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4 agosto 2018 

 

Il diritto a non emigrare

di Michele Quatraro

 

'Aiutiamoli a casa loro' non è uno slogan becero e privo di senso, ma un principio sacrosanto che dovrebbe trovare ampia conferma e legittimazione in campo internazionale.

 

Le condizioni di vita disumane dei migranti sia nell’Occidente democratico – in misura chiaramente minore – che nei Paesi dell’Africa settentrionale, dove gli stessi spesso, si stanziano in vista di una futura collocazione su di un barcone sovraffollato o, addirittura detenuti, sono un fenomeno tristemente inevitabile dei flussi migratori incontrollati. Per di più, i trattamenti loro applicati dalle autorità penitenziarie e di polizia in Libia e in altri Paesi dell’Africa settentrionale emersi da numerose inchieste giornalistiche, ci fanno comprendere da un lato un modus operandi fortemente repressivo, che trascura qualsiasi diritto e libertà fondamentale ed evidenzia una mancata acquisizione dei valori democratici da parte delle stesse, dall’altro la triste conseguenza di una insoddisfacente gestione dell’emergenza da parte delle potenze occidentali.

 

File source: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:LE_Eithne_Operation_Triton.jpgQuesti contesti geopolitici dove tutt’oggi sono continuamente lesi i diritti fondamentali degli individui e praticate forme di tortura che, nella peggiore delle ipotesi, conducono al decesso, non possono assolutamente essere coperti dai veli dell’indifferenza internazionale. In sostanza, la gestione dei fenomeni migratori a livello internazionale deve sì partire necessariamente dalla realtà territoriale dalla quale il fenomeno ha origine ma essa, con il relativo contenimento dei flussi, non può e non deve assolutamente prescindere dal garantire ai migranti condizioni di vita dignitose. Ed è in un tale contesto che determinate politiche di natura preventiva quali quelle del aiutiamoli a casa loro e del diritto a non emigrare dovrebbero trovare ampia conferma e legittimazione in campo internazionale. Mobilitazione e cooperazione a livello internazionale sono l’effettiva soluzione per avviare processi di sviluppo economico e sociale nelle zone del mondo meno evolute. Così, accompagnandoli costantemente nella crescita si determinerebbe un contenimento naturale dei flussi e si eviterebbero condizioni di vita lesive alla dignità e alla libertà degli individui coinvolti. D’altro canto, una società che osa definirsi matura nelle sue valutazioni e nel modo di pensare, dovrebbe anteporre al sano diritto ad emigrare, un più che sano diritto a non farlo.

 

Calandoci quindi nella dimensione pratica della medesima, si può intendere per “diritto a non emigrare” il diritto a non dover abbandonare per forza di cose la propria casa ed i propri familiari, nella oramai vana ed illusoria speranza di rinvenire situazioni di vita maggiormente agevoli; il diritto a non intraprendere clandestinamente una rotta migratoria assumendo sulla propria pelle gli innumerevoli rischi e pericoli che essa naturalisticamente comporta; il diritto a non divenire oggetto di traffici illeciti; il diritto a non divenire oggetto di vessazioni e violenze da parte di organizzazioni criminali; il diritto a non veder lesa la propria integrità fisica, psichica e morale; il diritto a non veder limitata la propria libertà; il diritto a non essere sottoposto a costrizioni di natura fisica e psichica; il diritto a non vivere in condizioni igienico-sanitarie più che precarie; il diritto poi, una volta sbarcati, se sbarcati, a non dover essere adoperati come manodopera a basso costo ma bensì, vedersi riconoscere il diritto a creare condizioni di vita adeguate e dignitose nei propri paesi d’origine, improntate ai valori democratici che caratterizzano le realtà politiche e sociali europee, e quindi, sottoporre l’immigrazione nella sua concezione attiva e fattuale non ad una condizione di stretta necessità, bensì ad una pura volontà dell’individuo, rendendola così non più  condizione necessaria e sufficiente alla sopravvivenza bensì una scelta improntata a principi autodeterministici. Tutto ciò è quindi pragmaticamente definibile come “diritto a non emigrare”, ancor più sintetizzabile in espressioni quali “diritto a non vedere infranta la propria dignità di uomo” e ancora “diritto a vivere e non a cercare di sopravvivere”.

 

File source: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Syrian_refugees_strike_at_the_platform_of_Budapest_Keleti_railway_station._Refugee_crisis._Budapest,_Hungary,_Central_Europe,_4_September_2015._(3).jpgIn conclusione, appare quindi pacifico sostenere con particolare fermezza che sarebbe vano qualsiasi tentativo retorico finalizzato ad inquadrare lo Stato nazionale come potenziale soggetto passivo del fenomeno quindi, come colui che assume direttamente gli effetti dannosi del suddetto fenomeno. Seppur vadano riconosciute le innegabili difficoltà politiche, finanziarie, sociali e culturali che uno Stato nazionale potrebbe rinvenire nella gestione del suddetto fenomeno, la realtà sopra ricostruita lo porrà sempre in una posizione di consistente svantaggio rispetto a quella del migrante che, come già precedentemente affermato, continuerà a veder inammissibilmente lesi in maniera aperta e manifesta quelli che sono i suoi diritti e libertà fondamentali.

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