione” presenti nelle zone di aspro conflitto sociale. Dal 1977 si fece largo una nuova destra radicale che esternava un modo diverso di vivere la militanza nell’area neofascista e nacquero organizzazioni terroristiche come i Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e Terza posizione (dove militava l’attuale leader di Forza Nuova Roberto Fiore).

 

A Bologna, i fascisti si rividero in piazza Maggiore il 29 maggio 1987. Dopo 17 anni di divieti, ritirata l’ordinanza comunale, venne autorizzato un comizio del Msi in piazza Maggiore. Un piccolo palco venne innalzato, sotto i gradini di San Petronio, all’angolo con via dell’Archiginnasio. La mobilitazione antifascista portò in piazza molte persone, ma, da quel giorno, si delineò in maniera molto netta una divaricazione che prosegue, nei fatti, anche ai giorni nostri. Da una parte c’era la staticità del presidio dell’antifascismo

istituzionale (quello dei partiti, dei sindacati confederali, degli amministratori, della dirigenza dell’Anpi) in piazza Nettuno, davanti al Sacrario dei Caduti. Dall’altra c’era l’attivismo dei giovani del movimento (allora li chiamavano “autonomi”, oggi li bollano come i “ragazzotti dei centri sociali”). Mentre quelli vicini alla statua del Nettuno sembravano avere le suole delle scarpe incollate ai lastroni di granito della piazza, in alcune migliaia si mossero verso il comizio missino con bandiere rosse e striscioni. Prima la contestazione avvenne sulla base di urla e slogan, poi, dal vicino mercato di mezzo, arrivarono uova e patate. Un tubero lanciato dai manifestanti colpì in piena fronte l’oratore e il comizio si dovette interrompere per cause di forza maggiore. A quel punto, dai cordoni di polizia, che tenevano divisi fasci e antifa, partirono cariche ripetute a cui i dimostranti con le bandiere rosse risposero con lanci di oggetti vari.

 

Da quel giorno, con una certa continuità, si determinarono alcune altre “costanti”, non ancora passate di moda nel terzo millennio.

 

Ad ogni iniziativa di piazza dei fascisti c’era sempre una nutrita e robusta presenza delle forze dell’ordine. Caso strano (ma non troppo), i carabinieri e i poliziotti erano sempre girati verso gli antifascisti. E anche i manganelli, i lacrimogeni e le botte si riversavano sempre contro chi contestava i “ricostruttori del disciolto partito fascista”. Invece i saluti romani, i “boia chi molla”, gli inni al duce, anche se “anticostituzionali”, venivano protetti ogni volta dagli uomini in divisa.

 

E, il giorno dopo, negli articoli di giornale e nei comunicati delle forze politiche dell’arco costituzionale, la solidarietà veniva espressa eternamente ai “tutori dell’ordine repubblicano”, mai un dubbio sul perché delle tante teste spaccate a ragazze e ragazzi con tanta nonchalance. Mai nessuno che si fosse fatto la domanda se il diritto di poche decine di fascisti ad esprimere pubblicamente un’ideologia con la quale la nostra Repubblica aveva chiuso i conti il 25 aprile 1945 valesse di più di quello di migliaia di cittadini antifascisti.

 

Un’altra data storica dell’antifascismo di movimento è il 13 maggio 2000. Per quel giorno Forza Nuova aveva indetto a Bologna una manifestazione europea. Il programma del raduno fascista prevedeva un convegno alla mattina presso un grande albergo cittadino, poi un corteo per le vie del centro da concludersi in piazza Galvani con un comizio. Erano previste delegazioni dell’estrema destra da quasi tutti i paesi europei. Era annunciato anche l’arrivo di diversi gruppi di naziskin.

 

La giunta di centro destra del sindaco Guazzaloca, e in particolare il suo vicesindaco Giovanni Salizzoni (che si proclamava “antifascista democratico cristiano”), aveva dichiarato la sua disponibilità a garantire l’agibilità politica a Forza Nuova. Le proteste delle associazioni partigiane, prima, dei partiti di centro-sinistra e di CGIL-CISL-UIL poi, non erano riuscite a raggiungere grandi risultati. Tutte le realtà di movimento avevano deciso di indire una grande manifestazione contro il raduno fascista. Come contraltare, la sinistra istituzionale aveva indetto il classico presidio in piazza Nettuno, delegando in toto alla questura il controllo della manifestazione di Forza Nuova.

 

Il 7 maggio il “Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico” decise di vietare sia il corteo dei fascisti sia il corteo antifascista del movimento. Nei giorni successivi veniva revocata l’autorizzazione al comizio di Forza Nuova in piazza Galvani. I fascisti avrebbero potuto riunirsi in piazza del Baraccano. La mattina del 13 maggio l’albergo dove doveva svolgersi il convegno fascista disdisse la prenotazione. Polizia e carabinieri iniziarono a militarizzare la zona dei viali di circonvallazione, dalle parti dei giardini Margherita, per permettere a un centinaio di nazisti di radunarsi al Baraccano.

 

Alle tre del pomeriggio, in piazza Nettuno, cominciarono a radunarsi migliaia di persone. L’indicazione dei compagni del movimento era di formare un corteo per dirigersi verso il Baraccano. La piazza si svuotò, più di diecimila persone si incamminarono per via dell’Archiginnasio. Quando la testa della manifestazione arrivò all’altezza di piazza Minghetti, su via Farini si trovò davanti un massiccio spiegamento di polizia. Poco dopo partì una carica pesante, che vide una risposta compatta dei manifestanti. Ci furono diversi momenti di scontro, poi il corteo si ricompattò mezz’ora dopo in piazza Maggiore. Da lì ripartì per via Rizzoli, una massa enorme (soprattutto giovani) riprese le strade della città, ritornando verso il luogo degli scontri, fino a Porta Santo Stefano. Intanto, la polizia aveva fatto defluire i nazi dal Baraccano con alcuni pulman. I manifestanti si ripresero la parte della città che era stata militarizzata per proteggere l’incursione dei neo-fascisti.

Il giorno successivo, quasi all’unanimità, i commentatori politici si scamiciarono negli attacchi al corteo antifascista. L’unica voce (a sorpresa) fuori dal coro fu quella di Mauro Zani (non certo un movimentista, all’epoca segretario della federazione del PDS): “Certo i metodi potranno essere criticabili, ma io dico che è meglio avere diecimila giovani che scendono in piazza contro i fascisti che averne altrettanti che stanno a casa davanti al televisore”.

 

Se le confrontiamo alle parole proferite dal Sindaco Merola dopo la giornata del 16 febbraio 2018 (“Il presidio in piazza del Nettuno rappresentava la città di Bologna, il resto è gente che partecipa a copioni scelti da altri”) ci rendiamo conto della differenza della pasta politica dei due personaggi, pur se entrambi provengono da un percorso politico comune. E, soprattutto, ci rendiamo conto del degrado che la politica istituzionale ha subito in questi anni e della sua incapacità (o non volontà) di comprendere i processi sociali che le si dipanano intorno.

 

Per irrobustire questa nostra affermazione vogliamo portare un altro esempio avvenuto il 3 aprile 2006. Anche in quel periodo eravamo in campagna elettorale, la Fiamma Tricolore (il partner politico di Forza Nuova in “Italia agli italiani” per questa tornata) era in lizza per le elezioni e voleva tenere un comizio del suo segretario nazionale Romagnoli, insieme a Maurizio Boccacci del Movimento Politico Occidentale e di Piero Puschiavo, fondatore del Veneto Fronte Skinheads.

 

Di fronte alle proteste che si sollevarono da varie parti, il sindaco Cofferati (che non si può certo dire che fosse amico dei centri sociali) espresse le proprie preoccupazioni affinché il comizio non si tenesse in piazza Carducci: “sia per quanto riguarda i possibili problemi di ordine pubblico, sia per quanto riguarda i certissimi problemi di alterazioni del traffico e della normalità in una zona nevralgica della città”.

 

La prefettura decise di cambiare la sede dell’iniziativa con piazza San Francesco. Ma il coro delle proteste aumentò di tono, quel luogo era ancora più inaccettabile del precedente, vicino com’era al Pratello, il quartiere antifascista per eccellenza.

 

Alla fine, il prefetto Grimaldi dispose che il comizio elettorale della Fiamma Tricolore si sarebbe tenuto nella periferica piazza della Pace, a ridosso dello stadio Dall’Ara.

 

Questo a dimostrazione che venerdì 16 febbraio, per l’incapacità del sindaco, con la decisione del questore e la copertura del prefetto è stata fatta una scelta di campo gravissima per tutelare l’agibilità politica di una formazione fascista come Forza Nuova. Non è vero che non si poteva fare diversamente, hanno stabilito che i saluti romani di Fiore e dei suoi camerati andavano tutelati e gli antifascisti andavano bastonati.

 

Vogliamo concludere questa lunga carrellata, con le belle parole di un frate, fra’ Benito Fusco, l’unico osservatore acuto e sensibile, che la giornata di venerdì 16 febbraio ha cercato di capirla: “Sorvolo, anche se ci si dovrebbe preoccupare non poco, sull’atteggiamento delle istituzioni comunali e dello Stato (asociale in questo caso) per le presenze antifasciste a Bologna. Ma le due piazze di presidio antifascista sono state, ognuna con legittimo modo, un unico presidio di grande valore simbolico. Una era piena dei capelli bianchi di chi proteggeva memoria e verità dando voce e canto alle radici 

antifasciste della Bologna democratica e resistente. L’altra difendeva il futuro a muso duro, senza se e senza. Io le ho benedette entrambe, senza sì e senza no, perché l’antifascismo ha senso ed è baluardo quando difende memoria e futuro, con la mente e con il cuore, con la Legge della Costituzione e con le lotte frontali di quei corpi che sono invincibili anticorpi ai nuovi fascismi. I partigiani non sono più in montagna, i partigiani sono nelle piazze”.

Amen

 

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