Originale: The Independent

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15 maggio 2018

 

Guardarsi reciprocamente con crescente preoccupazione

di Robert Fisk

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

In Occidente è facile concentrarsi su ogni dramma quotidiano in Medio Oriente e dimenticare il mondo in cui vive la gente reale della regione. I più recenti farfugliamenti del presidente americano circa l’accordo nucleare iraniano – per fortuna,  alla fine fermamente contrastati dall’UE – oscurano le terre di fosse comuni e di tunnel in cui esiste ora il Medio Oriente Musulmano. Perfino all’interno dell’area, è sorto ora un disinteresse quasi macabro per la sofferenza che è stata inflitta qui nei sei anni passati. Sono gli attacchi aerei di Israele in Siria che ora sminuiscono  la curva dell’attenzione.

Considerate, tuttavia, la scoperta di molti cadaveri in una fossa comune a Raqqa, la “capitale” siriana dell’Isis. Ha ottenuto a malapena tre paragrafi sui giornali arabi nel mese scorso, tuttavia i 50 corpi recuperati erano sufficientemente veri e può darsi che ce ne siano da recuperare altri 150. I cadaveri giacevano sotto un campo da calcio, vicino a un ospedale che i combattenti dell’Isis hanno usato prima di fuggire dalla città – in base a un accordo con le forze curde – e potrebbero essere identificate soltanto dai segni distintivi  o dal nome di  battaglia se erano jihadisti. Chi li ha uccisi?

Ancora minore spazio è stato dato a un’altra scoperta raccapricciante fatta il mese scorso nei tunnel sotto la città siriana di Douma, a est di Damasco. Questo vasto complesso di strade sotterranee sufficientemente ampio per macchine e camion, si è scoperto che conteneva 112 corpi, 30 dei quali erano soldati siriani, il resto probabilmente civili, molti uccisi molto tempo fa, presumibilmente dal gruppo Jaish al-Islam che ha combattuto per la città per molti anni. Erano ostaggi per i quali gli Islamisti volevano scambiare dei prigionieri e  poi uccisi quando non è stato raggiunto alcun accordo?

Il mio collega Patrick Cockburn ha indagato sui massacri molto più terribili, fuori Mosul che sono stati compiuti nel 2014; la maggior parte delle vittime erano soldati iracheni sciiti. Lo sappiamo perché l’Isis ha filmato la loro fine spaventosa: colpiti alla testa con armi da fuoco e gettati senza riguardi nelle acque del fiume Tigri macchiate di sangue e alcuni di loro galleggiavano lontano, a sud, verso Baghdad. La storia non è stata benigna con queste terre. Nel 1915, quando i Turchi stavano massacrando gli Armeni, molti dei cadaveri vennero trasportati lungo il Tigri e raggiusero Mosul – proprio il sito del massacro  si può vedere su un video dell’Isis, girato, naturalmente, 99 anni dopo.

Come le vaste fosse comuni in Europa dopo la Seconda Guerra mondiale – specialmente in Unione Sovietica – il ricordo di questa barbarie non sarà dimenticata. Questo è il motivo per cui le autorità irachene (in gran parte Sciite nel caso di processi “giudiziari” che non soddisfano gli standard internazionali) hanno impiccato i sospetti di appartenere all’Isis alle forche della prigione, 30 alla volta, nel sud del paese. Sembra che i Curdi si stiano comportando in maniera molto più umana fuori da Raqqa dove le udienza in tribunale hanno un pizzico di giustizia, anche se non riconosciuta in Occidente. E così si va avanti.

E a chi ci si rivolge per avere giustizia? O per ottenere la pace? I Russi in Siria, abbastanza stranamente, hanno appena iniziato a pubblicare un giornale mensile per le forze armate congiunte siriane e russe nel paese. Nel titolo ha un tocco della vecchia Unione Sovietica: “Insieme, facciamo la pace” – che potrebbe non convincere gli oppositori del governo siriano – e ci sono le fotografie dei soldati russi che danno da mangiare ai rifugiati (il pane arabo, molto basso), di soldati con il basco rosso che sorvegliano le prime linee e una grande foto in prima pagina di Vladimir Putin e di Bashar al-Assad.

Curiosamente, proprio sotto il titolo, c’è una fotografia a colori di colui che forse è il più importante soldato in Siria: il Generale Aleksander Juravlov, con il petto coperto di medaglie e con la sua uniforme blu scuro, che fissa la macchia  fotografica senza sorridere. Forse, con il passare delle settimane, potremmo sentirne parlare ancora di più, perché la presenza della Russia in Siria è lungi dall’essere conclusa.  Le copie in arabo del giornale cercano anche di insegnare ai soldati siriani un po’ di russo essenziale, mentre l’edizione in russo insegna l’arabo. E c’è anche ( nell’edizione in arabo) una guida di Mosca, carte geografiche della Russia e notizie sulle armi della Seconda Guerra Mondiale. Nella parte in alto, a sinistra, c’è un altro simbolo in stile sovietico: due mani strette insieme. Una mano ha i colori rosso, bianco e nero della bandiera siriana, l’altra ha il rosso, il blu e il bianco della bandiera russa. Sì, i Russi resteranno in giro per un bel po’.

E anche gli Israeliani. Il loro precedente attacco alla forze iraniane in Siria – che sembrano essere di gran lunga meno di quanto immagini l’Occidente, anche se ci nel paese ci sono ancora  molti combattenti di Hezbollah favorevoli all’Iran – si è verificato sospettosamente vicino all’annuncio di Trump con cui  rifiuta l’accordo degli Stati Uniti con l’Iran per il nucleare. E una dichiarazione di Israele secondo la quale gli Iraniani avevano dei missili in Siria, è stata fatta sicuramente insieme all’amministrazione Trump – è arrivata entro poche ore, e in Medio Oriente le coincidenze non si verificano con tale velocità.

I più recenti attacchi aerei israeliani notturni, apparentemente contro le forze iraniane in Siria dopo un presunto attacco di missili iraniani contro le forze israeliane nel Golan –  è importante usare la parola “presunto” e non prendere tutto per buono – devono essere stati noti  in anticipo agli Americani. Anche ai Russi. Inoltre è chiaro che qualsiasi piano israeliano di creare una “zona di sicurezza” (cioè, zona di occupazione) in Siria e lungo il confine con il Golan, lungo le linee della “zona di sicurezza”, ugualmente occupata e sorvegliata dalle milizie locali nel Libano meridionale fino al 2000 – riceverebbe l’approvazione americana.

E’ quindi un momento in cui tutte le parti si stanno fissando con preoccupazione crescente. Stranamente, in tutta la copertura giornalistica data alle elezioni largamente pacifiche in Libano della settimana scorsa, quasi nessuno ha fatto commenti su uno dei candidati sciiti vittoriosi nel distretto di Baalbek-Hermel. Ha un nome familiare – Jamil Sayyed  che è stato il capo della sicurezza generale del Libano. E’ stato anche un amico leale della Siria. L’Occidente lo ha fatto restare in galera per tre anni dopo l’inchiesta per l’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, ma è stato rilasciato senza che si sia trovata alcuna prova contro di lui. Dopo di ciò, il Generale Sayyed è andato spesso in visita a Damasco.

“Robert”, mi ha detto qualche mese fa in quella città mentre prendevamo un caffè, “perché mi odi?”  Ho trattenuto un attimo il respiro  e il vostro corrispondente si è affrettato a negare un sentimento del genere. Poi è arrivato l’invito al ristorante di cui è proprietario a Beirut.

Il punto, naturalmente, è che l’elazione del Generale Sayyed significa che uno degli amici più fidati della Siria, ora ha un seggio nel parlamento libanese. I suoi discorsi saranno ascoltati con profondo interesse dai suoi colleghi parlamentari. E’ strano, però, come continuano a mancarci questi sviluppi. Là in Occidente – o nel Selvaggio West di Trump – le fosse comuni, le alleanze russe e le elezioni libanesi non ottengono proprio la copertura che meritano.


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:  https://zcomm.org/znetarticle/staring-at-each-other-with-increasing-concern

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