Il Manifesto

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31 mag 2018

 

«Tregua» a Gaza ma le condizioni le pone Netanyahu

di Michele Giorgio

 

La Striscia resta nella morsa dell’assedio. Morto un altro ferito palestinese. Il premier israeliano canta vittoria ed esalta la reazione delle sue forze armate ai lanci di razzi da parte del Jihad che ha sorpreso anche Hamas, ora favorevole a una resistenza popolare

 

Roma, 31 maggio 2018, Nena News –

 

Diversi giornali italiani, commentando il «ritorno della calma» lungo le linee tra Gaza e Israele, ieri sottolineavano che l’hudna (tregua) favorita dalla mediazione egiziana «è desiderata da israeliani e palestinesi». Aggiungevano che il Cairo continua le trattative dietro le quinte per arrivare a un cessate il fuoco di lunga durata volto anche ad alleviare, con aiuti e investimenti, l’emergenza umanitaria di Gaza e garantire a Israele la «tranquillità ai confini meridionali». Per capire come stanno davvero le cose questi giornali dovrebbero piuttosto dare ascolto alle parole di Benyamin Netanyahu. Il premier ieri cantava vittoria. Per il premier le forze armate israeliane hanno inflitto tra martedì e mercoledì «il più duro colpo» alle organizzazioni palestinesi a Gaza, durante l’escalation militare più seria dai tempi dell’offensiva “Margine Protettivo” del 2014. «L’esercito ha risposto con forza al fuoco dalla Striscia di Gaza con attacchi contro decine di obiettivi delle organizzazioni terroristiche», ha proclamato con soddisfazione. Certo il governo israeliano non ha interesse, almeno in questa fase, ad innescare un nuovo conflitto come quello di quattro anni fa. I razzi palestinesi provocano scarsi danni materiali ma costringono migliaia di israeliani residenti nei centri vicini a Gaza a cercare riparo nei rifugi. Allo stesso tempo Israele non ha alcuna intenzione di modificare la sua storica strategia verso i palestinesi e Paesi arabi, il “muro di ferro”- la legge del più forte, la politica del fatto compiuto ad imporre agli avversari – e di andare alla radice della questione. Perciò Gaza è e rimarrà una enorme prigione in cui resteranno sigillati i suoi 2 milioni di abitanti e il movimento islamico Hamas.

La linea del governo Netanyahu nei confronti di Gaza resterà quella che abbiamo visto in queste ultime ore e nelle settimane passate durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Ieri è spirato a Gaza Naji Ghonaim, 23 anni, ferito dalle forze israeliane lungo le linee di demarcazione. Con la sua morte sale a 118 il bilancio dei palestinesi uccisi dal 30 marzo. Se i palestinesi resteranno «tranquilli» e non si opporranno in alcun modo alla loro condizione di prigioneri di fatto, grazie alla «mediazione» egiziana e ai soldi dell’Ue, del ricco Qatar e di altri ancora, allora prenderanno il via progetti mirati ad alleviare la mancanza di elettricità, la scarsità di acqua potabile, il collasso del sistema sanitario e gli altri mille problemi che vivono a Gaza. La libertà la gente di Gaza dovrà dimenticarla, come prova la spedizione pacifica dei 17 palestinesi che martedì sono saliti a bordo di un’imbarcazione con l’intento di raggiungere Cipro e che sono stati fermati e arrestati, non in acque israeliane, dalla Marina dello Stato ebraico che attua un rigido blocco navale davanti alla Striscia. Uso della forza ma anche colonizzazione incessante. Una commissione del ministero della difesa israeliano ha dato il via libera alla costruzione in Cisgiordania di ‎‎2037 case per i coloni annunciate la settimana scorsa dal ministro Avigdor Lieberman. Di queste, 775 hanno avuto l’approvazione finale, mentre altre 1.262 devono completare l’iter previsto dalla legge israeliana. Legge che si scontra con il diritto internazionale che vieta la costruzione di insediamenti coloniali in territori occupati militarmente.

L’ultima fiammata di guerra, che si è spenta alle 4 di ieri, pone interrogativi non secondari anche in casa palestinese dove la strategia attuata da Hamas negli ultimi due mesi – privilegiare la mobilitazione popolare e, congelare, almeno per ora, la lotta armata – è stata messa in discussione dalla decisione del Jihad islami di vendicare, con il lancio di colpi di mortaio e poi anche di razzi, i suoi tre uomini uccisi domenica da una cannonata israeliana sapendo che avrebbe innescato la reazione israeliana (dozzine di bombardamenti aerei). Una scelta, spiegano a Gaza, non condivisa da Hamas ma che la leadership del movimento islamico non ha potuto impedire – per ragioni di consenso interno – pur sapendo che avrebbe minato l’immagine positiva della protesta popolare in corso nelle ultime settimane lungo le linee con Israele. Nena News

 

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