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07 Maggio 2018

 

Libano, Iran e minacce israeliane

di Michele Paris

 

Il risultato delle prime elezioni generali in Libano da quasi un decennio a questa parte ha premiato in maniera decisiva il partito/milizia sciita Hezbollah e i suoi alleati nel paese mediorientale. La conquista della maggioranza dei seggi nel prossimo Parlamento rafforza dunque la posizione di Hezbollah, nonostante i temuti contraccolpi dell’impegno nel conflitto in Siria, così da rendere ancora più problematica una possibile iniziativa militare di Israele sia in territorio libanese sia contro l’Iran o la presenza iraniana in Siria.

 

Il passaggio da una legge elettorale maggioritaria a proporzionale ha così premiato il “Partito di Dio”, il quale, in un’alleanza con altre formazioni sciite, cristiane e anche sunnite ha assestato un grave colpo su scala nazionale alla coalizione sunnita, appoggiata dall’Arabia Saudita, del primo ministro Saad Hariri, vincitore dell’ultima consultazione tenuta nel 2009.

 

Dal punto di vista formale, il prossimo governo libanese sarà creato con ogni probabilità ancora attorno a una nuova ampia coalizione interetnica, se non altro perché gli accordi post-guerra civile prevedono che la carica di primo ministro sia assegnata a una personalità appartenente alla comunità sunnita.

 

Tuttavia, com’è evidente il peso di Hezbollah nel nascente esecutivo risulterà accresciuto, con una serie di riflessi sulle dinamiche regionali in atto. L’affermazione di Hezbollah rappresenta in primo luogo un successo della Repubblica Islamica in Libano, così come in Siria, dove l’ala militare del partito/milizia sciita opera in prima linea contro i “ribelli” e i jihadisti anti-Assad appoggiati dall’Occidente.

 

Ciò rappresenta una nuova umiliazione per gli Stati Uniti, Israele e i loro alleati in Medio Oriente e di conseguenza un’ulteriore ragione di preoccupazione per i propri interessi strategici, dopo oltre sette anni di manovre fallimentari per rovesciare il regime di Damasco. Al voto in Libano seguirà oltretutto questa settimana anche quello in Iraq, dove è ugualmente probabile un’affermazione delle forze sciite filo-iraniane.

 

L’attitudine di Israele nei confronti degli scenari che potrebbero delinearsi in Libano dopo il voto di domenica è stata espressa da uno dei maggiori “falchi” del gabinetto di estrema destra del premier Netanyahu. Il Ministro dell’Educazione, Naftali Bennett, ha scritto su Twitter che, alla luce dell’esito del voto, “Hezbollah equivale al Libano” e che, cioè, Israele non farà differenze tra lo stato mediorientale e la milizia sciita in caso di guerra.

 

Le elezioni libanesi e le possibili prossime decisioni del governo israeliano rendono particolarmente incandescente la situazione nella regione, visto che gli sviluppi politici a Beirut si incrociano con l’approssimarsi della data entro la quale il presidente americano Trump dovrà in sostanza scegliere se gli USA rimarranno o abbandoneranno l’accordo sul nucleare dell’Iran.

 

In previsione della scadenza del 12 maggio, proprio Israele ha intensificato la campagna contro la Repubblica Islamica persiana. Dopo l’intervento televisivo di Netanyahu di settimana scorsa per denunciare fantomatiche operazioni clandestine iraniane in ambito nucleare, il premier israeliano è tornato sull’argomento nel fine settimana, cercando di ribattere alle critiche internazionali.

 

Netanyahu non ha fatto in realtà altro che ribadire le menzogne e le conclusioni fuorvianti della sua precedente uscita, nella speranza di creare una qualche giustificazione per la probabile imminente decisione di Trump di lasciare l’intesa di Vienna. Soprattutto, le posizioni israeliane confermano l’estremo isolamento di questo paese e di Washington sulla questione dell’Iran, come dimostra anche l’opposizione europea al ritorno della linea dura nei confronti di Teheran.

 

Non solo, anche importanti sezioni dell’apparato politico e militare di USA e Israele sono ugualmente contrarie al boicottaggio dell’accordo sul nucleare per svariate ragioni. In primo luogo, la denuncia del trattato di Vienna da parte di Trump aprirebbe una fase ancora più complicata dei rapporti in Medio Oriente con il probabile epilogo di un conflitto rovinoso incentrato sull’Iran.

 

La denuncia di un accordo pressoché universalmente certificato come funzionante, per non parlare di una guerra di aggressione scatenata su premesse simili, rischia poi di spazzare via quel poco di credibilità internazionale rimasta a Stati Uniti e Israele, mentre si aggraverebbero i contrasti già più che evidenti tra Washington e l’Europa. Il ritorno di pressioni e sanzioni punitive, se non un’aggressione militare, radicalizzerebbe poi ancora di più l’opposizione popolare in Iran nei confronti dell’Occidente e dello stato ebraico, spegnendo le già esili speranze di alimentare una campagna per il cambio di regime a Teheran.

 

In gioco ci sono inoltre importantissime questioni strategiche ed economiche, senza dubbio tenute in estrema considerazione dalle potenze che nel 2015 avevano negoziato l’accordo sul nucleare con i rappresentanti della Repubblica Islamica. Essendo l’Iran uno snodo sempre più cruciale nelle rotte energetiche e commerciali euroasiatiche, il nuovo tentativo di isolamento di questo paese da parte americana darebbe un ulteriore impulso all’integrazione di Teheran nei progetti strategici promossi da Russia e, soprattutto, Cina, favorendo quelle tendenze multipolari su scala globale che gli Stati Uniti intendono ostacolare a ogni costo.

 

Tutti questi fattori sono al centro delle discussioni in corso all’interno delle classi dirigenti dei paesi occidentali e di Israele. Gli stessi avvertimenti sulla natura ancora precaria della decisione di Trump in vista della scadenza del 12 maggio rivelano, più che la natura imprevedibile del presidente americano, il dissidio interno all’establishment di Washington sull’opportunità di far naufragare l’accordo sul nucleare.

 

Ancora in questi giorni, ad esempio, voci importanti del Partito Repubblicano continuano ad avvertire la Casa Bianca a non prendere decisioni sull’Iran che potrebbero alla fine risultare dannose per gli interessi americani. Una di queste è stata quella dell’influente presidente della Commissione Difesa della Camera dei Rappresentanti di Washington, Mac Thornberry, il quale in un’intervista rilasciata domenica a Fox News ha affermato che, nonostante la sua opposizione iniziale all’accordo di Vienna, sarebbe ora un errore abbandonarlo, viste le rischiose alternative a disposizione nonché il pericolo di allargare il solco tra gli alleati sulle due sponde dell’Atlantico.

 

Le pressioni sull’amministrazione Trump continuano poi senza sosta proprio da parte degli stessi governi europei. Dopo i tentativi di convincere il presidente americano a rimanere nell’accordo del presidente francese Macron e della cancelliera tedesca Merkel durante le loro recenti trasferte a Washington, domenica è stata la volta del ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson. Il New York Times ha ospitato un intervento del numero uno della diplomazia di Londra, nel quale ha ugualmente implorato Trump a salvaguardare lo status quo sull’Iran.

 

In un passaggio decisivo, tuttavia, Johnson ha ammesso che i governi europei condividono le preoccupazione americane per le presunte attività destabilizzanti di Teheran, a cominciare dallo sviluppo del programma di missili balistici, peraltro di natura difensiva e mai preso in considerazione dalle trattative sul nucleare, e dal sostegno offerto a organizzazioni “terroristiche” e a regimi ostili in Medio Oriente.

 

L’intera questione della “crisi” iraniana in altre parole ruota attorno al ruolo di questo paese negli equilibri strategici della regione e al modo più opportuno per impedire che continui a essere d’ostacolo alle mire occidentali. La diversità di vedute tra l’Europa da una parte e, dall’altra, gli USA e Israele o, quanto meno, una parte delle rispettive classi dirigenti di questi due paesi, consiste perciò nell’impedire il consolidamento dell’asse della “resistenza” guidato dall’Iran tramite la diplomazia e incentivi economici

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