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14 Mag 2018

 

Iran - nucleare, Trump, scelta pericolosa senza calcolo razionale

di Francesco Bascone

Ambasciatore d’Italia

 

Non è certo la prima volta che Donald Trump opera una scelta unilaterale, pericolosa per la sicurezza internazionale e irrispettosa verso i principali alleati e le Nazioni Unite; e non sarà l’ultima. Ma la decisione di ritirarsi dall’accordo con l’Iran non rientra nella politica del sacro egoismo, dell'”America first!”. In questo caso a prevalere non è l’interesse nazionale, che al contrario detterebbe il consolidamento dei passi fatti verso la non-proliferazione, il rafforzamento dei moderati al potere a Teheran, la distensione nello scacchiere mediorientale, e quindi coinciderebbe con l’interesse generale. Semplicemente, non c’è un calcolo razionale.

Il filo conduttore della demolizione e della credibilità
Ma anche una scelta irrazionale va in qualche modo spiegata. E la spiegazione su cui tutti gli osservatori concordano è che demolire tutto quanto costruito dall’odiato predecessore Barack Obama costituisce il filo conduttore della politica ondivaga dell’attuale presidente. Può apparire banale ridurre tutto ad una puerile impuntatura contro Obama, la quale può scatenarsi  anche in politica estera ora che gli “adults in the room” (tranne il generale Mattis, segretario alla Difesa) sono stati fatti fuori.

Diciamo allora che, avendo impostato la campagna elettorale sulla denigrazione di quanto fatto da Obama, e avendo quindi dichiarato che l’accordo Jcpoa era il peggior trattato mai concluso, Trump era impaziente di affondarlo per dimostrare la propria credibilità. E’ questa, infatti, la principale ossessione che guida le sue azioni.

Le riserve, fin dall’inizio dei repubblicani
Così formulata, è ancora una spiegazione parziale: non si deve dimenticare che nel 2015, quando fu concluso l’accordo, tutto il Partito repubblicano era fieramente contrario, e anche non pochi parlamentari democratici. Infatti, non solo era impensabile raggiungere il requisito costituzionale dell’approvazione (advice and consent) del Senato per la ratifica con la maggioranza qualificata dei due terzi, ma una analoga maggioranza era pronta a votare contro. Perciò Obama aveva dovuto ricorrere al sotterfugio oggi molto usato, ma discutibile nel caso di accordi di grande importanza politica, dell’”executive agreement” (non a caso non si chiama” trattato”, bensì “plan of action”).

Ai Repubblicani rimaneva un’arma: una risoluzione contraria, purché avesse raccolto 60 voti su 100. Votando compatti, e con l’apporto di alcuni democratici, arrivarono a sfiorare quella soglia, ma senza oltrepassarla. Obama, mediante una serie di incontri e telefonate con singoli senatori del suo partito era riuscito, per un pelo, a sventare quella mossa.

L’azione efficace delle lobbies saudita e israeliana
Se dunque la contrarietà all’accordo non è solo una fissazione del presidente ma è condivisa da oltre metà dell’opinione pubblica e dall’establishment repubblicano (anche se alcuni, come il citato Mattis, visti i puntuali adempimenti iraniani, si sono ricreduti), vorrà dire che esistono anche ragioni obbiettive che a noi europei sfuggono? No, la spiegazione è un’altra, ma è politically correct sottacerla: l’efficace azione persuasiva di due delle tre più potenti lobbies di Washington (la terza, si sa, è la National Rifle Association, Nra): quella saudita e quella pro-israeliana.

La prima, forte di illimitate disponibilità finanziarie, beneficia ora anche della buona intesa instauratasi fra il principe ereditario MbS e il ‘primo genero’ Jared Kushner. La seconda, da sempre più influente, ha ora l’uomo di punta nel miliardario Sheldon Adelson, il re di Las Vegas, strenuo paladino di Benjamin Netanyahu e fautore dell’uso della minaccia nucleare contro Teheran: già primo contributore della campagna elettorale di Trump, è un suo autorevole suggeritore soprattutto per le questioni mediorientali, sia direttamente che tramite il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton. E’ stato lui a patrocinare lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, promettendo di sostenerne tutte le spese.

Israele e l’ombrello strategico americano
Se a ispirare la battaglia contro l’accordo era ed è il governo israeliano, che ha i piedi per terra e dispone di tutte le informazioni necessarie su ciò che avviene in Iran,  se ne potrebbe dedurre che il Jcpoa, pur esente dai presunti svantaggi per gli Usa, comporta reali pericoli per la sicurezza di Israele. E’ quello che afferma Netanyahu, anche mediante conferenze stampa piene di falsità, ma lo contraddicono molti esperti israeliani, compresi ex-dirigenti  dei servizi segreti e delle forze armate.

Qual è allora la logica che spinge Gerusalemme a battersi per smantellare un accordo che soddisfa una esigenza fondamentale per la sicurezza di Israele, in quanto assicura almeno per 10-15 anni il mantenimento del suo monopolio nucleare, necessario a bilanciare la sua inferiorità demografica e la mancanza di profondità strategica?

La logica sta in un’altra esigenza, ancora più inderogabile: che l’America continui a garantire il suo ombrello, strategico (deterrente, fornitura delle armi più avanzate), politico (Consiglio di Sicurezza) e finanziario, astenendosi da qualsiasi pressione  e anche da critiche (per l’espansione degli insediamenti,  le rappresaglie sanguinose a Gaza o in Libano, i bombardamenti su obiettivi siriani o iraniani).

A questo fine è importante che l’Iran appaia come una minaccia mortale alla sopravvivenza di Israele. Anche a prezzo di rendere reale questa minaccia, fomentando il rafforzamento della già potente fazione radicale a Teheran (un caso di self-fulfilling prophecy). Verso la fine della presidenza Obama si era infatti temuto a Gerusalemme che l’America  considerasse  cessata l’emergenza in Medio Oriente e desse esecuzione all’annunciato “pivot to Asia”, cioè un ribaltamento delle priorità.

Indubbiamente ha un peso anche la connessa preoccupazione che l’Iran, liberato dalle sanzioni, si rafforzi militarmente ed abbia più risorse da spendere per armare Hezbollah. Ma è poco plausibile che un Iran azzoppato dalle sanzioni si trovi nell’impossibilità di rifornire la milizia sciita libanese e di mantenere i pasdaran in territorio siriano, o che Netanyahu lo creda. Preminenti rimangono le considerazioni politico-strategiche di cui sopra.

Un’umiliazione per l’Europa
La vicenda è oltretutto umiliante per l’Europa. Le raccomandazioni dei co-firmatari dell’accordo hanno lasciato indifferente Trump. Un tempo Henry Kissinger lamentava che non esistesse un numero telefonico da chiamare oltreatlantico, un “Mr. Europe”. Adesso abbiamo un presidente dell’Unione e un ministro degli Esteri sotto altro nome (Federica Mogherini), ma Washington li snobba. Lo stesso presidente francese Emmanuel Macron ha speso invano tutto il suo capitale politico, rassegnandosi persino a farsi fotografare  la mano nella mano con the Donald. Nè la France en marche, nè l’Unione europea intera hanno a Washington un peso anche lontanamento paragonabile a quello del premier israeliano e dei suoi sostenitori americani.  Basti ricordare l’efficacia della azione di disinformazione condotta dai servizi israeliani  e dalla lobby a Washington e a Londra nel 2002 per scatenare l’aggressione all’Iraq, non scalfita dal dissenso tedesco e francese.

Le diplomazie europee si sforzeranno di certo di convincere  il governo iraniano che l’accordo multilaterale può e deve sopravvivere alla defezione di un solo co-firmatario. Ma il problema  non è quello di convincere il presidente Rohani; il problema è che lo schiaffo ricevuto da Trump lo indebolisce rispetto ai suoi rivali radicali. Se, Allah non voglia, la Guida Suprema dovesse dare ragione a loro e dichiarare decaduto l’accordo a causa del ritiro americano, Trump otterrebbe una certificazione dell’irrilevanza dell’Europa. Con piena soddisfazione non solo di Netanyahu, ma anche di Putin.

 

 

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