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23 Aprile 2018

 

Nicaragua, la destra ci prova

da Fabrizio Casari

 

Sono stati giorni difficili per il Nicaragua. Armati di fionde, scudi, pietre, bottiglie molotov, bazooka artigianali e armi da fuoco, gruppi di manifestanti composti da studenti e appartenenti alla destra, per tre giorni hanno messo a ferro e fuoco il Nicaragua. Devastazioni, barricate, incendi di municipi ed ambulanze, attacco al ministero della gioventù e ad alcune radio vicine al governo, nelle ultime 12 ore gli assalti si sono ampliati ai supermercati ed ai negozi, che vengono prima saccheggiati e poi distrutti. Ad oggi, il bilancio è di 30 morti, tra i quali due agenti di polizia e due giornalisti.

 

Le manifestazioni violente hanno avuto inizio con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della riforma del sistema pensionistico, ma persino i più ingenui capiscono perfettamente che la riforma è stata solo l’occasione colta al volo per mettere in pratica un progetto di destabilizzazione ben più ampio e nulla ha a che vedere con le pensioni.

 

Nel merito va detto che il Fondo Monetario Internazionale ha tentato di imporre la sua solita ricetta, ritenendo che la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale pubblico possa essere garantita solo attraverso un cambiamento radicale delle condizioni attuali. Il FMI chiedeva lo spostamento necessari per andare in pensione dagli attuali 60 anni ai 65; il passaggio dei contributi necessari dalle attuali 750 settimane a 1500; la fine delle pensioni sociali minime; l’abolizione delle pensioni per le vittime di guerra (volute dal Presidente Ortega), l’abolizione della tredicesima per i pensionati; la soppressione delle minipensioni per coloro che non hanno raggiunto i requisiti al 60 anno di età (anche questa è una norma stabilita dal Presidente Ortega).

 

La ricetta FMI era stata accolta con entusiasmo dalle organizzazioni padronali (Cosep), ma respinta dai sindacati. Da parte sua, il governo sandinista, pur consapevole della insostenibilità della situazione finanziaria dell’INSS, rifiutando l’ipotesi del Fondo Monetario, svelse una modifica quantitativa delle quote contributive per aumentare le entrate da addossare in maggior parte alle imprese, quindi allo Stato e, in parte minore, ai pensionati, sia quelli già attivi che i futuri.

 

In sostanza la riforma del Governo non toccava né il numero di contributi né l’età per andare in pensione; venivano mantenute le pensioni per le vittime di guerra e quelle di anzianità a prescindere dai contributi versati e restavano in piedi le tredicesime per i pensionati. Quello che cambiava, appunto, erano le quote ripartite per la nuova contribuzione: le imprese dovevano aumentare del 2%, i lavoratori dello 0,75 e lo Stato l’1,50. Ma, soprattutto, veniva abolito il tetto di contribuzione per le pensioni alte (quelle oltre i 1500 dollari/mese) che vedevano incrementare la loro quota di tassazione di un 5%.

 

All’opposto di quanto richiesto dal FMI, si trattava di una riforma orientata alla difesa dei ceti più poveri attraverso l’aumento della pressione fiscale sulle pensioni più ricche, per un ripianamento del bilancio dell’INSS che fosse distribuito in forma progressiva tra tutte le componenti sociali.

 

La reazione del padronato è stata rabbiosa. Abbandonato il tavolo di concertazione, ha indetto scioperi e mobilitazioni manipolando l’informazione mentre l’ultra destra scatenava bande di delinquenti ai quali si sono aggiunti studenti in buona fede ma abilmente manipolati. La maggioranza di essi, con il protagonismo che da sempre accompagna gli studenti nicaraguensi, sono infatti scesi in piazza per protestare contro una riforma che ritengono iniqua e si sono fatti coinvolgere in una spirale di scontri sanguinosi.

 

Tutto come previsto da un piano prestabilito della destra che, incapace di raccogliere consensi sufficienti nelle urne, da anni cerca disperatamente di scatenare la destabilizzazione nel paese. Adesso può finalmente recarsi con soddisfazione ad incassare assegni e prebende che Stati Uniti ed alcuni altri paesi europei assegnano attraverso le ONG ai dirigenti del MRS, un tempo sandinisti ed oggi ultradestra, un tempo anti imperialisti ed oggi al servizio dell’impero.

 

Il Presidente Daniel Ortega ha fatto appello al senso di responsabilità di tutti, ha denunciato infiltrazioni dal Salvador e Honduras di maras ed ha incolpato la cultura dell’odio per il clima che si è creato, quindi ha proposto il ritorno al tavolo del negoziato. A dimostrare che non sia un espediente tattico, ha cancellato la Riforma pensionistica e si è detto pronto a riscriverla con tutte le parti sociali.

 

Che questo sia sufficiente a ripristinare un clima civile nel Paese è da vedersi, ma sempre lo stesso Ortega ha ammonito i saccheggiatori armati che le autorità ripristineranno l’ordine e i colpevoli verranno arrestati e giudicati senza sconti, così rispondendo negativamente al Cosep, che aveva posto come precondizione per riaprire il negoziato il rilascio degli arrestati.

 

Ma è evidente come al centro della guerriglia non vi sia il merito della riforma: disordini, saccheggi e attacchi alle sedi istituzionali rispondono all’obiettivo dei gruppuscoli di estrema destra e del MRS, uniti nella sigla FAD, che chiedono la cacciata del governo di Daniel Ortega e Rosario Murillo, governo rieletto appena 5 mesi orsono con il 72% dei voti.

 

Quello che avviene in Nicaragua è l’applicazione dello stesso piano già utilizzato in diversi altri paesi a Sud del Rio Bravo con l’intento di sconfiggere il progetto di unità politica ed economica continentale della sinistra latinoamericana. Identica ricetta è già stata applicata in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guatemala, Brasile, Argentina, Paraguay: tutti paesi vittime del sovversivismo destabilizzatore ordinato da Washington, che tenta di rimettere le mani sull’America Latina con qualunque mezzo. Con un colpo di Stato militare come in Honduras, con un golpe parlamentare come in Brasile e in Paraguay, con una guerriglia permanente come in Venezuela, o con provocazioni spionistiche come a Cuba. Il metodo scelto come denominatore comune è il disordine permanente.

 

A questo fine sono ingenti le risorse investite: centinaia e centinaia di milioni di dollari ogni anno vengono distribuiti ai partiti di destra locali, a loro volta coordinati dalle locali ambasciate statunitensi. Vengono dedicati sforzi notevoli soprattutto sotto il profilo della disinformazione, con fabbriche di vere e proprie fake news e manipolazioni permanenti destinate a generare il convincimento che gli aggressori siano aggrediti e viceversa. Notizie false vengono diffuse attraverso l’utilizzo massiccio e professionale delle reti social e della stampa in mano ai grandi gruppi editoriali; tecniche di manipolazioni delle immagini e della ricostruzione degli eventi gestite dalle principali catene televisive internazionali, circolazione di informazioni destinate solo ad aumentare il panico distribuite attraverso le agenzie di stampa internazionali.

 

In Nicaragua il tentativo è quello di scatenare una reazione violenta da parte del governo sandinista che spinga gli USA a decretare il Nica Act e magari anche delle sanzioni dirette; che cambi il senso comune invertendo il paradigma politico e storico tra repressione e mobilitazioni e che distragga risorse importanti dall’opera di redistribuzione sociale e del consolidamento della crescita economica.

 

La destabilizzazione del Nicaragua diventa prioritaria anche per la fase politica del continente. Alla vigilia delle elezioni in Venezuela, dove Maduro potrebbe vincere e a poco più di due mesi da quelle messicane, dove il candidato della sinistra, Andrès Manuel Lopez Obrador, guida i sondaggi con circa 20 punti di vantaggio sui suoi avversari, dopo la sconfitta elettorale della sinistra in El Salvador, mettere in crisi il Nicaragua è mossa d’importanza strategica per riportare l’America Latina sotto il suo controllo. Si deve poi considerare che con l’uscita di scena di Lula ed il ritiro di Raul Castro, Daniel Ortega è ormai l’unico leader di riferimento per la sinistra storica latinoamericana e ridurne l’influenza è parte del piano.

 

Dal punto di vista degli interessi di Washington c’è la speranza di un rapido ritorno agli anni ’80, con un FSLN arroccato nella difesa dei più deboli, un padronato con la prospettiva di rientrare nei ranghi di un latifondo parassitario e una chiesa che torna sui suoi passi inginocchiandosi di fronte all’impero. Ma è tutt’altro che facile: a Managua il cammino per la rinascita, fatto di idee che sostituiscono le armi l’hanno già sperimentato con successo.

 

Il governo si trova di fronte ad una fase completamente nuova. Le posizioni assunte dal padronato e da una parte della Chiesa rischiano di mettere in crisi la concertazione nazionale, che è stata la base metodologica del governo di questi ultimi 11 anni e ha offerto risultati straordinari sotto il profilo della crescita economica e sociale, ponendo il Nicaragua al secondo posto in America Latina per crescita del PIL e al primo per la riduzione delle diseguaglianze.

 

E’ auspicabile che un tavolo negoziale si apra rapidamente e che vengano eliminati sogni di rivolta che solo servirebbero a far scorrere altro sangue in una terra già martoriata. Difficile, d’altra parte, ipotizzare che un governo che gode del favore della maggioranza della popolazione arrivi a cedere il passo sotto la pressione di gruppuscoli violenti di una destra priva di qualsiasi prestigio e riconoscimento interno.

 

Dunque è necessario riprendere il confronto e la convergenza tra governo, imprese e corpi intermedi. E anche dal punto di vista imprenditoriale la ripresa del dialogo è una opportunità di sopravvivere: gli imprenditori non avrebbero niente da guadagnare nel porsi all’opposizione di un governo che ha tenuto le imprese nazionali al riparo della concorrenza con le major statunitensi, garantendo margini di profitto altrimenti difficili da ottenere.

 

Bisogna dunque che cessi il fragore delle armi, si sciolgano le barricate e s’imponga la forza straordinaria delle idee e del dialogo. Servirà pazienza, ascolto e una grande opera di ristabilimento della verità dei fatti insieme alla necessaria fermezza nella difesa del Paese che stronchi i piani destinati a renderlo ingovernabile. Ma a percorrere strade complicate lo si è imparato in tanti anni di governo, poi di opposizione e quindi di ritorno al governo. Difficile che adesso ci si perda nel cammino.

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