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27 aprile 2018

 

Noi ragazzi della via Pál contro le rigidità statuali. Per una critica del confine e del sovranismo.

 

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. (W. Benjamin Tesi di filosofia della storia)

 

I recenti “fatti di Bardonecchia” ripropongono in primo piano la questione del confine. Palesemente l'interferenza armata francese sul territorio italiano dimostra, caso mai ve ne fosse bisogno, come il confine sia tutto tranne che una dimensione naturale. Il confine è una costruzione politica che soggiace per intero a un rapporto di forza. Contrariamente a quanto viene costantemente affermato dalle retoriche di senso comune nessun “naturalismo” sostanzia la linea di confine. Il confine, o almeno la forma da noi conosciuta, è una costruzione storica determinatasi intorno all'idea di Nazione, alla sua costituzione e ai malintesi che questa si porta appresso. Malintesi che, nel presente, continuano a essere assunti come una verità vera da gran parte delle forze politiche senza troppe distinzioni di schieramento. Di fronte ai “fatti di Bardonecchia”, e alla palese violazione della sovranità nazionale l'indignazione, è stata pressoché unanime. Perché? A cosa dobbiamo questo sentire comune, questo moto spontaneo tanto ovvio che non sembra avere alcun bisogno di essere spiegato? Per quale motivo di fronte alla Nazione i più si sentono in dovere e in diritto di porsi sull'attenti finendo con il porre tra parentesi, almeno momentaneamente, le non secondarie differenze che li caratterizzano? A cosa dobbiamo il fervore che la parola Nazione e sovranità nazionale indubbiamente suscitano? Perché, ed è lì che sta il nocciolo della questione, si parla di violazione della sovranità nazionale e non della sovranità statuale? Perché del binomio Stato – Nazione è la seconda a essere continuamente posta in primo piano? Ma che cos’è la Nazione? In base a quale malinteso la Nazione è foriera di tanto sentimento?

 

 Tutti, presumibilmente, hanno a mente quel capitolo che, indipendentemente dagli orientamenti politici e ideologici degli estensori, troneggia nei manuali scolastici relativi alla storia contemporanea. “Il risveglio delle Nazioni” è, infatti, un capitolo che non può mai mancare. Sin dal titolo, in maniera chiara, netta e precisa è sintetizzato il succo del discorso. Dopo secoli di sonnolenza e letargo all’improvviso le Nazioni tornano in vita. Ciò che, sino a un attimo prima, era una moltitudine di popolazioni tenute insieme da vincoli territoriali il cui unico legame con gli apparati statuali era rappresentato dalle forme di dominazione che questi esercitavano nei loro confronti improvvisamente ri – scoprono le proprie autentiche origini. Quelle popolazioni diventano o meglio tornano a essere spagnoli, francesi, italiani, tedeschi ecc., ecc. per il semplice motivo, questo il succo del discorso, che lo sono sempre state. Questo, in poche battute, l’ordine del discorso che attraversa i manuali di storia.

 

Questa l’idea – forza posta in gioco.

Quanto, tutto ciò, sia a dir poco fantasioso è persino superfluo argomentarlo. Ciò che, all’improvviso, si definisce

 

Nazione è un territorio entro il quale, per secoli, popolazioni diverse e sovente nemiche hanno coabitato, dando vita a un susseguirsi di rapporti di dominazione, la cui genealogia non è sempre facile ricostruire. Per di più, e sotto questo aspetto il nostro Paese ne rappresenta un vero e proprio paradigma, la costruzione del “popolo nazionale” sovente non è altro che l’effetto di una occupazione di tipo coloniale che ha inglobato, per decreto, un insieme di popolazioni entro i suoi perimetri. Storiografia di regime a parte, tutti gli storici degni di questo nome non hanno potuto far altro che rilevare come, a conti fatti, la Nazione italiana sia stata il frutto di una serie di annessioni ad opera della monarchia sabauda dove il sud Italia ha assunto il ruolo di colonia interna. Per altro verso non è proprio facile e lineare comprendere come la nostra consorella Transalpina passi all’improvviso da Gallia a Francia. Notoriamente Asterix è un gallo, non un franco e i burgundi, che a lungo sono stati presenti come dominatori nei territori divenuti Francia, sono ancora un’altra cosa ancora.

 

Difficile, per non dire impossibile, trovare nei meandri delle origini culturali la spiegazione di questi passaggi. Per quanti sforzi si faccia nessun sostrato culturale è in grado si sostanziare l’idea di Nazione. Se vogliamo comprendere il senso di tale malinteso dobbiamo volgere lo sguardo non in alto, verso il cielo della teoria e della cultura, bensì in basso, ovvero dentro la materialità delle parole e delle cose. Lì e solo lì, allora, diventa possibile comprendere ciò che, a uno sguardo alieno, non potrebbe che apparire del tutto inspiegabile. Il “segreto” della Nazione consiste nell’aver dato un volto a quel magma indistinto rappresentato dalle masse subalterne, le cui sorti e fortune erano del tutto aliene agli interessi del potere, in un unicum di rilevanza strategica. Quella massa informe e indistinta diventa popolo e, soprattutto, un popolo. Questo popolo sarà perimetrato entro precisi confini politici, sociali, economici e culturali. Il popolo si fa Nazione. L’idea di Nazione ha buon gioco poiché poggia su un elemento, questo sì naturale, concreto e reale per la vita dei subalterni, ovvero il legame di questi con il territorio. Le retoriche della e intorno alla Nazione poggiano per intero su quell’elemento tellurico proprio della vita delle masse subalterne. Qua, allora, il discorso può farsi interessante e, in qualche modo, riattivare quelle semantiche altre del discorso che l’idea di Nazione ha fatto balenare e ha continuato a portarsi appresso. L’idea di Nazione che la Rivoluzione francese, soprattutto nella sua torsione giacobina, inaugura ha sicuramente tratti e forme ben diverse da quelle che, in seguito, diventeranno le retoriche comuni sulla medesima.

 

File source: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Max_Adamo_Sturz_Robespierres.JPGCentrali in questa breve esperienza sono due aspetti. Il prevalere della Nazione sullo Stato. Per l’ala rivoluzionaria della borghesia non è lo Stato a dover perimetrare la Nazione bensì il contrario. Si tratta di un passaggio che, in qualche modo, porta in seno la Comune e i Soviet. In seconda battuta, e con ogni probabilità ne rappresenta l’aspetto centrale, l’idea di popolo della Grande rivoluzione è declinata al plurale e non al singolare. Sarà Termidoro e non Robespierre a trasformate il popolo in quanto moltitudine in popolo specificatamente francese. Sarà la controrivoluzione a legittimare l’uno per scongiurare la sovversione propria del molteplice. Tra i subalterni, però, sarà proprio l’idea giacobina a fare presa. Non è un caso che proprio da questa e dalle suggestioni a cui, in quanto aspirazioni universali del molteplice, ègalitè e fraternitè rimandano, prenderanno forma le lotte di liberazione anticoloniali. Questo bagaglio storico non va rigettato.

 

Una volta liberata l'idea radicalmente democratica di “territorio” contenuta nel concetto di Nazione dalla sua costruzione ideologica, ossia lo Stato/ Nazione, appare più facile affrontare la questione senza, per forza di cose, ritrovarsi inglobati dentro le retoriche neonazionaliste care a tutti i populismi presenti e futuri. Ciò che va assunto, quindi, è il territorio come terreno reale, concreto e materiale dell'esercizio di potere dei subalterni. In questi anni abbiamo assistito all'imporsi, da parte delle élite, di un insieme di ordini discorsivi finalizzati a destrutturare l'idea di Nazione in nome di un cosmopolitismo proprio delle classi agiate. Abbiamo assistito, cioè, alla messa in mora non tanto dei confini i quali, piuttosto, nei confronti dei subalterni si sono decuplicati ma dell’idea di Nazione in quanto contenitore del popolo. Abbiamo assistito, cioè, alla destrutturazione dell’idea di popolo così come questa si era configurata all’interno di quel processo storico che ha portato alla fondazione della Nazione. Le classi agiate hanno decretato che l’era dei popoli volgeva al termine e che, al suo posto, prendeva forma l’era degli individui. Da “Il risveglio delle Nazioni” a “Il risveglio degli individui” è stato il nuovo capitolo approntato dai manuali di storia. Sulle ceneri del popolo e della Nazione prendeva così forma e sostanza l’epopea dell’individuo. Un individuo non astratto ma estremamente reale e concreto: l’individuo neoliberista. Un individuo, cioè, interamente proiettato e inserito dentro il sistema – mondo. Un individuo che non ha bisogno di alcuna dimensione tellurica poiché, i non – luoghi della cosiddetta post – modernità, sono la sua casa.

 

La casa di questo individuo è ovunque poiché gli spazi che abitualmente abita sono sempre uguali a se stessi. In ogni posto trova le stesse e medesime cose. Le catene delle multinazionali che giganteggiano nei centri delle metropoli rendono affini questi ambiti urbani così come del tutto identici sono gli hotel, i ristoranti, i teatri e via dicendo che l’individuo neoliberista attraversa e consuma. Per la nuova classe agiata ogni legame territoriale si è fatto superfluo e, con questo, ogni retorica intorno alla Nazione e ai suoi perimetri. A conti fatti, quindi, la relazione e il legame con il territorio rimanda solo e unicamente alla postazione sociale che si occupa. Per i subalterni, infatti, è pressoché impossibile sganciarsi dalla dimensione tellurica. Il territorio era e resta la sua determinazione principale. La vita dei subalterni, i loro rapporti sociali, non possono che darsi dentro questa dimensione. I subalterni non vivono nel sistema – mondo, non abitano i non – luoghi della post – modernità, non si trovano a loro agio nel centro di Londra come nel cuore di New York, non salgono su aerei che li depositano in aeroporti sempre uguali a se stessi, non mangiano lo stesso cibo a Roma e a Berlino, non comprano gli stessi vestiti a Mosca e a Nuova Delhi. I subalterni, quando viaggiano, lo fanno faticosamente su bus a basso costo o su treni a velocità ridotta dovendo, per di più, affrontare controlli infiniti ai vari confini che il sistema – mondo ha istituito per bloccare, impedire e limitare la loro mobilità. Infine mangiano i cibi a basso costo del luogo e comprano i vestiti tenendo a mente le offerte di un qualche mercato rionale. La distanza tra loro e le classi agiate è incommensurabile. In fondo la cornice esistenziale dei subalterni è pur sempre quella de I ragazzi della via Pál.

 

Da sempre i subalterni si sono dimostrati particolarmente proni alle retoriche del “patriottismo di quartiere”, un patriottismo il cui unico presupposto è l’appartenenza territoriale. Nessuna razza, etnia, cultura è all’origine del “patriottismo di quartiere” se non l’appartenenza alla vita di quel territorio. Sappiamo che c’è tutta una lunga storia di questo “patriottismo” una storia fatta di gang di quartiere, di “batterie” di rapinatori cresciuti dentro la dimensione territoriale per arrivare a formazioni guerrigliere che, proprio a partire da questa condizione, hanno portato l’assalto al cielo. Insomma il territorio è sempre stato il luogo dove i subalterni hanno consumato le proprie esistenze ed esercitato la propria soggettività. Pensiamo alla figura del partigiano. La guerra partigiana è stata, sin da subito, la forma guerra per eccellenza praticata dai subalterni. Dai contadini e dalla plebe spagnola, passando per il contadino russo, per le formazioni operaie e contadine antinaziste, sino alle guerre anticoloniali e così via, la guerra partigiana è stata la sola forma-guerra interamente subalterna. Una guerra, e non è cosa da poco, dimostratasi pressoché invincibile. Tutto ciò è stato possibile grazie al legame indissolubile tra subalterni e territorio. Un legame che non è possibile sradicare. La Nazione può andare in frantumi, ed è un bene che ciò avvenga, ma la dimensione tellurica si mostra inossidabile. Nessuna retorica della classe agiata è in grado di archiviarla. È una questione tutta interna alla materialità esistenziale, nessuna retorica culturalista è in grado di venirne a capo. E allora?

 

Torniamo al fatto dal quale il testo ha preso le mosse: l’invasione militare francese in territorio italiano. Di fronte a un atto simile dobbiamo rifugiarci e trincerarci dietro la rigidità statuale della sovranità nazionale, dobbiamo dichiarare, a nostra volta, la sacralità del confine oppure, a partire dalla materialità tellurica propria dei subalterni dobbiamo praticare la frontiera partigiana ovvero dare forma, sostanza, contenuto e potere a un “governo del territorio” il cui scopo sia, attraverso l’esercizio del contropotere, destrutturare in continuazione le linee rigide della segmentazione statuale? Dobbiamo farci nuovamente Stato/Nazione o, più sensatamente, dobbiamo farci espressione della dimensione tellurica propria dei subalterni recuperando in ciò quel frammento di idea di Nazione plurale e molteplice velocemente archiviato dalla reazione borghese? Le nostre affinità elettive le troviamo nella forma banda de I ragazzi della via Pál o nelle retoriche che hanno fatto da sfondo al sorgere dell’epopea borghese. Il nostro territorio è dato dalla rigidità del confine o dalla porosità della frontiera partigiana? L’essenza tellurica del partigiano insieme all’altra sua non secondaria caratteristica che è la mobilità rifiuta le rigidità proprie della statualità e della perimetrazione che lo Stato/Nazione comporta, proprio in quanto esse esprimono le forme, storicamente molteplici, con cui le classi dominanti esercitano il proprio potere nello scontro di classe. Praticare oggi la frontiera partigiana vuol dire immediatamente porre all’ordine del giorno una linea di condotta in grado di disarticolare lo Stato-Nazione, riconoscendo al contempo la realtà di una nuova composizione di classe immediatamente internazionale, che incarna una nuova idea di “nazione” e di “popolo”, un’idea il cui nome deve essere ancora pronunciato.

Ecco che, allora, se osservati sotto questa angolazione i “fatti di Bardonecchia” possono essere un’occasione per la produzione di una critica pratica dell’idea del confine perché, questo il punto, ogni confine e ogni rigidità statuale è sempre nemica dei subalterni.

 

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