Fonte la Jornada

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9 marzo 2018

 

L’ora della sicurezza in città 

di Raúl Zibechi

Traduzione di Marco Calabria

 

Il governo affida l'intera gestione della sicurezza di Río ai militari. Una mutazione delle forme di controllo che non serve a fermare la violenza ma a fare del Brasile un avamposto della guerra mondiale contro i poveri

 

A Río de Janeiro non è in corso alcuna campagna elettorale, non c’è neanche un Salvini carioca, eppure il tema della sicurezza domina incontrastato la scena. Lo scorso anno si sono contati quasi settemila morti ammazzati. Il Brasile cammina da tempo sulle orme insanguinate del Messico ma le strade di gran parte delle città dell’América Latina sono ormai lastricate da una violenza inaudita. La nuova risposta del governo brasiliano è semplice: consegnare alle forze armate l’intera gestione della sicurezza della città, la seconda del paese dopo São Paulo, dall’ordine pubblico ai pompieri. La militarizzazione di Río non servirà a fermare la violenza, così come non è certo servita a debellare la narcoguerra messicana: 200mila morti, 30 mila desaparecidos. Servirà invece, eccome, a mantenere le enormi disugualianze sociali e a raggiungere gli obiettivi inconfessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione delle favelaspotenzialmente ribelle o comunque non integrabile. Il Brasile è un avamposto d’eccellenza della guerra mondiale contro i poveri.

 

Il 16 febbraio il governo di Michel Temer ha consegnato la sicurezza di Río de Janeiro alle forze armate. Tutto sarà gestito dai militari, dai corpi di polizia fino ai pompieri e alle carceri. Il pretesto, come sempre, sono la violenza e il narcotraffico; che pure esistono e sono enormemente pericolosi per la popolazione.

 

Río de Janeiro è una delle città più violente del mondo. Nel 2017 sono stati contati 6.731 morti e 16 scontri a fuoco ogni giorno, ognuno con un saldo minimo di due persone uccise, quasi sempre neri. Tra le cinquanta città più violente del mondo, 19 sono brasiliane e 43 latinoamericane. Di pari passo, il Brasile è tra i dieci paesi con maggiori disuguaglianze nel mondo, alcuni di essi sono anche tra i più violenti, come Haiti, Colombia, Honduras, Panama e Messico (fonte Banca Mondiale, ndt).

Nel caso di Río de Janeiro, l’azione dei militari ha una caratteristica speciale: si focalizza nelle favelas, è diretta, dunque, contro la popolazione povera, nera e giovane. Nelle 750 favelas cittadine, vive un milione e mezzo dei sei milioni di abitanti di Río. I militari si posizionano alle uscite e fotografano ogni persona, gli chiedono i documenti e ne verificano l’identità. Non s’era mai fatto un controllo del genere in maniera tanto massiccia e specifica.

Non è la prima volta che i militari si fanno carico dell’ordine pubblico in Brasile. L’anno scorso a Río i militari sono intervenuti 11 volte, nel contesto delle missioni Garanzia della Legge e dell’Ordine (GLO), una legislazione che è stata applicata nei grandi eventi, come le visite del Papa e il Mondiale di Calcio. Dal 2008, in 14 occasioni hanno assunto funzioni di polizia. Adesso, però, si tratta di un’occupazione militare che comprende tutto lo Stato.

Molti analisti hanno sostenuto con vigore che l’intervento è destinato al fallimento, visto che i precedenti, sebbene realizzati in tempo, non sono serviti a molto. Un altro esempio sarebbe l’insuccesso delle Unità di Polizia della Pacificazione (UPP), che a suo tempo erano state vantate come la grande soluzione del problema dell’insicurezza, giacché si installavano nelle stesse favelas, come una specie di polizia del vicinato.

 

Gli analisti ricordano, intanto, che la guerra contro le droghe in Messico è uno strepitoso fallimento, che per ora si è chiuso con un saldo di oltre 200 mila morti e 30 mila desaparecidos, mentre il narcotraffico, ben lontano dall’esser stato sconfitto, è ancora più forte.

 

È necessario segnalare, tuttavia, che queste letture sono parziali, perché in realtà questi interventi conseguono un grande successo per raggiungere gli obiettivi non confessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione potenzialmente ribelle o comunque non integrabile. È questa la ragione che muove a militarizzare interi paesi in America Latina, senza toccare la disuguaglianza, che è la causa di fondo della violenza.

 

Quattro ragioni avallano l’impressione che siamo di fronte a interventi di straordinario successo, in Brasile, ma anche in Centroamerica, Messico e Colombia, solo per citare i casi più evidenti.

 

La prima è che la militarizzazione della sicurezza riesce a blindare lo Stato come garante degli interessi dell’uno per cento più ricco della popolazione, delle grandi multinazionali, degli apparati armati dello Stato e dei governi. C’è da chiedersi perché sia necessario, in questo periodo della storia, blindare quei settori. La risposta è che i due terzi della popolazione sono esposti alle intemperie, senza diritti sociali, grazie all’accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale.

 

Il sistema non concede nulla alle maggioranze nere (che sono il 51 per cento della popolazione in Brasile), indigene e meticce. Solo povertà e pessimi servizi sanitari, educativi e dei trasporti. Non offre loro un lavoro dignitoso né remunerazioni adeguate, le spinge alla sottoccupazione e alla cosiddetta “informalità”. A lungo termine, una popolazione che non riceve nulla o quasi nulla dal sistema, viene chiamata a ribellarsi. Per questo militarizzano, un compito che stanno compiendo con successo, per ora.

 

La seconda ragione è che la militarizzazione a scala macro si completa con un controllo sempre più raffinato, che fa ricorso alle nuove tecnologie per vigilare da vicino e da dentro le comunità che considera pericolose. Non può essere un caso che in tutti i paesi sono i più poveri, cioè coloro che possono destabilizzare il sistema, quelli che vengono controllati nel modo più implacabile.

Un solo un esempio. Quando sono state “donate” le làmine metalliche per le case in Chiapas, le istituzioni statali si sono preoccupate di dipingerle perché dall’alto si potessero identificare le famiglie non zapatiste. Le politiche sociali che elogiano i progressisti fanno parte di quelle forme di controllo che, nei fatti, funzionano come metodi di contro-sovversione.

La terza questione è che il doppio controllo, macro e micro, generale e particolare, sta attanagliando le società in tutto il mondo. In Europa ci sono multe o carcere per quelli che escono dal copione assegnato. In America Latina ci sono morte e desaparición per chi si ribella o, semplicemente, denuncia e si mobilita. Non si reprimono più solo quelli che si sollevano in armi, com’è stato negli anni 60 e 70 del secolo scorso, ma tutta la popolazione.

Questa mutazione delle forme di controllo, isolando e sottomettendo i potenziali ribelli, o disobbedienti, è una delle trasformazioni più notevoli che il sistema sta applicando in questo periodo di caos. Un periodo che, nel lungo periodo, potrebbe anche farla finita con il capitalismo e il dominio dell’uno per cento sul resto della popolazione.

 

La quarta questione sono delle domande. Che vuol dire governare quando siamo di fronte a forme di controllo che accettano solo di votar ogni quattro, cinque o sei anni? A che serve mettere tutto l’impegno politico nelle urne se fanno frodi e consolidano il loro potere con i militari nelle strade, come succede in Honduras? Non dico che non si debba votare. Mi domando: per ottenere cosa?.

 

Si tratta di continuare a riflettere sulle nostre strategie. Lo Stato è un’idra mostruosa al servizio dell’uno per cento. Tutto questo non cambierà neppure se prendessimo il timone del comando, perché al vertice della piramide continueranno a restare gli stessi, con tutto il potere necessario a mandarci via quando lo riterranno conveniente.

 

 

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