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06 Febbraio 2018

 

America first a suon di bombe

di Fabrizio Casari

 

Si intitola “Revisione della posizione nucleare” il documento del Pentagono pubblicato tre giorni orsono e viene considerato una prima riforma della dottrina nucleare militare degli Stati Uniti. In effetti, vi sono contenute le idee e i progetti operativi (quelli che vogliono si sappiano, off course) con cui Washington pensa di fronteggiare le “minacce alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

 

La nuova dottrina si differenzia da quella precedente soprattutto per un aspetto: lo sviluppo di molteplici aree di crisi (spesso originate proprio dagli interventi statunitensi ndr) rendono necessaria, agli occhi del Pentagono, una modalità d’intervento più rapida e simultanea in scenari diversi.

 

Si pensa che la strategia militare nucleare, fondata fino ad oggi sulla capacità di colpire ogni angolo del pianeta con ogive di straordinaria potenza, vada sostituita con un nuovo approccio, che prevede il proliferare di ordigni di minore potenza e dimensioni d utilizzare con maggiore agilità. Si ritiene, infatti, che una riduzione della loro capacità distruttiva, dunque un utilizzo più “tattico” dell’armamento nucleare, non comporti per converso una reazione uguale e contraria da parte delle altre potenze, con un rischio minore di generare una risposta termonucleare globale che vedrebbe come vittima gli stessi Stati Uniti.

 

Ad esempio, Corea del Nord e Iran sono alcuni degli scenari nei quali Washington ritiene probabilmente di poter operare con armamento nucleare tattico di dimensioni e potenza ridotte, nella convinzione che un uso limitato (ammesso che esista una modalità limitata nel nucleare) possa non determinare in automatico una risposta nucleare da parte, ad esempio, di Russia e Cina. Le quali però non hanno risparmiato critiche al nuovo progetto a stelle e strisce. Pechino ha definito quello statunitense “un intento di ampliare ulteriormente il suo arsenale nucleare”, mentre Mosca ha avvertito che la mossa “non resterà senza adeguata risposta”.

 

Proprio le ridotte dimensioni degli ordigni favorisce il principio less is more: più la distruttività è limitata, più è possibile un loro uso in combattimento. Così chiudendo la fase storica iniziata dopo Hiroshima e Nagasaki che aveva posizionato l’atomica nella sola cornice di deterrenza, dal momento che sulla reciproca dissuasione nucleare risiedeva la coesistenza tra blocchi e/o potenze termonucleari globali.

 

L’adeguamento della dottrina militare nucleare del Pentagono sembra anche voler proporre una modalità d’intervento sempre meno condizionata dall’invio di decine di migliaia di soldati (dimostratasi ormai inutili a determinare vittorie definitive statunitensi) e sempre più da droni armati con testate di minor volume e capacità di distruzione. L’utilizzo di atomiche, sebbene minori di quelle collocate strategicamente, comporta anche una modificazione della modalità d’intervento, dato che il bombardamento con testate nucleari esclude l’invasione di terra con truppe. Il che produce riflessi anche sotto il profilo del budget della difesa, che verrebbe sottoposto ad un cambio d’indirizzo nei suoi flussi di spesa.

 

Insomma il Pentagono sembra voler inviare un messaggio chiaro: non cerchiamo più di svolgere operazioni di “polizia internazionale”, di ripristino con la forza di ordini politici deposti da processi rivoluzionari, o anche da semplici elezioni che esprimano cambi di governo sgraditi agli Stati Uniti. Occupare paesi costa anni e miliardi di dollari oltre che migliaia di vite umane statunitensi. Dunque da ora attacchiamo per distruggere, non per gestire, intendiamo azzerare e non circoscrivere, pensiamo ad annientare e non a salvaguardare. Infatti, anche bombe di kilotoni ridotti determinano una distruzione irrimediabile di interi territori, risorse e seranze di vita per ogni essere vivente.

 

Il racconto che viene fornito per questa nuova strategia militare s’incentra comunque sull’identica leva degli ultimi 70 anni, ovvero l’adeguamento della strategia militare alle necessità della sicurezza nazionale. Ovviamente, la questione della sicurezza nazionale statunitense è tema opinabile.

 

Vista dal punto di vista di Washington, tutto ciò che rappresenta l’indipendenza o persino una parziale autonomia di uno o più paesi dalle linee di politica economica e militare dettate dagli Usa, diviene automaticamente una minaccia alla sicurezza nazionale. Si tratta di garantire la salvaguardia del modello “american way of life”, che si regge su un precetto che prevede che gli USA, cioè il 5% della popolazione del pianeta continuino a consumare il 60% delle risorse disponibili.

 

D’altra parte, gli Stati Uniti sono diventati già nel corso del secolo scorso l’unica superpotenza militare proprio in ragione di una capacità di estrarre ricchezza fuori dai suoi confini, determinare gli assetti politici, economici e commerciali dei 4 angoli del pianeta ed imporre al resto del mondo il loro modello di governance attraverso la minaccia militare, comprendente anche la componente nucleare.

 

Impossibile non legare questa nuova strategia militare alle rinnovate ambizioni politiche anche nel continente americano: la nuova aggressività nei confronti di Venezuela, Cuba e dell’insieme dell’America Latina, indicano il ritorno alla infame Dottrina Monroe. Sul piano internazionale più ampio, la strategia di accerchiamento alla Russia, di contenimento della Cina e di minacce più aperte in paesi come Iran e Corea del Nord, indicano con chiarezza il tentativo di recuperare, costi quel che costi, il ruolo di leadership mondiale ormai appannato dalla fine del predominio nel campo finanziario e tecnologico e dall’arretramento militare intervenuto a seguito dell’impantanamento in Asia Minore e Medio Oriente.

 

 Sotto il profilo della politica interna la Nuclear Posture Review, con la quale Trump ritiene di dover disegnare la strategia di controllo militare sul pianeta, conferma come ormai sia il Pentagono il vero inquilino della Casa Bianca. Il presidente Trump non è che il firmatario di scelte strategiche e indirizzi di politica estera e militare decise dai militari. Che sono ormai lo scudo a difesa dell’Amministrazione Trump, ma utilizzano a proprio vantaggio le sue difficoltà di fronte dagli attacchi della CIA e dello FBI, così come del Partito Democratico e di una parte dei media.

 

I militari festeggiano. Proprio il complesso militar-industriale, da sempre principale volano economico degli Stati Uniti, troverà nella messa in produzione di decine di migliaia di nuove ogive una nuova, straordinaria fonte di profitti. Nel riproporre la teoria dell’accerchiamento multilaterale agli interessi nazionali, nel proseguimento della strategia di contenimento militare di ogni altro paese che non sia Israele (con il quale ormai il comando politico-militare appare congiunto), trovano le ragioni per budget sempre maggiori, fatti di commesse ogni volta più ricche, che generano corruzione ogni giorno più grande e crescita indefinita della loro influenza sul governo. Democratico o repubblicano che sia, poco importa. La Casa Bianca assumerà sempre più il colore di una mimetica.

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