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mercoledì 11 aprile 2018

 

Capolinea per il progressismo

Lula in carcere

di Raúl Zibechi

 

Le considerazioni di Zibechi partono da quanto sta succedendo in questi giorni in Brasile, con l’arresto di Lula da Silva, l’avanzata delle forze della restaurazione neoliberista e il complesso quadro apertosi verso le elezioni presidenziali del prossimo 7 ottobre.

 

Con un Lula condannato e incarcerato si chiude un ciclo politico in America Latina. L’ex presidente del Brasile ha praticamente esaurito le possibilità di presentarsi alle elezioni del prossimo ottobre, il suo partito sarà ridotto alla minima espressione e il futuro delle sinistre rimane sospeso in un limbo dal quale non potranno uscire nel medio termine.

Per sei voti a cinque, il Tribunale Federale Supremo (STF) ha respinto l’habeas corpus presentato dagli avvocati dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva. In questo modo, perde la possibilità di evitare la prigione prima delle elezioni presidenziali di ottobre. Anche se l’epilogo della vicenda era prevedibile, ciò comporta una cocente sconfitta per il Partito dei Lavoratori, la sinistra brasiliana e quella latinoamericana, oltre al leader principale di questa corrente.

Nella correlazione di forze che provocarono questa caduta si devono considerare almeno tre aspetti: la forte irruzione degli stati maggiori delle forze armate nello scenario politico, qualcosa di inedito nelle tre decadi post dittatoriali; la conformazione di una nuova destra militante profondamente razzista, antipopolare e antidemocratica che ha polarizzato il paese e, per ultimo, una sinistra paralizzata che non è stata capace di comprendere le nuove realtà globali e regionali.

 

L’ “etica” militare

Alcune ore prima dell’inizio della sessione del Tribunale Federale Supremo che doveva decidere se Lula sarebbe stato incarcerato, il comandante dell’Esercito, il generale Eduardo Villas Bôas, ha scritto nel suo account Twitter: «Tutti gli sforzi devono essere fatti per impedire la corruzione e la impunità nella quotidianità brasiliana».

La proposta sarebbe credibile se arrivasse da un’istituzione abituata a punire i responsabili di tortura e omicidio avvenuti durante la dittatura militare tra gli anni 1964 e 1985. Ma gli alti comandi continuano ad appoggiare i torturatori, omaggiandoli pubblicamente e distorcendo lo scenario politico. Nel 2016 la Commissione Pastorale della Terra ha dimostrato che negli ultimi 32 anni ci sono stati 1722 omicidi nella campagna brasiliana nell’ambito della riforma agraria, dei quali solo 110 sono stati portati a giudizio e solo 31 sono le persone che risultano essere condannate.

L’istituzione che dovrebbe perseguire il crimine a Rio de Janeiro, dove interviene per ordine del presidente Michel Temer, è definita da Villas Bôas come “garante dei valori e dei principi della moralità e dell’etica”, anche se non sembra impegnata a trovare gli assassini della consigliera Marielle Franco.

Almeno altri tre generali hanno appoggiato le dichiarazioni pubbliche del comandante. Il generale Luiz Gonzaga Schroeder ha detto a “O Estado de São Paolo” che se Lula non verrà incarcerato, «il dovere delle forze armate sarà quello di ristabilire l’ordine». Solo il comandante delle forze aeree, Nivaldo Luiz Rosado, ha dimostrato un tono differente rispetto a quello dei generali nel far notare come la società è “polarizzata” e nell’esigere ai suoi subordinati di rispettare la Costituzione e di non anteporre le convinzioni personali al di sopra delle istituzioni.

Più che una minaccia golpista, si tratta di pressioni – certamente inammissibili - rivolte agli undici giudici del tribunale affinché Lula venga portato in prigione. Pressioni che non si ascoltarono quando il Parlamento decise di impedire che la giustizia processasse il presidente Temer. Dall’altra parte, cinque mila giudici e fiscali chiesero con una carta collettiva che si mantenesse il criterio secondo il quale un condannato in secondo grado debba andare in prigione, mentre 3200 avvocati pensavano il contrario.

 

Societa’ divisa, Paese alla deriva

L’offensiva politica dei militari sta insegnando, in partita doppia, lo sconcerto della società di fronte all’incredibile polarizzazione sociale-culturale-politica e la crisi delle istituzioni democratiche. Quando i militari si addentrano nella politica è perché le cose stanno andando male. Molto male. Con il tempo questo tipo di coinvolgimento genera divisioni interne inconciliabili.

La domanda da porsi è perché i militari, i grandi media, le chiese evangeliche, gli impresari e le classi medio alte del paese, hanno fatto dell’odio un tratto distintivo che ora si è focalizzato su Lula, ma che nel quotidiano si erge contro neri e nere, persone di sinistra, persone con sessualità non conforme e varie altre categorie che comprendono le differenze. Alcuni mesi fa, in un elegante shopping di Brasilia, un signore insultò una donna e sua figlia mentre uscivano dal cinema tenendosi per mano perché credette che fossero lesbiche.

Se questo succede in uno spazio dove predominano le classi bianche, si può solo immaginare come sarà la vita quotidiana delle lesbiche di favelas, come ad esempio Marielle Franco, del cui omicidio non si è sentita alcuna voce indignata proveniente dalle caserme né dalle classi medie agiate.

L’ipocrisia della destra brasiliana è impressionante. Non solo domina i media, la giustizia, le forze armate e le principali istituzioni statali e private del Brasile, ma ha dimostrato anche l’abilità di prendersi le strade a partire dal 2013, quando la sinistra elettorale indietreggiò spaventata di fronte all’irruzione di una moltitudine di persone contrariata per l’aumento dei prezzi dei trasporti e per la repressione politica.

Il Movimiento Brasil Libre (Mbl), principale espressione politica e militante della nuova destra, da quasi cinque anni fa sentire il suo potere nelle strade, dalle azioni di massa con centinaia di migliaia di persone fino ad azioni compiute da piccoli gruppi che se la prendono con gli studenti che occupano le scuole secondarie o con le attiviste femministe e Lgbt. Da quando hanno rimosso la sinistra dalle piazze non si sono fermati un solo istante. Hanno ottenuto una serie di vittorie importanti, come quella di spingere la Banca Santander a ritirare una mostra queer accusata di “incitare alla pedofilia e alla zoofilia” (Publico, 14-IX-17).

Siamo di fronte ad una nuova destra militante, contro la quale la vecchia sinistra si dissolve nell’aria di una legalità meschina, nelle mani di giudici e procuratori i cui princìpi coincidono l’intransigenza e l’odio. Non sono scoraggiati dall’irrazionalità dei loro argomenti, né hanno paura di violare il buonsenso e le leggi per imporre i propri princìpi. Per esempio, accettare che Temer continui ad essere presidente quando hanno abbattuto Dilma con accuse molto meno gravi rispetto a quelle che la giustizia imputa all’attuale presidente.

 

La sinistra impossibile

Cosa può imparare la sinistra dal giudizio contro Lula e dall’impossibilità di presentarsi come candidato? Che cosa dall’emergenza della nuova implacabile destra, che non si ferma di fronte a nulla?

La prima questione è che la sinistra non può continuare a governare come lo ha sempre fatto, cavalcando quel motto (“Lulinha paz e amor”) che l’ha catapultata a Planalto. Nel gennaio scorso in un incontro a San Paolo, Lula ha assicurato che non sarà lo stesso di prima del processo. «Non posso essere più radicale. Però non posso essere nemmeno Lulinha paz y amor. Ho dato amore e mi hanno restituito colpi. Voglio provare che non ha senso sistemare il paese se i poveri non sono inclusi».

Lula sa che non può tornare a governare, perché una società polarizzata non ammette mezze misure come quelle che ha promosso durante i suoi due governi. Quel centrismo tiepido e l’alleanza con la destra non sono riproducibili. Le forze sociali che “lubrificavano” la governabilità (imprenditori, evangelici e settori delle classi medie), si sono ritirati non a causa dei programmi economici ma perché i poveri hanno cominciato a muoversi e a occupare spazi in tutto il paese. Una reazione colonialista a tono con la peggior storia del paese, che nessun governo può modificare.

La seconda questione è che la sinistra potrebbe interrogarsi sul cammino da seguire. Dalla caduta del socialismo reale (1989-1991), le diverse varianti della sinistra hanno optato per un pragmatismo al limite con le parole d’ordine dei propri valori storici. Con l’obiettivo di arrivare al governo, hanno diluito i propri programmi e costruito alleanze con le destre pagando un altissimo prezzo in legittimità. In Brasile, niente di meno che con il PMDB dell’attuale presidente, un partito che pensa solo a ottenere incarichi e a mantenerli.

Il problema non è vincere o perdere, capriccio che sempre è stato e sarà soggetto all'alternanza dei cicli storici. La questione di fondo è l’identità e la coerenza che dovrebbe emanare da essa. In momenti difficili come quello che stiamo attraversando, vale la pena ascoltare le persone sagge, come lo storico Eric Hobsbawm. Nella sua “Storia del XX secolo”, sostiene che la rivoluzione spagnola è stata la causa più nobile del secolo: «Per molti di noi che sono sopravvissuti è l’unica causa politica che, anche retrospettivamente, sembra pura e convincente».

Non possiamo dire lo stesso delle esperienze progressiste in America Latina. La corruzione si sta portando via una parte di ciò che questi governi hanno ottenuto. L’altra parte è dilapidata da questa incomprensibile arroganza che sconvolge persino chi li ha appoggiati. La crisi attuale può essere il momento adeguato per lanciare nuove/vecchie domande. Si può cambiare la società da dentro lo Stato? Nei fatti, lo Stato ha addomesticato le persone che hanno avuto incarichi? Perché le sinistre continuano a credere in quello che chiamiamo Stato di diritto, quando le destre hanno smesso di credere nella legalità per imporre i propri interessi con la forza? Di conseguenza, che percorsi devono essere intrapresi per agire al di fuori del quadro delle istituzioni, ma senza ricorrere alla violenza?  

 

Eventualità

Il PT non ha smesso di ripetere che in quanto a candidati presidenziali, non ha un “piano B”. Ora, la candidatura di Lula è appesa a un filo quasi trasparente.

Tocca al Tribunale Elettorale Superiore (TSE) prendere la decisione finale sulla candidatura, che ha raccolto più consensi in Brasile. Ma solo il 15 agosto, a meno di due mesi dalle elezioni, il TSE deciderà se accettare o meno la candidatura dell’ex presidente.

Fino a quel momento, il PT potrà conservare la sua pretesa di mantenere Lula come suo candidato, anche mentre sta scontando la sua condanna a 12 anni e un mese in carcere. Tuttavia, vari analisti politici segnalano che Lula è ineleggibile e non potrà presentarsi alle elezioni del prossimo 7 ottobre, dato che la cosiddetta legge “foja limpia” non permette a persone che sono state condannate in secondo grado (è questo il caso di Lula) di potersi candidare.

Gli avvocati di Lula hanno cercato di impedire o rinviare la detenzione del loro cliente presentando appelli, ma secondo gli specialisti, questi ricorsi non potranno cambiare la pena di 12 anni e un mese decretata all’unanimità dai giudici del Tribunale Federale Regionale 4 di Porto Alegre inflitta per una tangente (un appartamento nello stato di San Paolo) ricevuta dalla società di costruzioni OAS in cambio di favori destinati alla società petrolifera statale Petrobras. Gli avvocati di Lula hanno sempre sostenuto che il loro cliente non è il proprietario dell’appartamento.

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