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28 Maggio 2018

 

Di Maio e Salvini hanno già vinto e chi li voleva fermare ha sbagliato tutto

di Francesco Cancellato

 

Il veto su Paolo Savona squarcia il velo d’ipocrisia sulle condizioni dell'Italia e porta dritti alla battaglia finale tra europeisti e sovranisti. Una partita a cui Lega e Cinque Stelle arrivano nelle migliori condizioni possibili. Era davvero necessario, che finisse così, caro Presidente?

 

Ieri hanno vinto loro, Di Maio e Salvini. Lo diciamo a malincuore, noi che mai abbiamo avallato la tesi di un Paese a sovranità limitata, di un’Europa fonte di tutti i mali dell’Italia, di una dialettica tra popolo e Palazzo, tra cambiamento e status quo. Hanno vinto loro, perché queste tesi, da oggi, sarà molto difficile negarle. Molto semplicemente, perché Sergio Mattarella, con una scelta e un discorso tanto onesti quanto pericolosi, ha di fatto dato a Lega e Cinque Stelle tutti gli argomenti possibili per giocare la prossima campagna elettorale secondo questo schema.

Sarà molto difficile negare, ad esempio, che il nome di Paolo Savona come ministro dell'economia non abbia ricevuto un veto da soggetti che non dovrebbero intervenire nel gioco democratico di questo Paese, siano essi le cancellerie di Germania e Francia o la Banca Centrale Europea, il nostro primo creditore. Sarà difficile perché è stato lo stesso Mattarella a dirlo, affermando che il ministro dell’economia è «un messaggio immediato per gli operatori economici e finanziari» e che non ha accettato il nome di Savona proprio perché sarebbe stato visto come sostenitore di linee che avrebbero potuto «provocare la fuoriuscita dell'italia dall’euro». Tradotto dalla lingua del Quirinale: se avessi avallato la scelta di Paolo Savona, domani sarebbe iniziata una tempesta perfetta sui titoli di Stato italiani.

Vero? Falso? Non lo sapremo mai. Ma, ancora, da domani sarà difficile, se non impossibile, negare che l’italia sia un Paese a sovranità limitata. Spiacenti, anime belle: siamo l’unico Paese d’Europa, l’unico insieme alla Grecia, che non può permettersi di scegliersi in santa pace i suoi ministri. E il motivo è piuttosto semplice: se hai un debito pubblico di 2.300 miliardi, pari al 131% del prodotto interno lordo, e se le agenzie di rating hanno valutato i tuoi titoli di Stato BBB, a due soli gradini dalla nomea di “junk bond”, titoli spazzatura, che vorrebbe dire fine degli acquisti da parte della banca centrale europea, il tuo creditore, chi ti presta i soldi per sopravvivere, ha voce in capitolo sulle tue scelte. Tanto quanto il popolo, forse più del popolo.

E allora è vero pure questo: che il prossimo voto sarà una sfida al calor bianco tra chi vuole riaffermare qui e ora la piena sovranità dell’Italia, anche a costo di saltare per aria, e chi ritiene che questa sovranità la si riconquisti giorno dopo giorno, attraverso la progressiva riduzione della dipendenza dai soldi altrui, anche a costo di sacrifici e scelte dolorose. Tra chi ritiene che l’Euro sia parte del problema, giogo che ci condiziona a essere come gli altri vorrebbero che fossimo, o soluzione, in quanto veicolo di un processo di normalizzazione delle nostre anomalie. Tra chi vuole che l’Italia sia parte degli Stati Uniti d’Europa, prima o poi, e chi ritiene che l’Italia debba essere l’Italia, e basta. Un frame politico che combacia alla perfezione con la narrazione di Matteo Salvini e della Lega, il vero vincitore di questa serata, ben più di Di Maio, tanto da far venire il dubbio che in qualche modo questa crisi sia stata pilotata ad arte per arrivare allo showdown di queste ore.

Se queste sono le premesse, dicevamo, la sfida che attende il fronte che si erge a difesa del Quirinale e dell’Europa è più che improba. Perché il bivio a cui ci troviamo oggi è esattamente quello cui Lega e Cinque Stelle volevano arrivare. Perché i difensori della volontà del popolo, della sovranità piena e illimitata, della democrazia che prevale sulle relazioni internazionali, sempre e comunque sono loro, laddove gli altri si ergono a difesa di un palazzo, il Quirinale, di una moneta, l’Euro, di un’istituzione, l’Unione Europea. Perché sono riusciti ad arrivare allo scontro finale contro avversari, il Pd e Forza Italia, più che in crisi nera, dilaniati di lotte interne e in crisi verticale di consenso.

E allora, forse, quello di Mattarella, seppur ineccepibile nei contenuti e nella forma, è stato un enorme azzardo, che rischiamo di pagare a caro prezzo, molto più della nomina di Paolo Savona. L’avesse avallata, oggi ci troveremmo con un ministro dell’economia scomodo, sotto i riflettori, ma sotto la tutela di un programma che di uscita dall’Euro non parlava, di un presidente del consiglio incaricato che aveva fatto professione di fede europeista e, pur con tutte le ambiguità e gli omissis, pure di un messaggio di Savona stesso, arrivato a poche ore dall’Apocalisse, che a quello stesso programma e a quella stessa professione di fede faceva riferimento, per disinnescare le perplessità sulla sua figura. E con un governo, finalmente, dopo quasi novanta giorni, nel pieno esercizio delle sue funzioni, compresa quella di disinnescare l’aumento dell’Iva e di contribuire al futuro dell’Unione, a partire dal prossimo Consiglio Europeo.

Ci ritroviamo, invece, con un governo che aveva i numeri respinto sull’uscio, con un nuovo presidente incaricato, Carlo Cottarelli, cui con ogni probabilità, verrà negata la fiducia dal Parlamento, con la messa in stato d’accusa del presidente della repubblica per alto tradimento, richiesta che avrebbe i numeri per essere approvata dal Parlamento, e che solo Matteo Salvini, uno che fino a qualche mese fa indicava Ciampi e Napolitano come traditori della patria, avrebbe il potere di disinnescare e con una campagna elettorale durissima che è già iniziata e che minaccia di alzare il livello dello scontro sociale a livelli da 1948, se non peggio. Tutto, per Paolo Savona, che per assurdo tra qualche mese potrebbe addirittura essere indicato come presidente del consiglio da Lega e Cinque Stelle, dovessero stravincere come ha preconizzato Massimo D’Alema in fuori onda di qualche giorno fa. Fare peggio, francamente, era davvero difficile.

 

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