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23 Maggio 2018

 

Trump, Kim e le ombre cinesi

di Michele Paris

 

A meno di tre settimane dalla data teoricamente fissata per lo storico incontro tra il presidente americano Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un, molti degli aspetti centrali che dovrebbero caratterizzare l’evento restano tuttora irrisolti. Il faccia a faccia di questa settimana alla Casa Bianca tra lo stesso Trump e il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha fatto intravedere tutte le difficoltà del processo diplomatico in atto, assieme all’interesse di Washington e Seoul per un esito positivo della vicenda e, sia pure in maniera meno evidente, alle questioni di natura strategica che a esso si sovrappongono.

 

A tenere banco sui principali media internazionali è stata l’ipotesi, avanzata da Trump, di un possibile rinvio del vertice con Kim, se non addirittura la cancellazione, nel caso Pyongyang non dovesse accettare le condizioni imposte dagli Stati Uniti. Ancora più significativa è stata poi la presa di posizione del presidente americano sui tempi della “denuclearizzazione” della Corea del Nord.

 

Per la prima volta, cioè, l’amministrazione Trump è apparsa disposta ad accettare un graduale smantellamento dell’arsenale atomico nordcoreano in parallelo al procedere dei negoziati. Fino ad ora, al contrario, Washington aveva chiesto il disarmo preventivo della Corea del Nord come condizione per il semplice avvio dei colloqui bilaterali.

 

A prima vista, l’ammorbidimento della linea americana sembra essere la diretta conseguenza del recente irrigidimento del regime nordcoreano, il quale aveva bruscamente cancellato un vertice con rappresentanti di Seoul il 16 maggio scorso a causa sia delle esercitazioni militari in corso tra USA e Sudcorea sia del persistere dei toni minacciosi da parte statunitense.

 

Ciò può essere in parte vero, ma le dinamiche degli ultimi giorni rispondono a un disegno più ampio che la Casa Bianca sta cercando di attuare. Un piano che ha a che fare in primo luogo con gli equilibri strategici in Estremo Oriente, con al centro l’approccio al “problema” cinese, e nel quale, a ben vedere, la questione del nucleare nordcoreano non rappresenta la preoccupazione principale.

 

Un’altra uscita di Trump nel corso dell’incontro con Moon nella giornata di martedì aiuta a comprendere le priorità americane nel quadro della crisi coreana. Il presidente americano ha fatto notare a un certo punto come l’atteggiamento di Kim sia cambiato, rispetto alle precedenti aperture quasi clamorose, dopo il suo secondo incontro nell’arco di poche settimane con il presidente cinese, Xi Jinping.

 

A questo proposito, Trump ha espresso il suo disappunto, per poi chiedere un parere al sudcoreano Moon, il quale ha prevedibilmente glissato sull’argomento, preferendo ostentare un certo ottimismo riguardo al possibile disgelo tra Washington e Seoul.

 

La relativa apertura di Trump su una possibile graduale “denuclearizzazione” della Corea del Nord e le apprensioni manifestate circa il comportamento di Pechino indicano dunque come in gioco ci sia principalmente la competizione per l’influenza in Asia nord-orientale piuttosto che la presunta minaccia del nucleare di Kim.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 70 Che poi la posizione di Washington non sia univoca resta comunque un fattore da non trascurare nell’ambito dei negoziati, come ha confermato la recente dichiarazione del consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, John Bolton, sulla necessità da parte di Kim di accettare un processo simile a quello già applicato alla Libia di Gheddafi per disfarsi del suo arsenale bellico. Il “super-falco” Bolton era stato ad ogni modo smentito almeno in parte dallo stesso Trump, così che la lettura della crisi coreana in chiave cinese resta probabilmente la più plausibile.

 

Dal già ricordato secondo incontro tra Kim e Xi nel mese di aprile erano emerse le intenzioni della Cina di riaffermare il proprio ruolo di primissimo piano in un qualsiasi processo diplomatico si fosse eventualmente aperto sulla questione nordcoreana. Il doppio vertice tra i due alleati era giunto dopo che Pechino aveva in larga misura assecondato le sanzioni americane dirette contro la Corea del Nord, con la conseguenza di incrinare sensibilmente le relazioni bilaterali.

 

Più precisamente, Xi deve avere chiarito a Kim che la Cina non sarà disposta ad accettare un accordo tra USA e Corea del Nord che metta in discussione l’alleanza tra Pechino e Pyongyang, cioè, in altri termini, che vengano sacrificati gli interessi strategici ed economici cinesi. La Corea del Nord rappresenta fin dal 1953 una sorta di cuscinetto d’importanza fondamentale per la Cina, garantendo l’influenza di questo paese nella penisola di Corea e tenendo a distanza le forze armate americane stanziate a sud del 38esimo parallelo.

 

Sulla prospettiva di un cambio di rotta strategico da parte del regime stalinista di Pyongyang sembrano dunque ruotare le manovre degli Stati Uniti. Per indurre Kim a sganciarsi da Pechino, Trump ha confermato questa settimana come il suo governo sia pronto a garantire la sopravvivenza e la sicurezza del regime, ma anche l’afflusso di capitali nel paese impoverito, approfittando di un bacino di manodopera facilmente sfruttabile e a bassissimo costo.

 

Anche sull’ipotesi riunificazione con Seoul il presidente americano è apparso cauto. Gli USA, in definitiva, non hanno problemi ad accettare il mantenimento in vita di un regime oppressivo, eventualmente anche con un ridotto arsenale nucleare, purché risulti allineato strategicamente agli interessi americani e sudcoreani.

Il dilemma di Kim e della sua cerchia di potere appare così legato alla prospettiva di mantenere il controllo sul paese e di arricchirsi ulteriormente grazie a una possibile futura partnership con i nemici di oggi e all’integrazione nei circuiti del capitalismo internazionale. Prospettiva che comporta d’altro canto l’alienazione della Cina, da cui la Corea del Nord ha di fatto dipeso da decenni, con la quasi certezza di doverne pagare le conseguenze.

 

L’offerta o, meglio, la minaccia di Washington comporta peraltro il rischio di un nuovo aggravamento delle tensioni nell’eventualità di un riscontro inadeguato da parte di Pyongyang. Alla luce anche dell’escalation che aveva segnato tutto il 2017, il naufragio delle trattative riporterebbe rapidamente all’ordine del giorno le provocazioni e le intimidazioni americane, fino al probabile scivolamento verso un conflitto militare.

 

Giusto per ricordare al regime di Kim l’attitudine americana alla vigilia del possibile vertice con Trump, gli USA questa settimana hanno inviato in Asia nord-orientale il cacciatorpediniere “USS Milius”, ufficialmente con il compito di difendere il Giappone da eventuali attacchi missilistici nordcoreani.

 

Questo dispiegamento fa parte di un piano che il Pentagono assicura serve a schierare nell’area un numero di unità navali sufficienti a garantire “sicurezza e stabilità” alle forze americane e agli alleati. In realtà, tutti gli “asset” militari di Washington in questa porzione del continente asiatico potrebbero rientrare in una prossima strategia offensiva se il processo diplomatico dovesse risolversi in un fallimento.

 

La “USS Milius”, intanto, sarà stanziata nella base americana di Yokosuka, in Giappone, soltanto nella quale gli Stati Uniti dispongono ora di ben 13 navi da guerra pronte all’azione.

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