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15 aprile 2018

 

Il destino dell’Italia è già segnato?

di Michele Cenci

 

L’Italia non ci sarà, non c’è, perché è un Paese totalmente ignaro di se stesso. Con queste dure parole Indro Montanelli commentava il futuro dell’Italia in una lunga intervista concessa ad Alain Elkann nell’ormai lontano 2001. Ne è passata di acqua sotto i ponti, eppure queste parole hanno un senso di già vissuto e allo stesso tempo di estremamente attuale. Sembrano descrivere alla perfezione la realtà dell’Italia di ieri e di oggi. La crisi economica iniziata tra il 2007 e il 2008 sembra ormai alle spalle in quasi tutta Europa, ma in Italia no, in Italia appare ancora drammaticamente presente, quasi cronicizzata. Agli occhi dei più potrebbe sembrare una casualità, un fatto che si protrarrà ancora per poco tempo. Per quale strano motivo infatti quando tutta l’Europa ricomincia a crescere, il nostro Paese dovrebbe rimanere ancora fermo? Se analizziamo la realtà in modo più approfondito ci rendiamo invece conto che non è una casualità, ma al contrario può essere spiegato attraverso una lettura più accurata della storia italiana. Per fare ciò dobbiamo tuttavia spingerci un po’ più lontano rispetto agli ultimi anni e finanche agli ultimi decenni. Le ragioni del perdurare della crisi hanno radici molto più lontane e si possono rinvenire addirittura nell’Italia preunitaria. Può sembrare uno scherzo, una presa in giro. Come è possibile che una crisi iniziata dieci anni fa, in un sistema economico totalmente differente, possa avere una radice nel XIX secolo?

 

Ovviamente per radici non si intendono le motivazioni particolari che hanno permesso a questa crisi di perdurare, bensì alcune caratteristiche di lungo periodo che contraddistinguono l’Italia e gli italiani. Fin dalle origini dello Stato unitario infatti, erano già presenti alcuni sintomi che hanno poi finito per perdurare quasi immutati sino ai nostri giorni. Uno dei più importanti è senza dubbio il profondo spirito localista e familista degli italiani. Tale spirito deriva da ragioni storiche, giacché i popoli italiani sono stati per tredici secoli divisi in differenti entità statuali che hanno contribuito a rendere molto complicata una “nazionalizzazione” delle masse a partire dal 1861, come rilevato tra l’altro dallo stesso Cavour. Altra caratteristica peculiare è quella legata alla Chiesa cattolica che ha all’interno del suolo italiano il suo potere politico, rappresentato dalla Santa Sede. Il forte richiamo che i valori cattolici hanno da sempre rappresentato per il popolo italiano ha fatto si che la politica della Santa Sede in chiave avversa all’unità nazionale dell’Italia abbia per lungo tempo fatto presa sulle masse.

 

Questi elementi non sono tra loro indipendenti e servono a spiegare gran parte dei problemi cronici e dei ritardi che affliggono il nostro Paese. Il senso di spiccato individualismo, il familismo sfrenato che va a braccetto con il clientelismo, il campanilismo e un certa esterofilia spesso anacronistica sono caratteri antichi e allo stesso moderni che incidono profondamente anche sulle condizioni economiche del Paese. Se infatti gran parte del resto d’Europa è riuscito faticosamente ad uscire dal guado della Crisi, grazie a riforme che sono andate quasi tutte nella direzione di un maggior snellimento della burocrazia e nell’abbassamento della tassazione sulle imprese, fattori determinanti per attrarre gli investimenti in un mondo globalizzato, l’Italia sembra essere andata nella direzione opposta, arroccata nei suoi antichi privilegi. A ciò va aggiunta la presenza di un sistema politico-istituzionale fondato sul parlamentarismo puro che impedisce di avere una produzione legislativa e un governo stabili, elementi necessari per poter prendere decisioni in tempi ragionevoli in una epoca caratterizzata dalla estrema rapidità di esecuzione in tutti i suoi campi.

 

Per queste ragioni, unite ad altre che si rifanno direttamente o indirettamente ad esse, l’Italia molto probabilmente non ce la farà. Molti economisti, come ad esempio Fabio D’Orlando, hanno da tempo ravvisato questo destino, che è già scritto, qualunque sia la compagine governativa che riuscirà ad ottenere l’incarico di governo. Ciò ovviamente non significa che l’Italia seguirà il destino della Grecia; è molto più probabile che continui in questo suo stato di stasi e di stagnazione ormai secolare (basti ricordare che siamo in recessione dal 1994) fino ad un suo definitivo ridimensionamento e declino. La crescita stimata intorno all’1,5 per cento nel 2018 è solo un riflesso della crescita generale dell’Europa (per fare due esempi: la Spagna crescerà il prossimo anno del 3,3 per cento, la Grecia addirittura del 3,5, per non parlare dei Paesi dell’Europa centro-orientale) e non un segnale di uscita definitiva dalla Crisi. Certo, il destino dell’Italia non deve preoccuparci eccessivamente: nessuna entità politica nella storia è durata all’infinito in uno stato di potenza e opulenza. Prima o poi il declino è inevitabile, la storia fa il suo corso e la distribuzione del potere si modifica continuamente e inesorabilmente. Tuttavia fa specie che non vi sia nessun segnale che vada anche nella direzione di operare un colpo di coda per reagire a tale declino.

In ogni manuale di storia delle relazioni internazionali si fa riferimento alla Crisi di Suez del 1956 come estremo e inutile tentativo da parte di Francia e Gran Bretagna di sovvertire la sentenza della storia che stava relegando i due Paesi ad un ruolo sempre più marginale nella politica mondiale. La storia è tuttavia una sorta di sentenza di cassazione, e non si può tornare indietro se essa decide altrimenti. Ad ogni modo questi due Paesi, avvezzi al ruolo di grande potenza, cedettero il loro scettro con reticenza ed ancora oggi possiamo notare in alcuni caratteri della loro politica estera un richiamo a tale antico rango.

 

Veicoli distrutti nei combattimenti durante la crisi di Suez

 

L’Italia invece sembra accettare il mesto destino che la storia le ha riservato senza fiatare, come se si fosse già arresa di fronte alle sfide del XXI secolo. Il senso di rassegnazione che si respira nel popolo italiano e nelle sue istituzioni stride enormemente con i ricordi del boom economico degli anni ’50 e ’60 che portò il Bel Paese a raggiungere e superare negli indicatori economici Paesi storicamente più avanzati, come la Gran Bretagna. Qualcosa è ancora possibile, ma ormai il tempo stringe e le altre nazioni non sembrano propense a accettare che la reticenza e la passività italiana possano rallentarle nelle loro decisioni politiche. È assai probabile, in definitiva, che le elezioni appena concluse siano una delle ultime occasioni per un cambio di marcia netto nella direzione di una riscossa nazionale dello Stato italiano.

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