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5 marzo 2018

 

La lunga marcia verso dove?

di Pierluigi Fagan


Dovremmo tutti sentirci convocati al tavolo del “che fare?”, capendo che il che fare è relativo a cose concrete cioè idee con la realtà dentro. 

 

L’Italia è politicamente e storicamente un Paese pigro e tendenzialmente conservatore. Col voto di ieri, non sembra esser diventato rivoluzionario ma di volersi mettere in moto per andare da qualche altra parte che non quella in cui ristagnava. Si tratta, come spesso accade nelle transizioni, più di un no a questo che un sì a quello, un distacco. Ma tali tipi di distacco dalle condizioni di status quo, una volta iniziati diventano irreversibili. Non si tratta cioè di una “fluttuazione”, ma del gradino di una scala che ancora nessuno sa dove porti anche perché è natura di questi processi costruirsi mentre avvengono.

 

Le forze status quo, alla Camera, ottengono un 37%, davvero una contrazione netta e non recuperabile. Una intera classe dirigente la cui composizione va ampliata alla società civile del ceto dirigente, è stata invitata a farsi da parte definitivamente. Del resto, poiché non erano precedentemente mancati segnali inequivocabili ed è questo chiaro trend a far capire che non si tratta di una fluttuazione ma di una corposa tendenza, l’invito è diventato numericamente quadrato proprio per la mancanza di un “ravvedimento” che la classe dirigente ha dato dimostrazione di non voler o saper praticare.

 

Le transizioni, anche quando sono rapide, sono molto più lente di quanto si desidererebbe. In quel 50% di voti tra M5S e Lega, c’è tutto ed il suo contrario e nel tempo, la sua odierna compattezza dichiarativa è destinata a frazionarsi in diverse opzioni, toni, gradazioni, ma è indubbio che questi due cartelli hanno svolto tutto sommato bene il ruolo di veicoli per la messa in moto della transizione.

 

Noi tutti siamo parte di questo processo, noi siamo il processo. Dovremmo tutti, vincitori e vinti, prendere atto che ci troviamo in una nuova situazione in cui il distacco si è prodotto ormai in maniera irreversibile ed una nuova Italia è tutta da costruire. Adesso che ci siamo detti l’un l’altro che non vogliamo più stare dove stavamo, c’è da chiarirci meglio dove vogliamo andare. Ora, viene il tempo dei progetti, il momento più delicato perché se non ci saranno progetti seri, responsabili eppur coraggiosi, potremmo finire nel disordine che accompagna ogni transizione, quel disordine che alla fine invoca l’ordine purchessia poiché la società nasce proprio per intermediare al caos ed alla complessità naturale e non sopporta a lungo lo stato di disordine.

 

Già sappiamo che alcuni punteranno a questo esito, l’après moi le déluge che oppone la vendetta all’onta del rifiuto, il nazionicidio a cui si dedicano -in genere- i rifiutati. La classe dirigente è pur sempre un rappresentante di vari poteri, averla così sonoramente bocciata e non avere pronte della alternative, potrebbe portare i poteri all’ostruzionismo ultimo.

 

Dovremmo tutti sentirci convocati al tavolo del “che fare?”, capendo che il che fare è relativo a cose concrete cioè idee con la realtà dentro. Coloro che hanno inventato partiti a sei mesi dalle elezioni sono proprio coloro di cui non abbiamo più bisogno, come non abbiamo più bisogno di coloro che si sono dedicati al disprezzo dell'altro e che ora possono contare quanto popolo c'è dietro a quell'altro e dietro a se stessi, abbiamo ora urgente bisogno di un ritorno alla politica quotidiana da parte di tutti o del maggior numero o di chi ha idee e voglia di dargli corpo. Dobbiamo dare risposte a quel punto interrogativo, la polis ci ha convocati.

 

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