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GAZA

di Francesca Borri

18 aprile 2018

 

Sono oltre dieci anni che Gaza è sotto assedio. I palestinesi ormai non hanno più neppure l'acqua. Solo acqua salata. Acqua di mare. Resti appiccicaticcio tutto il giorno, a Gaza. Tutti i giorni, per anni. E ogni tanto, un F-16 arriva e bombarda.


Se a Gaza l'80 percento della popolazione dipende dagli aiuti umanitari, è anche perché Fatah, per punire Hamas, non paga più lo stipendio ai funzionari dell'Autorità Palestinese. Da un anno, non paga più neppure l'elettricità. A Gaza manca il 45 percento dei farmaci essenziali: non sono bloccati in Israele, sono bloccati nei magazzini della West Bank.
Secondo l'ONU, Gaza tra 10 anni non sarà più adatta alla vita umana.


Vivere a Gaza significa vivere in trappola. Letteralmente. In media, attraversano la frontiera solo 240 palestinesi al giorno. Nel 2000, prima della seconda Intifada, erano 26mila. E qualsiasi cosa accade, accade nell'indifferenza del mondo, e nella più totale impunità. Durante l'ultimo attacco, nel 2014, Israele ha rovesciato su Gaza una quantità di esplosivo pari all'atomica di Hiroshima: i morti sono stati 2,168, e per il 77 percento civili, per il 30 percento bambini, ma alla fine, sono stati condannati per crimini di guerra solo 5 soldati. La pena più dura è stata 7 mesi di reclusione. Per il furto di una carta di credito.
Incontri questi ragazzini che ti dicono: Ho 12 anni e 3 guerre.

 

23 giugno 2018

 

Razan al-Najjar, volontaria del Medical Relief, aveva 21 anni, un camice bianco e le mani alzate quando a ridosso del confine, mentre cercava di raggiungere un ferito, è stata centrata da un proiettile, e uccisa. Era il 1 giugno. E in tutto il mondo, la sua foto è diventata un simbolo di Gaza. Ma a Gaza, a diventare un simbolo è stata piuttosto la distruzione di quella foto: durante la veglia funebre, a casa sua. In un raid di Hamas. Perché era di Fatah. E doveva restare una tra tante.

La manifestazione in programma il giorno dopo era attesa come la più partecipata dall'inizio delle proteste. I palestinesi l'hanno disertata.


Per Gaza, la Marcia del Ritorno è la prima iniziativa popolare dai tempi della prima Intifada. Dal 30 marzo, ogni venerdì, a migliaia si ritrovano lungo quello che qui nessuno chiama confine, ma barriera, perché da entrambi i lati del filo spinato, ti dicono, c'è in realtà lo stesso paese: e tentano di attraversarlo. In Israele, per molti non è che una manovra di Hamas per sviare l'attenzione dai suoi problemi interni. Dal suo eterno duello con Fatah. Ma i preparativi sono durati mesi, e hanno coinvolto l'intera Gaza. Perché è la vita, qui, a dirti di protestare. Il difficile, piuttosto, è fermarti: i feriti, incerottati, tornano subito al confine. "Ma è andata come va sempre, ormai. Quando un'idea funziona, e il mondo ricomincia a parlare di Palestina, i partiti provano ad appropriarsene: e sprecano tutto. Incapaci di tradurre quella visibilità, quella forza, in effetti politici", dice Atef Abu Saif, il più noto scrittore di Gaza. "Ed è come quando un razzo colpisce Tel Aviv. Per un momento, è l'entusiasmo generale. Ma poi? Cosa è cambiato?", dice. "Niente".
Sono oltre dieci anni che Gaza è isolata. I palestinesi ormai non hanno più neppure l'acqua. Solo acqua salata. Acqua di mare. Resti appiccicaticcio tutto il giorno, a Gaza. Tutti i giorni, per anni. E ogni tanto, un F-16 arriva e bombarda.


Ogni tanto, all'improvviso, muori.
Conosciamo i numeri brutali di Gaza. Quasi 2 milioni di palestinesi vivono qui, e "qui" nel senso letterale del termine: nel 2017, le autorizzazioni a uscire sono state solo 9600. A testa, significa uscire una volta ogni 201 anni. L'80 percento della popolazione dipende dagli aiuti umanitari. Il 50 percento, è food insecure, nel gergo dell'ONU. Il 50 percento ha fame. E il 45 percento è sotto i 15 anni. Ma più che nei numeri, Gaza è in una parola: Tramadol. Che è un antidolorifico. Ed è la droga più diffusa. Tanti, a vent'anni, usano ecstasy, coca, anfetamine, per tirare l'alba e vivere a mille. Ma a Gaza, se hai vent'anni, vuoi solo dormire e dimenticare.


Ogni tre, quattro giorni si ha un tentato suicidio. 
Nessuno parla più di politica. La priorità, qui, è trovare di che cenare. Quei pochi che ancora hanno uno stipendio, con quel solo stipendio mantengono fratelli, padri, cugini. Perché non esiste più nulla. Il governo è collassato. Ai margini di uno slargo d'erba, tanti sono accampati in rifugi di fortuna, vecchie coperte rancide tenute insieme con lo spago. Non hanno un biscotto, un pezzo di pane. Niente. Come la famiglia di Hamam Maat, 32 anni e 5 figli, l'ultimo in culla, la pelle rossa di punture di insetti. Ricevevano 750 shekel ogni tre mesi, ma al ministero del Welfare non hanno più uno spicciolo. Ed è inutile tentare di strappare un sorriso ai bambini: ti fissano stretti l'uno all'altro, in un angolo. Attoniti. "Gli israeliani temono che con il confine aperto, andremmo lì ad aggredirli. Ma io non ho neppure uno shekel. In Israele non potrei manco arrivarci", dice. In 32 anni, non ha mai avuto un lavoro.


Molti dei 13mila feriti di queste settimane hanno subìto amputazioni. Spesso, non sarebbe stato necessario. Ma sarebbero morti di infezioni: non c'erano abbastanza antibiotici.
I palestinesi sono convinti che sia il momento di negoziare. Non solo perché sono allo stremo, ma perché Israele, dicono, è concentrato sull'Iran, sul fronte siriano: non può permettersi un secondo fronte a Gaza. E in fondo, neppure Hamas può permettersi una nuova guerra: è completamente sola. E soprattutto, in bancarotta. I tunnel da cui dipendeva sono stati allagati dall'Egitto di al-Sisi, ferreo nemico degli islamisti. Mentre i paesi del Golfo temono dei suoi legami con l'Iran: e hanno ridotto le donazioni. Anche se quando domandi ai palestinesi quale sia, a questo punto, la loro strategia, la prima reazione è sempre la stessa: uno scatto di sdegno. Perché non vai a chiederlo a Israele?, ti dicono. Di chi è la colpa? Del prigioniero, o del carceriere?


Isam Hammad è uno dei promotori della Marcia del Ritorno. Il cui obiettivo, appunto, è il ritorno, dice. Il ritorno e basta. Perché se anche il confine venisse riaperto, dice, ormai è tardi. Gaza è troppo piccola. Troppo sovraffollata. Non c'è spazio per l'agricoltura, dice, per l'industria. Non c'è spazio per un'economia vera. L'unica è tornare: tornare in quello che ora è Israele - su 1,9 milioni di palestinesi, 1,5 milioni, qui, sono rifugiati. O spesso, però, più esattamente: sono discendenti di rifugiati. E quindi se nessuno, ma proprio nessuno, transige sul diritto al ritorno, poi, in concreto, in realtà, non tutti andrebbero via. Anzi. Molti, moltissimi vorrebbero semplicemente lavorare in Israele. Come prima degli accordi di Oslo: quando non esistevano muri, checkpoint, frontiere, ti dicono, e gli israeliani venivano qui a comprare il pesce. E' forse l'unico punto su cui i palestinesi concordano tutti, e non solo a Gaza: c'era più pace prima della pace.


Shams al-Assil ha 19 anni e abita ad al-Shati, una delle zone più povere, sono in 11 in una stanza dai muri marci. Ma per me la cosa più dura, dice, non è il frigo che non è che è vuoto, neppure c'è, perché tanto non c'è l'elettricità: la cosa più dura, dice, è guardare le mie amiche, la mattina, dirette in università. Perché non può permettersela. Se domani Eretz aprisse, dice sua madre, se domani Gaza fosse normale, per prima cosa andrei a Gerusalemme. Ma poi, dice, tornerei qui. Perché è originaria di Be'er Sheva. "E Be'er Sheva è uguale a Gaza. Sono solo 40 chilometri. Se dobbiamo continuare per altri settant'anni così, solo perché io torni a Be'er Sheva, preferisco stare qui", dice. "E poi, Gaza ha anche il mare".


I palestinesi insistono, insistono per negoziare. Adesso o mai più, ti dicono. Non perché abbiano fiducia in Israele. Al contrario. Proprio perché non hanno la minima fiducia. E quindi, è inutile aspettare il cambiamento, ti dicono: bisogna crearlo.


Ma la leadership sembra incagliata. Oggi ho incontrato Basem Naim, dico la sera a degli amici in un caffè. Basem Naim è il portavoce di Hamas per gli affari internazionali. E a Gaza, e non solo, è molto stimato. "Davvero? E che ti ha detto?", mi chiedono in coro. Mi ha detto che vogliono la fine dell'assedio, dico. La fine immediata e incondizionata dell'assedio. "E poi?", chiedono. E poi mi ha detto che l'assedio è immorale, dico. Non solo illegale. "E non ti ha detto nient'altro?", dicono. Mi guardano delusi. "Ma è ovvio. Certo che vogliamo la fine dell'assedio. Non erano necessari tutti questi morti per dire una cosa che abbiamo già detto mille volte". 


Perché quello che più ferisce i palestinesi, qui, è che se dopo tutti questi anni sono sul punto di spezzarsi, è a causa dell'Autorità Palestinese, in realtà: che mesi fa ha sospeso il pagamento degli stipendi. E poi ha sospeso il pagamento dell'elettricità, che è fornita da Israele. E che ora c'è solo per 4 ore al giorno. Anche gli antibiotici che avrebbero evitato le amputazioni: sono fermi nei magazzini della West Bank. Quello del presidente Mahmoud Abbas è il tentativo estremo, o come dicono qui, estremista, di costringere Hamas a cedere il potere. Anche se capire chi, tra Hamas e Fatah, ha più consenso, qui, non è facile. Perché sono stati tutti regolarmente eletti, come non mancano mai di ricordarti: ma nel 2006.
E anche Mahmoud Abbas: il suo mandato è scaduto nel 2010. 


Non che per Ahmed al-Asi cambi molto, onestamente. Ha 29 anni, ed è uno dei tanti pescatori che ormai pesca solo per sé: perché nessuno, qui, può permettersi più il pesce. "Abbiamo Hamas, che non parla a Israele", dice. "E Fatah. Che invece aspetta che ci parli la comunità internazionale. Ma Gaza ha due confini, non uno. L'Egitto potrebbe riaprire Rafah, e risolvere tutto. Non ci aiutano gli arabi, e dovrebbero aiutarci gli americani?", dice.
Dell'Autorità Palestinese tace. "Sono diventati tutti uno più ricco dell'altro".


E quindi, in quello che è stato annunciato come il venerdì dei venerdì, l'8 giugno, ultimo venerdì di Ramadan, al confine in realtà si presentano in pochi. Quasi tutti fratelli, padri, cugini, amici dei 123 morti finora. Si dirigono decisi verso l'esercito, con questi bambini che ti dicono: Ho 12 anni e 3 guerre, e impressiona: dritti verso Israele, verso i suoi tiratori scelti, schierati in fila di fronte a noi: perché il confine, qui, non è che una spianata di sabbia in cui si è totalmente visibili. Sempre. Totalmente esposti. L'unica difesa, è il fumo degli pneumatici in fiamme. Non hanno che fionde e aquiloni, questi famosi aquiloni a cui legano stracci impregnati di benzina, e che incendiano i campi di là dalla barriera: e che più spesso, però, con il vento, ci vengono addosso. Ma restano un simbolo potente.

 

Costano pochi centesimi: eppure hanno sconfitto l'Iron Dome, con le sue batterie da 100 milioni di dollari l'una. "Non sono un'arma, sono un messaggio", mi dice un ragazzo. "Noi non possiamo vincere. Ma neppure Israele può vincere", dice, mentre dal fondo, altri spingono verso il filo spinato il primo dei copertoni, per dare il via agli scontri, e la folla gli si apre intorno. Ma è troppo pesante, e si rovescia addosso a un uomo già malconcio. Tutti ridono. Ironici. Questa è la Palestina!, dicono, mentre già arrivano i primi feriti: i proiettili, di là dal fumo, neppure si sentono. A un tratto, semplicemente, chi ti sta accanto cade. E la sua maglietta si colora di sangue. Se è una marcia, è una marcia al contrario: invece di avanzare, i palestinesi tornano indietro. In barella. Uno dopo l'altro. Trasportati a sirene spiegate verso gli ospedali, verso l'altra battaglia: quello combattuta a colpi di antibiotici negati. E quando un ragazzo che armeggia con un lungo spago, e una specie di gigantesco retino per farfalle, acchiappa un drone, tutti, tutti insieme, si dimenticano degli israeliani per correre verso il drone che viene giù: e scattarsi un selfie. A sera, si conteranno 4 morti, ma il venerdì, praticamente, finisce qui. Con il drone in processione per le vie di Gaza come la statua di un santo.


Per ora, è l'unico successo possibile.
Il mattino dopo, il confine è di nuovo una placida spianata di sabbia. Dei ragazzi sono sdraiati al fresco, alcuni laureati, alcuni amputati: tutti senza lavoro. Arriva una signora in nero. Il figlio è stato ucciso. Manteneva tutta la famiglia. E nessuno è neppure andato a chiederle come sta, dice. Piange, disperata. Si aggrappa a uno di noi, che le lascia delle monete, e crolla, sfinita, Aiutateci! Aiutateci!, urla, disperata, a terra, mentre un uomo, brusco, la trascina via.

 

 

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